Intervista a Mauro Palma

 

L’Europa in manette

Parla Mauro Palma, del Comitato europeo contro la tortura

 

Il Manifesto, 14 agosto 2003

 

Mauro Palma, presidente onorario dell’Associazione "Antigone", è uno dei massimi esperti italiani di politiche sul carcere. Oggi lavora come rappresentante italiano presso il Comitato europeo per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa.

 

La vicenda indultino si è conclusa. Che ne pensi di questa legge?

L’indultino va interpretato come una premessa per tornare a ragionare del carcere nel suo complesso. A mio avviso il suo vero significato sta nel valore del gesto e non nell’efficacia della proposta, che sin dall’inizio si sapeva molto limitata. Non si sa quanti detenuti preferiranno sottoporsi ai controlli quinquennali stabiliti da questa norma piuttosto che attendere pochi mesi e avere una piena libertà.

 

I detenuti in Italia sono quasi 57mila. Con l’indultino dovrebbero diventare 52mila. È un risultato soddisfacente?

I posti ufficiali, secondo gli standard europei per la detenzione, sono poco più di 42mila. La cosiddetta capienza "tollerabile", di cui si parla sui giornali, non ha un significato chiaro e condiviso. Sarebbe quindi stato necessario un indulto generalizzato.

 

È una soluzione costruire nuove carceri?

Nelle condizioni in cui siamo credo che si debba affrontare la questione anche sul piano edilizio. Se i nuovi istituti sostituiscono quelli fatiscenti è un fatto positivo. Ma deve essere chiaro che non è questa la via per affrontare il fenomeno, se non ci si vuole trovare tra dieci anni con tassi di detenzione più alti e con la stessa percezione sociale d’insicurezza.

 

Se esistesse in Italia una vera riflessione politica sul carcere, quali sarebbero le priorità?

Le questioni, a mio avviso, sono tre. Primo: la gestione del carcere esistente, attuale, da realizzare con modalità rispettose della dignità delle persone e tendenti a ridurre il fenomeno dei successivi "ritorni" in carcere. Secondo: arginare l’espansione della detenzione, che ormai riguarda settori sociali ben individuabili. Terzo: ridurre la richiesta di reclusione che viene dalla società.

 

Il problema del maggiore ricorso al carcere non è però solo italiano…

L’influenza del modello americano sull’Europa è forte. Gli Usa oggi hanno più di 7 detenuti ogni mille abitanti, solo 25 anni fa ne avevano poco più di uno. Nel frattempo non è aumentato in modo simile né il tasso di criminalità né la capacità di perseguire i crimini.

 

E in Europa?

Anche in Europa aumenta la popolazione detenuta: nell’Europa occidentale si ha quasi ovunque un detenuto ogni mille abitanti, con alcuni picchi verso l’alto in Portogallo (1,4 detenuti ogni mille abitanti), in Inghilterra (1,3) e in Spagna (1,27) e alcuni picchi verso il basso nei paesi dell’area scandinava. La situazione è molto più grave nell’Europa dell’Est. In totale le persone private della libertà sono quasi 2 milioni.

 

Come si può arginare questa espansione del carcere?

In generale, in carcere si entra di più e si esce di meno. Si entra di più per l’enfasi crescente data all’arresto e alla detenzione rispetto ad altri possibili strumenti di regolazione sociale. Si esce di meno per una diffusa sensazione che ogni misura alternativa è in fondo una sottrazione alla pena dovuta.

 

Ma è ancora percorribile una via come questa, che appare sempre più sotto assedio?

Il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa già nel 1999 ha invitato gli Stati membri a precedere politiche penali di questo tipo. Non c’è dubbio che alcuni degli strumenti alternativi sono più efficaci della detenzione.

 

Per esempio?

Pensiamo ad un amministratore corrotto. Mi sembra più efficace una pena interdittive che non un arresto domiciliare. Anche per alcuni reati di strada sarebbero meglio pene sostitutive come i lavori socialmente utili. Non è una via facile ma va percorsa, se non ci si vuole trovare in perenne emergenza numerica.

 

E la famosa "certezza della pena"?

Bisogna far capire che la certezza della pena non è contraddetta dalla sua flessibilità. Cioè dalla possibilità di valutare la situazione via via che avanza il percorso del detenuto.

 

Qual è il rapporto tra carcerati e detenuti in misure alternative, da noi?

Nel 1990 i detenuti in Italia erano 29.500 e le persone in misura alternativa erano 3.500. L’area penale era, quindi, di 33mila persone. Oggi, con 57mila detenuti, le persone in misura alternativa sono quasi 30mila, con un’area complessiva di più di 85mila persone.

 

Cresce il numero dei carcerati e s’impenna quello dei detenuti in misure alternative…

È così. Il paradosso attuale è che, a volte, le misure alternative spingono a dare una pena più alta, sapendo che tanto una parte sarà scontata sotto questa forma.

 

Passiamo alle proposte. Come si può garantire un carcere decente?

Il tempo carcerario deve essere "utile" a qualcosa. In termini di formazione o istruzione, per esempio. Bisogna superare l’idea di un tempo trascorso in cella senza fare nulla. I primi nodi su cui intervenire, al di là dell’affollamento, sono quindi la sanità, il lavoro, il tempo detentivo, il rientro nella società, la tutela dei più deboli.

 

Quali figure professionali sarebbero utili per questo percorso?

In Italia ci sono buoni operatori ma sono stati pensati per una popolazione detenuta diversa, quella della fine degli anni 70. Oggi la situazione è più complessa e richiede anche altre figure, come i mediatori culturali, che possono evitare i conflitti dovuti alla coesistenza di culture e lingue diverse. L’unica figura professionale rimasta all’interno del carcere è quella della polizia penitenziaria, aumentata di numero ma gravata dall’intera gestione quotidiana. Se non si vogliono avere condizioni invivibili anche per gli operatori, bisogna ripensare le figure professionali e investire nella loro formazione.

 

Che ne pensi del difensore civico delle persone private della libertà istituito a Roma?

È un fatto positivo che anche altri enti locali stanno elaborando. Un garante efficace, però, dovrebbe vigilare non solo sui detenuti ma anche su coloro che sono ristretti nei centri per immigrati, o nelle stazioni delle varie polizie. È ormai necessaria un’autorità nazionale di controllo, garanzia e mediazione che non agisca in termini strettamente giudiziari. A questo nuovo ufficio dovrebbero essere garantiti poteri essenziali: l’accesso, in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo di detenzione, la visione dei fascicoli, la possibilità di intervistare in privato le persone. Una legge che va in questa direzione è già stata presentata. Bisognerebbe approvarla.

 

 

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