Giustizia riparativa mediazione penale

 

Conclusioni, a cura di Maria Pia Giuffrida

(Dirigente Generale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e

Presidente della Commissione di studio "Mediazione Penale e giustizia riparativa")

 

Dall’esame dei fascicoli dei 4.511 soggetti affidati al servizio sociale, che hanno concluso la misura alternativa nel periodo 1 gennaio - 31 maggio 2002, è emersa una ingente quantità di dati che permettono di dare una lettura valutativa sull’applicazione della "prescrizione riparativa" nell’affidamento in prova al servizio sociale.

Il primo risultato di maggiore evidenza è però relativo alla incompletezza dell’inserimento dei dati, che in qualche caso potrebbero essere recuperati o affinati con una più approfondita consultazione dei fascicoli. In ogni caso si tratta di un risultato operativo molto interessante sul quale impegnare varie competenze per recuperare qualità e quantità al fine di ottimizzare le procedure di lavorazione e controllo, per la restituzione efficace di informazioni utili all’assolvimento dei compiti istituzionali.

Tralasciando considerazioni di contesto, certamente note agli addetti ai lavori, si ritiene di potere così riassumere i risultati del monitoraggio, integrando l’esposizione con alcuni commenti e valutazioni.

Preliminarmente si ricorda che l’universo di riferimento ricomprende prevalentemente soggetti di età tra i 32 e i 45 anni, nella maggioranza dei casi di sesso maschile, coniugati.

Si delinea un quadro di precarietà culturale estremamente diffusa, con livelli di scolarizzazione che non superano, in oltre l’80% dei casi, la licenza media inferiore. Tale precarietà trova riscontro nella condizione socio-economica degli affidati presi in esame, tra i quali prevale nettamente la categoria di lavoratore generico, seguita dalla condizione di disoccupazione.

Essi hanno prevalentemente commesso reati contro il patrimonio, tipologia cui, in ordine di grandezza, fa seguito quella relativa alla violazione della legge sugli stupefacenti.

Anche se non particolarmente rilevante, in termini percentuali, sembra importante ricordare – per le successive valutazioni - la presenza nell’universo di riferimento di reati ambientali, contro la P.A., contro la fede pubblica e dei reati di impresa (668 casi complessivi).

Larga parte dell’universo ha precedenti penali (3373), dato che sarebbe oltremodo interessante approfondire per acquisire elementi che possano indicare se trattasi di recidiva specifica o generica, conoscenza non ininfluente ai fini di una corretta impostazione di un progetto trattamentale/riparativo individualizzato.

Dall'analisi degli incroci dell'età dei soggetti affidati e della tipologia di reato con la posizione giuridica, si è avuta conferma della maggior ricorrenza di precedenti penali in soggetti appartenenti a classi di età ricomprese tra i 18 e i 24 anni e tra i 39 e i 45 anni (tabella I°), ed una maggiore ricorrenza di precedenti penali in soggetti che abbiano commesso reati contro il patrimonio ed abbiano violato le leggi sugli stupefacenti (tabella II°).

Dalla lettura delle schede pervenute è emersa - come già citato - una grande difficoltà da parte degli operatori a "recuperare" nei fascicoli il dato relativo sia alla durata della pena, sia alla durata dell’affidamento dei soggetti presi in esame. Il numero delle mancate risposte al questionario, tra l’altro, si attesta sul 50% circa, dato questo che lascia trasparire in maniera inequivocabile il fatto che spesso i Centri di servizio sociale non conoscono tali dati, che non abbiano fonti documentali di conoscenza, o che comunque non annotino i dati pervenuti, benché trattasi di notizie fondamentali per contestualizzare il loro operare.

Sarebbe interessante approfondire tale situazione con riferimento alla tipologia di affidamento: l’esperienza operativa di chi scrive infatti lascia affermare che, mentre nelle misure alternative concesse a soggetti detenuti l’assistente sociale acquisisce i dati giuridici presso la matricola degli Istituti, nel caso invece di soggetti affidati "dalla libertà" i Centri spesso iniziano a lavorare – su impulso della Magistratura di Sorveglianza - in assenza di una qualsivoglia notizia sulla durata della pena e, come si vedrà appresso, anche a volte sulla tipologia di reato.

La prevalenza comunque di soggetti con pena (o pena residua) da scontare al di sotto dei 24 mesi, ed in particolare la punta massima di casi con scadenza pena entro i sei mesi, porta inoltre ad affermare che la brevità della pena/misura è inversamente proporzionale alla possibilità di porre in essere il complesso lavoro degli operatori, sotto il profilo formale ed amministrativo nonché tecnico - professionale, sia in fase di indagine che durante l’esecuzione della pena.

Elemento che sarebbe oltremodo interessante indagare è quello riferito alla distanza temporale che intercorre tra la commissione del reato e la condanna definitiva, nonché - per i soggetti "liberi" - quali siano i tempi che intercorrono tra l’istanza di concessione dell’affidamento e la decisione del Tribunale di Sorveglianza.

È noto che non sarà possibile praticare questa correlazione fino al momento in cui il sistema informativo del Ministero della Giustizia non sarà pienamente attuato, garantendo omologhe modalità di inserimento dati da parte dei diversi segmenti del sistema.

È comunque altresì ben evidente che quanto più la condanna, e l’esecuzione della relativa pena, risulterà distante dal reato, tanto più sarà difficile produrre dei risultati in ordine alla prospettiva riparativa, con particolare riferimento all’ipotesi di praticare forme di mediazione tra vittima e reo.

Dal rilevante numero di casi considerati si ha conferma della prevalenza dei casi di affidamento ordinario (art. 47 o.p.) rispetto a quelli concessi "in casi particolari" con riferimento all’art. 94 T.U. 309/90. Il dato, coerente con le statistiche esitate dalla competente Direzione Generale del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, mostra inoltre una netta prevalenza di soggetti che accedono alla misura alternativa direttamente dallo stato della libertà, ai sensi della norma introdotta dall’art. 656 c.p.p., come modificato dalla cosiddetta legge Simeone (L. 165/98).

Per tale ultima tipologia di soggetti "dalla libertà", il cui numero è da anni in crescita esponenziale, va segnalata - oltre alla citata maggiore difficoltà che i Centri incontrano per acquisire le notizie sulla posizione giuridica degli stessi - la difficoltà di definire metodologicamente ed operativamente il concetto di osservazione e trattamento "dalla libertà", concetto su cui è infine intervenuto l’art. 118 del D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230.

Dai dati raccolti con riferimento alla fase istruttoria emergono alcune problematiche che limitano, sin dal principio, un corretto sviluppo degli interventi di competenza dell’ assistente sociale.

In particolare si rileva che solo sporadicamente (13,9%) è stata richiesta nell’universo in esame la sentenza di condanna, cosa che denota la sottovalutazione da parte dei Centri di questo elemento di conoscenza indiscutibilmente importante. Il dato peraltro è coerente con quanto prima rilevato in ordine alla mancata conoscenza della posizione giuridica, con particolare riferimento al reato commesso dal soggetto da prendere in carico. La lettura della sentenza infatti è ovviamente un livello di ulteriore approfondimento di una preliminare conoscenza documentale, che potrebbe permettere di contestualizzare in maniera corretta l’osservazione dei soggetti condannati, fornendo le necessarie chiavi di lettura rispetto a quanto viene riferito – in fase istruttoria – dagli stessi condannati o dai loro familiari.

In realtà, scendendo più nel dettaglio, dai dati si desume che laddove i Centri/operatori ritengano di acquisire la sentenza, essi si attivino prevalentemente nella fase istruttoria, mentre soltanto in un limitato numero di casi essi la richiedono durante l’esecuzione della pena, presumibilmente in ordine alla più pressante esigenza di conoscenza di elementi di certezza sul reato, per definire correttamente la eventuale prescrizione riparativa.

L’entità quasi ininfluente del dato, rispetto all’universo preso in esame, lascia comunque aperta una indubbia perplessità sulla possibilità del servizio sociale di sviluppare interventi sufficientemente individualizzati nei confronti degli utenti.

Non si può ovviamente in ogni caso far carico unicamente ai Centri di servizio sociale di una défaillance del sistema più ampio, con riferimento quindi in particolare alla Magistratura di Sorveglianza.

È infatti assolutamente incomprensibile – pur prendendo atto delle indubbie difficoltà operative che affliggono oggi i Tribunali e gli Uffici di sorveglianza, sommersi da un inverosimile quantità di istanze e procedimenti – come si possa supporre, ancor oggi, che i Centri riescano a porre in essere gli interventi di competenza, in maniera efficiente ed efficace, se non si cura di dare agli stessi le notizie sulla posizione giuridica dei soggetti condannati, con particolare riferimento – abbiamo detto – a coloro che presentano istanza di misura alternativa dalla condizione di libero, ai sensi della cosiddetta Legge Simeone.

Si vuole in altri termini affermare che, pur rilevando una oggettiva e discutibile assenza di prassi consolidate da parte dei Centri per acquisire i dati di cui sopra, si deve d’altronde, ancor più lapidariamente segnalare, che la Magistratura non può prescindere dall’inviare ai Centri, con la richiesta di indagine socio-familiare per i condannati che abbiano presentato istanza dalla "libertà", ogni dato di conoscenza utile per contestualizzare l’intervento richiesto. La Magistratura dovrebbe pertanto inviare ai Centri, contemporaneamente alla richiesta, ed automaticamente, i dati sulla posizione giuridica, la sentenza e - cosa che a volte non si verifica anche se può sembrare paradossale - i dati anagrafici e l’indirizzo del soggetto medesimo!

La riconosciuta difficoltà di acquisire la sentenza da o presso la Magistratura di sorveglianza trova conferma nelle risposte al questionario (tabella 11a) da dove risulta che i Centri tendenzialmente ne facciano richiesta alla Procura. Non si conosce però l’esito di detta richiesta, ma in ogni caso è sufficientemente noto che i tempi necessari per ottenere la documentazione giuridica così richiesta, non sono il più delle volte congrui con i tempi che la Magistratura dà ai Centri per relazionare in ordine all’indagine socio-familiare.

La richiesta di intervento infatti perviene, alla stragrande maggioranza dei Centri, in prossimità della data della camera di consiglio fissata per la discussione dell’istanza presentata dal condannato. Questa affermazione sufficientemente fondata sulla conoscenza del sistema Centri, andrebbe maggiormente indagata per avere più variegate risposte, e/o individuare quelle situazioni di maggiore empasse, in termini di efficienza o mancata efficienza di talune strutture, in rapporto al numero delle richieste di indagine pervenute, al numero di operatori presenti nei Centri, alla qualità ed esaustività delle risposte, al tempo disponibile intercorrente tra richiesta e camera di consiglio.

Questo ultimo punto richiama un’altra prassi che si ritiene di citare e cioè quella, peraltro assai ricorrente e consolidata in alcuni Tribunali di Sorveglianza, di non procedere più a richiedere l’indagine ai Centri in fase istruttoria, soprattutto per pene di breve durata e per istanze di affidamento ex art. 94. La scelta - quasi sempre unilaterale - anche se è comprensibile, stante la difficoltà asserita o reale di taluni Centri a rispondere nei tempi dati dalla Magistratura, non può essere in linea di principio condivisa.

Si ritiene infatti di tutta importanza che il Tribunale di Sorveglianza, nel decidere sulle istanze, non abbia soltanto il supporto di atti e documentazione proveniente da organi quali le FF.OO., o dall’avvocato di parte, ma acquisisca altresì l’indagine socio-familiare prodotta dagli assistenti sociali dell’Amministrazione penitenziaria. Questi ultimi soggetti istituzionali infatti sono portatori di una peculiare "capacità/competenza" tecnico-professionale, che permette di raccogliere ed interpretare dati di conoscenza ed osservazioni, che rischierebbero altrimenti di essere sottovalutati o dispersi, e che concorrono invece a dare del soggetto e del suo contesto una lettura valutativa e dinamica da cui far scaturire una ipotesi prognostica rispetto alla praticabilità di una misura alternativa.

Il mancato intervento del servizio sociale penitenziario in fase istruttoria inoltre produce un risultato negativo nella gestione della fase di esecuzione della pena/misura, laddove il Centro si trova a prendere in carico il soggetto direttamente all’atto dell’inizio dell’affidamento, e quindi senza una preliminare attività conoscitiva o acquisizione di dati socio-familiari o giuridici (che neanche in tale ipotesi vengono messi a disposizione dalla Magistratura), e senza avere previamente stabilito con il condannato un "patto/contratto trattamentale" nella prospettiva dell’accoglimento dell’istanza di misura alternativa.

Diminuisce pertanto la "contrattualità" istituzionale e professionale dei Centri, ed aumenta il rischio – non troppo astratto ma purtroppo molto fondato – di una difficoltà del condannato a comprendere le "regole" di una esecuzione di pena dalla libertà e in libertà.

Si vuole citare al proposito, ben consci di andare oltre l’interpretazione dei dati, la assoluta confusività con cui i Centri gestiscono l’avvio dell’esecuzione di pena degli affidati dalla libertà, compito questo esclusivo dei direttori dei Centri. Sempre più spesso infatti questi ultimi "rinunciano" a tale compito, delegandolo ad un assistente sociale e svuotandolo così di fatto di significato. Ciò avviene – va sottolineato - al di là del dettato normativo, che sembra sottovalutato, che all’art. 97, comma 3, attribuisce inequivocabilmente al direttore del Centro il compito di dare formale avvio all’esecuzione della pena, previa sottoscrizione da parte dell’affidando del verbale delle prescrizioni di cui al comma 5 dell’art. 47 o.p.. Tale compito non è delegabile come ulteriormente chiarito nel reg. di es. del 2000, dove all’art. 98 comma 3, si fa esplicito riferimento al direttore o "suo sostituto", e quindi a chi rappresenta formalmente l’istituzione. L’atto che dà avvio all’esecuzione della pena e "cristallizza gli impegni relativi ai rapporti del condannato con il servizio sociale..", afferma anche l’Ufficio legislativo del Ministero (nota n. 3561-6/1-15 U.L.), infatti non può essere delegato - come invece diffusamente accade, in maniera tra l’altro essenzialmente casuale - a uno o più dipendenti.

Dopo questa ampia digressione, ritornando al questionario ed in particolare alla tabella 12, si può rilevare che solo di rado viene effettuata con il condannato una adeguata riflessione sul reato, sulle conseguenze dello stesso e quindi sulla costruzione di un’eventuale ipotesi riparativa.

A parte le considerazioni sin qui sviluppate in ordine alla generica difficoltà di lavorare con i soggetti condannati, in assenza di conoscenza dei dati giuridici, tale situazione diviene, rispetto al dettato normativo dell’art. 27 reg. es., assolutamente inibitoria di un "sapere e poter fare" da parte dell’operatore nella fase istruttoria, e quindi durante le diverse attività/azioni che confluiscono e sostanziano l’attività di indagine.

Pur attribuendo però, dichiaratamente, un’elevata responsabilità all’oggettiva difficoltà degli assistenti sociali di contestualizzare il proprio agire professionale rispetto all’assenza di dati di conoscenza di tale rilevanza, la quota di casi in cui essi affermano di avere svolto un’attività di impulso nei confronti del condannato, per una riflessione critica sul reato e sugli effetti che lo stesso può avere prodotto, valutando conseguentemente la disponibilità dello stesso a definire un progetto a favore della parte offesa, sembra assolutamente irrilevante (21,6 %).

È da considerare che per i soggetti provenienti dalla libertà, l’assistente sociale rappresenta tra l’altro l’unico soggetto istituzionale con cui avviare il percorso di riflessione critica sul reato.

Sarebbe d’altronde da chiedersi cosa il servizio sociale ritenga poter essere "un’attività di riflessione critica sul reato", con la consapevolezza che, per molti anni dopo l’entrata in vigore della L. 354/75, l’approccio metodologico professionale degli assistenti sociali portava ad affermare la necessità di non prendere in considerazione il reato, ma piuttosto soltanto "l’uomo reo", sotto l’influsso di una ideologia "buonista" che riteneva che tale indifferenza rispetto al fatto reato, traducesse una posizione di necessaria imparzialità, in nome di un principio etico-professionale definito come "atteggiamento non giudicante".

Non è questo il luogo per entrare più approfonditamente in ulteriori considerazioni su tale indirizzo metodologico, che peraltro nel tempo ha trovato più congrue definizioni, se non per sottolineare l’importanza e l’urgenza, oggi, di dare un significato, un contenuto ed un metodo, all’azione di impulso alla "riflessione critica", definitivamente attribuita nel 2000 agli operatori del trattamento dall’art. 27 reg. es. e, specificatamente ai Centri, dal comma 8 dell’art. 118 reg. es..

Va citata ancora la posizione di molti assistenti sociali che, nei primi anni di applicazione della "prescrizione riparativa", ritenevano "superfluo" o quantomeno "differibile" affrontare con il condannato libero una riflessione critica sul reato, o ancor più invitare lo stesso a definire una ipotesi riparatoria in fase istruttoria, partendo dalla considerazione che, qualora l’istanza di affidamento non fosse stata accolta, il lavoro fatto sarebbe stato comunque inutile!

Alla domanda successiva (tabella 13), tra l’altro, tendente a rilevare quante volte il condannato sia stato informato sulla significatività della prescrizione riparativa ai fini del progetto di reinserimento, la percentuale delle risposte positive si abbassa sensibilmente, fermo restando il dato di circa il 20% di mancante di sistema. Anche qui non si può che cogliere una tendenza alla burocratizzazione dell’operatore penitenziario che – come meglio si vedrà appresso – sembrerebbe operare in maniera meccanica, in relazione all’obbligo di dare una risposta formale alla magistratura e perdendo di vista – nei colloqui fatti nella fase istruttoria – il significato e la prospettiva trattamentale prima ancora che riparativa.

Sembra quasi che la necessità di un adempimento formale superi e vanifichi i contenuti dell’operare professionale ma, così come non si può agevolmente contestualizzare un’osservazione in assenza di dati obiettivi sulla condizione giuridica dell’utente, altrettanto vero sembra che il perdere di vista gli obiettivi istituzionali e professionali, entro cui si colloca la competenza del servizio sociale, inficia il risultato dell’indagine socio-familiare, riducendola ad una sorta di fotografia, senza prospettiva e senza la dimensione dinamica legata ad una capacità valutativa.

La scelta sostanziale e valoriale è quella di affrontare pertanto la problematica riparativa partendo dall’art. 27 reg. es. e non (o non soltanto) dalla formale "necessità di agire" per l’operatore e il condannato in ordine alla prescrizione riparativa, sfuggendo così alla strumentalità da parte del condannato di aderire ad un percorso di riflessione critica quale atto dovuto per ottenere qualcosa (misura alternativa o beneficio), e sfuggendo altresì alla tendenza dell’operatore a scelte riduttive e burocratiche tese al mero adempimento.

Occorre – si può affermare – cogliere la necessità di definire l’operare professionale in relazione alla nuova dimensione riparativa, quale occasione per rivitalizzare i modelli professionali e metodologici dell’assistente sociale, recuperando la prospettiva trattamentale sancita costituzionalmente.

La necessità di tale rilancio si coglie altresì dal dato che emerge nel monitoraggio nella sezione "Il progetto trattamentale ed il contenuto della prescrizione riparativa".

In particolare, laddove viene chiesto se sia stata verificata la praticabilità dell’attività riparativa all’interno di un progetto trattamentale, ossia la possibilità di articolare la prima quale parte integrante di un più complessivo e individualizzato progetto trattamentale, il basso numero delle risposte positive (416), restituisce l’immagine di una realtà operativa - ancora una volta - legata alla necessità di un adempimento formale e burocratico.

Sembra quindi che l’assistente sociale si attivi quasi esclusivamente in rapporto alla presenza di una prescrizione, e non invece in rapporto al più ampio fine istituzionale, che fa riferimento non solo al paradigma riparativo ma anche e sempre a quell’obbligo a "fare trattamento" che è uno dei capisaldi della riforma penitenziaria.

Una prova ulteriore di questa ipotesi si ricava dalla netta prevalenza dei casi (88%) per i quali risulta che il percorso riparativo, nell’ambito di un progetto trattamentale, sia stato proposto dal Tribunale di Sorveglianza. Tale dato però - si deve presumere - va letto unicamente in relazione alla presenza, nelle ordinanze, di una prescrizione riparativa e non invece a un richiamo, da parte della Magistratura, ad integrare le due prospettive, così come sarebbe auspicabile.

A conferma di questa tendenza è utile richiamare la tavola di contingenza contenuta nella seconda parte del report, che lascia emergere con chiarezza come l’assistente sociale verifichi la praticabilità dell’attività riparativa, con una evidente maggior frequenza (71,10%), in relazione ad una prescrizione specifica imposta dalla Magistratura.

In particolare la prescrizione riparativa - contenuta nel 30% circa delle ordinanze degli affidati presi in esame - è solitamente espressa in forma generica (88,6%) e, soltanto nell’11,4% dei casi, è invece definita la tipologia di attività riparativa imposta al condannato.

Va citato che le sentenze della Cassazione n. 407 e 410, rispettivamente del 23.11.01 e dell’8.01.02, hanno definito la legittimità – al momento della concessione della m.a. - "di una previsione generica e di una sua specificazione successivamente, nel corso della misura, a cura del magistrato di sorveglianza, in forza dei suoi poteri di modifica e integrazione delle prescrizioni adottate dal Tribunale, e valendosi dell’attività informativa e di supporto del servizio sociale". Non sempre infatti, nel processo di rieducazione, in cui il ravvedimento del condannato è ancora in fieri, "…le modalità di esplicazione dell’attiva solidarietà saranno determinabili "a priori", e talora dovranno essere individuate in relazione alle esigenze e alla disponibilità dell’offeso, alle capacità dell’autore del reato ed ad ogni altra circostanza del caso concreto, nel corso stesso della misura".

La richiesta, sia da parte del Tribunale che del Magistrato di Sorveglianza, a predisporre un progetto riparativo, viene solitamente rivolta direttamente all’affidando/affidato, ma non manca un numero, anche se contenuto, di ben 97 casi (tabella 18) in cui, nel corpo dell’ordinanza, la prescrizione riparativa viene declinata "imponendo" al Centro di attivarsi a definire un progetto.

Al di là della competenza indiscutibilmente attribuita al Centro dalla legge di aiutare, sostenere, sollecitare e controllare i soggetti in esecuzione di pena (art. 118 reg. es.), e a definire un progetto trattamentale/riparativo, fa specie rinvenire nelle ordinanze, tra le prescrizioni imposte ad un condannato, una prescrizione che – nei fatti - vincola il Centro, quasi che i due soggetti – utente ed istituzione – fossero, nell’ottica della magistratura, sullo stesso piano.

È da sottolineare altresì – ritornando alla tabella 17 - la rilevanza del numero relativo ai dati mancanti relativi a ben 3151 casi, cui dovrebbero corrispondere le ordinanze prive di prescrizione riparativa, dato peraltro che, alla luce dell’analisi delle prescrizioni nelle ordinanze di affidamento condotta nell’aprile 2001 dall’Ufficio competente del Dap, trova sufficiente riscontro, anche se meriterebbe un approfondimento.

In realtà, si può presumere che, anche se una larga parte di Tribunali di Sorveglianza non inserisce nelle ordinanze di affidamento una prescrizione riparativa (né generica, né specifica), ciò non toglie che durante l’esecuzione non venga invece richiesto all’affidato da parte del competente Magistrato - come più sopra ricordato – di individuare una ipotesi/attività riparatoria.

Particolare attenzione è stata dedicata alla ricorrenza, nei casi presi in esame, di una specifica disposizione del Tribunale di Sorveglianza di contattare la parte offesa, sia essa contenuta nell’ordinanza, sia essa esplicitata in altro provvedimento preliminare o successivo all’esecuzione dell’affidamento.

La criticità collegata ad una tale disposizione, che ricorre in 124 casi (tabella 19), è elevata, in relazione alla ulteriore vittimizzazione che questa disposizione potrebbe facilmente produrre nella parte lesa.

Tenendo conto infatti che la prescrizione riparativa dovrebbe essere attuata nell’esecuzione di una pena, inflitta il più delle volte a una distanza temporale dalla commissione del reato estremamente dilatata, non si può non tenere presente il danno che potrebbe nuovamente prodursi nella vita della vittima: quest’ultima potrebbe avere ritrovato un equilibrio esistenziale ed elaborato il trauma del danno subito. Imporre al reo di "riparare" contattando la parte offesa, impone nei fatti alla vittima di essere "oggetto" di una riparazione, o comunque la costringe a rimettere in discussione i propri vissuti.

La prospettiva riparativa, con particolare riferimento a tecniche di mediazione, non è ovviamente da escludere, anzi il tentativo di sanare in qualche modo la frattura prodotta dal reato, riveste una importanza assolutamente incontrovertibile, ma il contatto con la vittima, oggi disposto in una prescrizione al reo, non sembra possa rispondere a quei criteri di assoluta e necessaria tutela dei diritti della vittima, non ultimo quello della privacy e del rispetto dei bisogni e delle scelte della stessa, né garantisce la gestione neutrale dell’eventuale incontro di mediazione.

Le ordinanze citate non sembra manifestino, nei Presidenti che le hanno emesse, particolare attenzione agli aspetti legati alla vittima, e più grave ancora appare tale prassi se si evidenzia che - in ben 47 casi - è il condannato che viene invitato a contattare personalmente la parte lesa, e che in 36 casi è il difensore dell’affidato che – nell’interesse del proprio cliente – interviene nella vita della vittima (tabella 19a).

I casi in cui interviene l’assistente sociale penitenziario (operatore che per compiti istituzionali possiamo definire anch’esso "di parte"), sono numericamente ininfluenti, stante peraltro le direttive ministeriali che impongono la massima tutela della vittima, la verifica caso per caso dell’opportunità/necessità di dare seguito alla richiesta di contatto, l’invito a ricercare altre azioni di giustizia riparativa, quali forme di riparazione non soltanto patrimoniale ma anche simbolica o indiretta.

Si evidenzia quindi la necessità di un "servizio neutrale" che si faccia carico del contatto con la vittima, e si ipotizza – da parte della Commissione - un’attenta sperimentazione di alcuni casi presso i Centri di mediazione già presenti in Italia nel settore minorile. Si afferma inoltre l’importanza di contatti con le associazioni delle vittime, che possano far comprendere la delicatezza della problematica ed eventualmente suggerire o contribuire ad individuare delle prassi adeguate.

Il problema è delicato e complesso, e non può trovare soluzione in queste pagine, preme però sottolineare che, poiché la mancata ottemperanza alla prescrizione da parte del reo determina oggi, nella giurisprudenza di taluna Magistratura, la declaratoria di inefficacia della misura alternativa, ogni azione riparativa e tra queste la mediazione - evento delicatissimo e di alto valore etico – rischia di assumere un significato di assoluta strumentalità.

L’analisi dei dati dei contenuti delle prescrizioni riparative (tabella 20) imposte agli affidati, mostra la prevalenza di ipotesi di riparazione materiale/economica della parte offesa (19,2%) e di attività gratuita a favore della collettività (17,6%) mentre solo nel 10% dei casi viene imposta una attività gratuita a favore della parte lesa.

Va segnalata l’apparente incongruenza tra i complessivi 934 casi cui viene data risposta, e i 155 casi in cui, secondo la tabella 17, vi è una prescrizione riparativa specifica, divario che può essere spiegato se si fa riferimento a diverse fasi dell’esecuzione della misura: spesso – abbiamo già detto - una prescrizione riparativa viene ad essere imposta successivamente all’ordinanza di affidamento, ovvero, la prescrizione già imposta in forma generica può essere successivamente dettagliata con riferimento a specifici contenuti.

Elevato è il numero delle risposte ricomprese nella voce "altro" (53,2%) ed ancor più alto è il dato relativo al mancante di sistema, che denota qui, come nelle altre tabelle, una incomprensibile bassa attenzione alla compilazione del questionario.

Nel caso della tabella 20, trattandosi di una delle tabelle che permettono di conoscere l’oggetto principale della ricerca (specificatamente i contenuti della prescrizione riparativa), tale sommaria compilazione e/o ricerca dei relativi dati nei fascicoli apre degli interrogativi cui si può rispondere riferendosi alla scarsità di tempo degli operatori o ad una bassa attenzione a profili di studio e analisi, o ancora, e presumibilmente è l’ipotesi più appropriata, ad una incertezza teorica ed operativa rispetto alla tematica della giustizia riparativa ed infine a quell’appiattimento sul fronte del mero adempimento cui si è precedentemente fatto cenno.

Soltanto in 126 casi risulta inoltre che i Centri si sono attivati per contattare enti ed associazioni del privato sociale (tabella 14), in un’ottica di pianificazione di rapporti tesi alla costruzione di una rete operativa, finalizzata a rendere attuabile l’attività riparativa. Con riferimento alla fase istruttoria potrebbe attribuirsi ad una scelta – peraltro non condivisibile - di non coinvolgere "inutilmente" - e cioè nell’incertezza della concessione della misura - soggetti terzi. Il dato relativo all’effettivo coinvolgimento di risorse e strutture esterne al sistema penitenziario, nella fase dell’esecuzione della misura (tabella 21), conferma anch’esso una bassissima attività di integrazione con i servizi pubblici o privati sul territorio (260 casi), ma rispetto alla tabella 14 si rileva un consistente aumento di investimento operativo.

Emerge comunque una maggiore frequenza di ricorso ad associazioni di volontariato, presumibilmente più disponibili per un impegno solidaristico, a collaborare per la realizzazione delle ipotesi riparative, mentre il ricorso a strutture pubbliche appare assolutamente insignificante!

Dall’analisi degli incroci (tabella IX) si riconferma lo scarso utilizzo di strutture pubbliche rispetto al volontariato, al privato sociale ed al mondo della cooperazione. Si evince comunque la netta prevalenza del ricorso a dette risorse nel caso in cui sia disposto l’espletamento di attività gratuita a favore della collettività.

Nel 18,9 % dei casi è lo stesso affidato (tabella 23) che si attiva a reperire la struttura presso cui prestare l’attività riparativa, certamente anche in questo caso in ordine alla necessità di un adempimento strumentale alla prosecuzione e positiva conclusione della misura. In particolare dall'incrocio X° si desume che, per ipotesi riparatorie che abbiano come contenuto l’espletamento di attività gratuita a favore della collettività, è il medesimo condannato – nel 50% dei casi - a reperire la struttura cui appoggiarsi.

Dai dati citati si intravede quindi un limitato impegno da parte dei Centri ad una pianificata attività di integrazione delle risorse, alla costruzione di una fattiva rete operativa con tutti i soggetti presenti sul territorio, ed alla definizione di intese programmatiche, azioni queste propedeutiche non solo alla realizzazione di attività riparatorie, ma anche - più in generale - al reinserimento dei soggetti condannati. Ancora più basso è infatti il dato relativo alla definizione di convenzioni (16 casi).

Per quanto attiene le tabelle 24 , 24a e 24b, relative all’attuazione della prescrizione, va innanzitutto segnalata la rilevanza del dato mancante, così come stupisce che la risposta positiva si riferisca solo al 30,6% delle risposte utili.

Al di là delle situazioni estreme, in cui la mancata attuazione della prescrizione di cui trattasi, ha determinato la revoca dell’affidamento o la declaratoria di inefficacia della prova, non si comprende per quali motivi sia stata disattesa la prescrizione medesima. Il dato prevalente si riferisce infatti alla voce "altro" in cui sono state ricomprese liberamente, dai singoli operatori, motivazioni assai diversificate: dalla brevità della pena alle problematiche familiari. In sette casi viene segnalato che la prescrizione non è stata attuata per mancata adesione della parte lesa.

Nei casi in cui la prescrizione ha trovato attuazione risulta prevalente l’attività gratuita per la collettività (58%), ipotesi che è divenuta nei fatti "contenitore" di tutte le situazioni in cui non è praticabile un’azione riparatoria simbolica o reale, diretta o indiretta, nei confronti della vittima.

A questo proposito va segnalato che, pur prendendo atto di quanto affermato dalle citate sentenze della Cassazione, e cioè che l’imposizione di un’attività socialmente utile, quale ipotesi surrogatoria rispetto alla prescrizione di "attivarsi in quanto possibile in favore delle vittime.." è illegittima, nei fatti è incontrovertibile che la disponibilità dell’affidato a svolgere detta tipologia di impegno è un elemento di rilievo e quindi viene valutata positivamente dalla Magistratura ai fini della declaratoria.

Maggiori considerazioni sull’attuazione della prescrizione vengono ricavate da alcuni incroci dei dati della tabella 24 con alcune variabili (tabelle XII, XIII e XIV): in particolare risulta che la prescrizione viene attuata prevalentemente da soggetti dai 25 ai 45 anni, con una punta massima di risposte positive nei soggetti nella fascia d’età 32-38 anni, e con maggiore frequenza percentuale dalle donne. Con riguardo alla posizione giuridica degli affidati non emerge invece una differenza numerica tra le prescrizioni attuate da soggetti con precedenti penali rispetto a soggetti che hanno commesso il primo reato.

Sempre dagli incroci (tabella XVII) si ricava il dato che la prescrizione viene maggiormente attuata se la proposta viene da parte del difensore (75%), o dall’assistente sociale (69,6%), quasi che la concreta definizione dell’azione riparatoria, cui si perviene con l’aiuto di una di dette figure, sia direttamente proporzionale alla effettiva attuazione della prescrizione stessa. Tale ipotesi potrebbe trovare argomenti a sostegno in ordine all’individualizzazione di un percorso/progetto che i due soggetti (difensore e/o operatore) sono in grado di definire rispetto ad una prescrizione imposta dal Tribunale. Si potrebbe altresì affermare che la maggiore attuazione derivi da una maggiore responsabilizzazione del condannato, cui concorrono – anche se con modalità ed obiettivi diversi - sia il difensore che l’assistente sociale.

È il caso comunque di citare che il difensore interviene in realtà in ordine a prescrizioni il cui contenuto riguarda la riparazione materiale ed economica nei confronti della parte offesa o di attività gratuita a favore della collettività.

Non si desume dalle risposte l’incidenza di una modifica della prescrizione intervenuta nel corso della misura, forse a causa di una frettolosa e sommaria consultazione dei fascicoli.

Le ultime domande del questionario tendono a rilevare la frequenza del ricorso a mediatori o specifici servizi di mediazione (tabella 26) e l'incidenza/significatività della risorsa familiare per definire e realizzare un percorso riparativo.

Per quanto riguarda la prima si evince un elevatissimo dato di mancante di sistema ed una bassissima percentuale di risposte positive: solo in 22 casi si è fatto ricorso a figure di mediatori, categoria questa in cui, nella specifica successiva, vengono ricomprese figure quali servizi/operatori socio – assistenziali, conoscenti e, soprattutto i difensori (16 casi).

Il dato parla da sé e traduce con immediatezza la disinformazione, il mancato approfondimento degli operatori dei Centri rispetto all’argomento ed, in particolare, alle caratteristiche di neutralità insite nel concetto di mediatore, concetto ben noto ad operatori sociali, anche se con applicazione ad altri sistemi (familiare, interculturale…). Solo un uso a-tecnico e comunque inappropriato del concetto può essere alla base dell’individuazione nel difensore (di parte) della figura cui poter fare ricorso per mediare un rapporto tra il reo e la vittima.

Concludendo l’analisi delle singole tabelle, si fa riferimento infine alla famiglia, risorsa inequivocabile per il reinserimento del condannato che, attraverso il rapporto con il proprio nucleo di appartenenza o acquisito, può ritrovare una motivazione al cambiamento. Il tessuto familiare rappresenta inoltre l’ambito entro cui il condannato trascorre larga parte dell’esecuzione della pena alternativa, nella quotidianità delle relazioni con i genitori, o con i partners o, soprattutto con i figli, soggetti questi che possono essere considerati "vittime secondarie" del reato commesso dal congiunto.

Dai dati raccolti in ordine all’espletamento di una indagine sulle risorse familiari del condannato prima dell’elaborazione di un percorso riparativo (tabella 27) risulterebbe una percentuale bassissima di risposte positive (203), se si tenesse conto dell’intero universo di riferimento e quindi dei 4511 casi. Anche rispetto alle risposte utili (1058) la percentuale si attesta sempre su valori bassi (19,2%).

L’impatto negativo della successiva domanda (tabella 28) è – inevitabilmente - pressocché identico: la collaborazione della famiglia nell’attuazione della prescrizione riparativa è pari soltanto al 19,7%.

Non si può non concludere anche questa volta che rilevando la tendenza ad un appiattimento sostanziale del lavoro del servizio sociale, tenendo conto del fatto che i rapporti con la famiglia sono considerati – dichiaratamente – elemento fondante del trattamento del condannato (art. 15 o.p.), e prendendo atto del fatto che nessun reinserimento individualizzato può prescindere dall’attivazione delle risorse non solo personali ma anche familiari del soggetto.

Il dato dovrebbe essere maggiormente approfondito rapportandolo al numero di indagini socio-familiari richieste in fase istruttoria per i casi presi in esame. Non si comprende comunque in ogni caso come l’assistente sociale possa – pur al di fuori delle richieste "cogenti" della Magistratura - instaurare un rapporto professionale produttivo di risultati "ignorando" la famiglia dei soggetti in carico, o lasciandola ai margini di un progetto di risocializzazione e/o di riparazione che, se efficace, dovrebbe e potrebbe produrre cambiamenti nell’ambito delle reti relazionali.

Procedendo nell’analisi si ritiene di sottolineare l’interesse inequivocabile delle considerazioni che scaturiscono da alcuni incroci della seconda parte, segnalando alcune ipotesi interpretative e delle prospettive possibili.

Dagli incroci della sezione III, che tendono a valutare la relazione tra l’articolazione della prescrizione in generica o specifica ed alcune caratteristiche dei soggetti in esame (sesso, età e tipologia dell’universo di riferimento), viene immediatamente in evidenza che la differenza percentuale tra prescrizione generica (prevalente nell’88,6% dei casi - tabella 17) rispetto a quella specifica, è ininfluente rispetto al sesso degli affidati.

La relazione con la scolarità assume invece delle frequenze interessanti: è apparso infatti chiaro come ai soggetti con laurea o con licenza media superiore venga più frequentemente imposta – dalla Magistratura di Sorveglianza - una prescrizione specifica rispetto a soggetti di più bassa scolarità, per i quali, viceversa prevale la prescrizione generica.

La verifica sulla ricorrenza della prescrizione generica o specifica rispetto alle diverse tipologie di reato lascia inoltre rilevare che la prescrizione specifica viene più frequentemente imposta a soggetti che abbiano commesso reati contro la P.A., la fede pubblica, e i reati di impresa.

Tali prime considerazioni hanno portato alla formulazione di una ipotesi, quella cioè che la Magistratura di sorveglianza appaia più determinata nell’imporre una prescrizione riparativa in forma specifica (presumibilmente già nell’ordinanza di concessione) a soggetti con scolarità medio-alta e che abbiano commesso reati contro la P.A., e reati di impresa, e, tra questi quindi quelli che vengono anche ricompresi nella categoria criminologica di "colletti bianchi".

Nel tentativo di approfondire l'analisi, nonché di verificare la citata ipotesi, si è voluto inoltre indagare la possibile relazione tra scolarità e tipologia di reato (tabella VII) ottenendo un quadro sufficientemente indicativo, in cui si delinea una percentuale inversamente proporzionale tra titolo di studio e reati contro il patrimonio (più alto è il titolo di studio, più bassa è la ricorrenza di tale tipologia di reati), e direttamente proporzionale tra i reati contro la P.A. e di impresa che, nei soggetti laureati, tocca rispettivamente il 17% ed il 20%.

Se andiamo poi a valutare alcuni degli incroci della Sezione V che indagano le relazioni tra i diversi contenuti specifici delle prescrizioni riparative (siano essi definiti nell'ordinanza di concessione, o successivamente dettagliati dal Magistrato di sorveglianza) e le tipologie di reato si possono trarre le seguenti considerazioni.

Se dalla tabella 20 dell'analisi dei dati, si deduceva la prevalenza di prescrizioni il cui contenuto era la riparazione materiale/economica a favore della parte offesa, cui seguiva, in ordine decrescente di grandezza, l’attività gratuita a favore della collettività, ed in ultimo l’attività a favore della parte lesa, è interessante vedere come la prima ipotesi venga più frequentemente imposta a soggetti con reati di impresa e contro la fede pubblica. L’espletamento di un’attività gratuita viene invece disposta nei reati contro la P.A., contro la fede pubblica, e di violazione della legge sugli stupefacenti, mentre l’attività gratuita a favore della parte lesa nel 29,4% dei casi ricorre nei confronti di soggetti che hanno commesso reati ambientali.

In realtà emerge quindi, da una contestuale lettura degli incroci qui presi in esame, che le prime due ipotesi riparatorie sono imposte ad un target di utenza con livello di scolarizzazione medio–alto, e con reati in cui non vi è una "vittima" nel senso proprio del termine, ma in cui piuttosto la parte lesa non è fisicamente identificabile: è la società, è il bene pubblico.

I reati contro la persona e contro il patrimonio vedono infatti più frequentemente applicata una prescrizione generica (altro = si adopererà in favore della vittima), che poi non trova, il più delle volte, esplicitazione o successivo dettaglio, a meno che non si ricorra anche in questo caso, in fase attuativa, all’espletamento di un’attività gratuita a favore della collettività, che diviene - come già in altri termini affermato - l’ipotesi più praticabile non potendo coinvolgere la vittima, o qualora quest’ultima non si presti ad altre azioni riparatorie.

Concludendo l’analisi si è comunque ritenuto di approfondire l’aspetto relativo all’attuazione della prescrizione riparatoria già preso in considerazione nella tabella 24. Malgrado il contenutissimo numero di risposte positive (314 casi di cui 178 di attività gratuita per la collettività e 94 di riparazione materiale/economica, tabella 24a) , è sembrato infatti importante valutare l’incidenza di tale dato rispetto ad alcune altre variabili, oltre quelle già prese in considerazione in precedenza, quali il livello di scolarità e l’occupazione dei soggetti in esame.

In realtà il risultato di detti incroci sembra confermare la tendenza emersa dalla lettura dei dati precedenti: la prescrizione è più frequentemente attuata da soggetti in possesso di laurea (61,1%) o di diploma di scuola media superiore (36%), e che abbiano una attività stabile come professionista o artigiano.

Si potrebbe affermare quindi che se un più elevato livello culturale e sociale determina l’imposizione di prescrizioni specifiche, analogamente esso influenza positivamente la concreta attuazione della prescrizione medesima.

In altri termini, nei confronti di un target di soggetti con più alto livello culturale e sociale, e con reati contro la P.A., la fede pubblica, o i reati di impresa, sembra ricorrere con significativa frequenza l’applicazione di prescrizioni specifiche, prevalentemente con l’imposizione di un obbligo alla riparazione materiale ed economica in favore della pare lesa o la prestazione di una attività gratuita alla collettività. Gli stessi soggetti in virtù delle caratteristiche illustrate, sembra presentino una maggiore "capacità" di aderire alla prescrizione imposta.

In realtà lo spaccato che si ricava dalla lettura degli incroci esaminati, non fa che confermare il fatto che la prescrizione riparatoria ha avuto una genesi ed una caratterizzazione particolare nel nostro sistema di esecuzione penale, caratterizzazione che tuttora è visibile nella giurisprudenza di larga parte della Magistratura di sorveglianza: le prime esperienze infatti sono state avviate in relazione al fenomeno di Tangentopoli e nei confronti di soggetti appartenenti alla categoria criminologia genericamente definita dei "colletti bianchi".

Indubbiamente si tratta di soggetti con reati che rientrano tra quelle tipologie maggiormente ricorrenti nelle tabelle considerate, con livelli di scolarità medio-alta, e - si può aggiungere - con condizioni sociali ed economiche non deprivanti, anzi certamente inseriti nel tessuto sociale.

La prescrizione riparativa nasce quindi - si potrebbe affermare - sull’onda del convincimento che la misura alternativa applicata ai tangentisti appare dai contorni assai sfumati, ed è assai poco credibile sia in termini retributivi che in termini trattamentali. Come parlare infatti di contenuto "afflittivo", di "reinserimento" e di "inclusione sociale ed economica" nell’esecuzione della pena sul territorio per tali soggetti che di fatto non sono mai usciti dal loro "ambiente" di appartenenza?

L’obbligo alla riparazione potrebbe essere stato quindi molte volte imposto, non come un quid in più rispetto al contenuto trattamentale della pena, ma proprio in contrapposizione o in sostituzione ad una ipotesi di "trattamento" e "reinserimento" nel tessuto sociale che risulta(va)assai poco credibile o circostanziabile. Un impegno riparatorio, tradotto poi nel concreto in una monetizzazione del danno provocato dal reato, garantiva di contro che la pena alternativa avesse uno spessore concreto ed una visibilità. Di conseguenza la prescrizione riparativa assumeva così in qualche modo, si potrebbe asserire, una connotazione retributiva!

La tipologia delle azioni riparatorie prevalentemente imposte (riparazione materiale/economica), ed in particolare la mera monetizzazione del danno, hanno portato d’altronde ad uno snaturamento del significato stesso di riparazione, confondendolo peraltro con concetti quali la restituzione o il risarcimento del danno, concetti com’è noto previsti all’art. 185 del Codice penale (oltre che dal Codice civile, es. artt. 2043, 2059, e da varie disposizioni processuali) che le qualifica come sanzioni civili. L’importanza di una chiarificazione in merito è indubbia.

Al termine delle considerazioni fin qui sviluppate si ritiene di segnalare l’importanza di una riconversione culturale e giurisprudenziale che tenda a recuperare il significato più profondo del paradigma riparativo nella sua applicazione nel sistema dell’esecuzione penale dei condannati adulti.

È indispensabile innanzitutto fare chiarezza, in linea con i contenuti delle risoluzioni ed accordi convenzionali esitati dai competenti Organismi internazionali, su forme e modalità delle azioni riparatorie praticabili, partendo da un impegno forte ed inequivocabile nei confronti della vittima che va tutelata quale soggetto di diritti irrinunciabili.

Nell’ambito penitenziario occorre in particolare attivare percorsi di formazione ed aggiornamento degli operatori del trattamento, che diano a questi ultimi occasione di rimotivarsi rispetto ai compiti loro attribuiti dalla legge, di ridefinire metodologie di intervento più efficaci e, nello specifico, di declinare in maniera congrua il compito di dare impulso alla riflessione critica sul reato del condannato.

Soltanto un percorso di responsabilizzazione rispetto al crimine commesso ed agli eventuali danni provocati ad altri soggetti, può far maturare infatti nel condannato una scelta di cambiamento esistenziale che si colloca nell’ambito di una prevenzione positiva ed assume valore incontrovertibile rispetto alla riduzione del rischio di una recidiva. Il consenso ad un percorso di trattamento/riparazione è in ogni caso il presupposto fondante di un fattivo processo di reinserimento nella società e di ricomposizione del "patto di cittadinanza" rotto con il reato.

Concludendo si auspica che si possa dar seguito alle seguenti azioni:

emanazione di una circolare con le prime direttive da seguire nella materia, prendendo come presupposto le considerazioni sin qui svolte;

ulteriore attività di studio e di ricerca anche su dimensione internazionale, della Commissione, così da completare il lavoro fin qui condotto, ampliare la riflessione, e definire quali ipotesi riparative possano essere applicate in riferimento ai soggetti adulti condannati (e differenti secondo i diversi target di utenza) e seguirne l’applicazione sperimentale. Tale attività non può prescindere da un confronto aperto e continuativo con la Magistratura di Sorveglianza, nelle forme e nei modi che si vorranno congiuntamente individuare. Fondamentale appare la individuazione – in una sorta di codice deontologico - di criteri e percorsi corretti per l’eventuale contatto con la vittima;

formazione ed aggiornamento del personale che tenda a dare agli operatori una adeguata conoscenza sulla giustizia riparativa e ridefinisca i compiti propri dell’Amministrazione in ordine al trattamento, alla luce delle più recenti disposizioni. A tal fine è stata predisposta dalla Commissione una ipotesi di pacchetto formativo;

definizione di intese e protocolli con la rete dei servizi sul territorio, da parte di Istituti e Servizi, per l’espletamento di attività gratuite in favore della collettività, e più in generale per la definizione della convergenza di intenti rispetto all’obiettivo di prevenzione positiva prima citata e la conseguente riduzione della recidiva. A tal fine è stata predisposta dalla Commissione una bozza di convenzione;

definizione di accordi con alcuni degli Uffici di mediazione (penale, minorile...) già esistenti sul territorio, per sperimentare incontri di mediazione con l’invio di alcuni casi di condannati, previa acquisizione del consenso delle parti. La Commissione ha predisposto a tal proposito una ipotesi di accordo in cui vengono definiti i rapporti interistituzionali e le caratteristiche del campione entro cui scegliere i casi da inviare sperimentalmente in mediazione.

 

 

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