Articolo di Vittorio Grevi

 

L’indultino? È il "male minore" per svuotare le celle

di Vittorio Grevi (Docente di diritto penale a Pavia)

 

Corriere della Sera, 2 agosto 2003

 

Diciamo subito che la legge approvata ieri in via definitiva dalla Camera, con la quale viene concesso il cosiddetto "indultino" (tecnicamente definito come "sospensione condizionata della esecuzione della pena detentiva fino ad un massimo di due anni") a favore dei condannati che abbiano già scontato almeno metà della pena inflitta, con esclusione dei più pericolosi, non sollecita soverchi entusiasmi.

Ciò è vero, anzitutto, su un piano generale, come capita sempre rispetto ad ogni provvedimento di clemenza (amnistia o indulto), che per sua natura contrasta con il principio di eguaglianza di fronte alla legge, quindi anche con il principio di legalità, nonché con le stesse funzioni della pena. E questo senza dire che - come l’esperienza insegna - una notevole percentuale dei detenuti liberati, presto o tardi commetterà nuovamente dei reati, e quindi tornerà purtroppo a varcare le porte di un carcere.

Questa volta, poi, si tratta di una legge avente nella sostanza il contenuto di un indulto condizionato (come dimostra la sua prevista applicabilità esclusivamente ai condannati "in stato di detenzione ovvero in attesa di esecuzione della pena alla data di entrata in vigore" della medesima legge), che tuttavia è stato "mascherato" sotto una diversa rubrica, per poter aggirare il disposto costituzionale volto a stabilire procedure più rigorose per le leggi di amnistia e di indulto. Il che non può non suscitare fondate perplessità.

Non siamo di fronte, dunque, per vari aspetti, ad una legge di cui il nostro mondo politico possa essere troppo orgoglioso. Anche perché essa testimonia, attraverso la sua storia tormentata, scandita da diversi passaggi dall’una all’altra Camera, l’incapacità del Parlamento di elaborare senza assilli e con la necessaria riflessione un così delicato provvedimento di politica criminale. Ciò non toglie che, al punto in cui siamo, la nuova legge costituisca una sorta di "male minore", tenuto conto delle attuali gravi condizioni dell’universo carcerario.

A parte il suo significato di risposta all’appello per un "segno di clemenza" formulato dal Sommo Pontefice proprio nelle Aule parlamentari, ed accolto da grandi consensi, essa, infatti, viene incontro alle ragioni di attesa che da allora si sono sviluppate dentro le mura penitenziarie e che non essendo state smentite in sede politica hanno a poco a poco creato un clima di affidamento, rispetto al quale una ulteriore delusione avrebbe potuto provocare esiti traumatici.

Questo naturalmente non è, di per sé, un argomento decisivo; e tuttavia bisogna evitare, a livello politico, che si creino situazioni del genere. Ma, soprattutto, bisogna evitare - per esempio attraverso adeguate scelte di edilizia penitenziaria - che si perpetuino nelle nostre carceri quelle condizioni di drammatico sovraffollamento che, in ultima analisi, costituiscono la più seria giustificazione della legge approvata ieri: per motivi, dunque, essenzialmente umanitari.

La speranza è che l’uscita anticipata dal carcere di alcune migliaia di detenuti giovi davvero alle condizioni di vita di quelli destinati a rimanervi reclusi; e, d’altro lato, che l’alleggerimento dei numeri della popolazione detenuta, che si realizzerà nelle prossime settimane, non venga troppo presto vanificato.

 

 

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