Revoca delle misure alternative

 

Capitolo 1: La disciplina giuridica

 

Analisi delle misure alternative alla detenzione

La disciplina della revoca delle misure alternative alla detenzione

La discrezionalità della Magistratura di Sorveglianza

 

Analisi delle misure alternative alla detenzione

 

Che la reclusione carceraria non sia l'unica modalità di espiazione della pena è una realtà che si evince già dalla legge 26 luglio 1975, n. 354, sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. Tale disposizione, chiaramente ispirata all'art. 27 comma 3 della Costituzione e imperniata pertanto sull'esigenza di rieducazione del reo, disciplina istituti definiti alternativi alla detenzione.

Le norme sull'ordinamento penitenziario in generale, e quelle che riguardano le misure alternative in particolare, sono state oggetto di una serie di provvedimenti legislativi e di pronunce di illegittimità costituzionale tali che la configurazione e la natura stessa di tali istituti sono state largamente modificate, se non addirittura stravolte.

Questi ripetuti ed in gran parte contraddittori interventi, ispirati ad eterogenee e spesso contingenti strategie (come una più efficace azione di lotta alla criminalità organizzata e/o la deflazione della popolazione carceraria), hanno influito non soltanto su i presupposti, i caratteri, i limiti e le modalità delle singole misure, ma più in generale sull'assetto complessivo delle medesime.

Infatti, per un verso, sono state progressivamente introdotte esclusioni e restrizioni alla concessione delle misure alternative per gli appartenenti alla criminalità organizzata e per i condannati per delitti terroristici od eversivi; per altro verso, sono state concesse agevolazioni ai detenuti che collaborano con la giustizia e che sono destinatari di uno speciale programma di protezione.

Più in particolare, la legge 203/91 ha istituito un regime probatorio differenziato nei confronti dei condannati per i reati di associazione mafiosa ed eversiva, i quali possono fruire delle misure alternative solo dopo aver dimostrato di non avere più alcun rapporto con l'organizzazione d'appartenenza. Con la legge 356/92, invece, si decise di usare le misure alternative come strumento di pressione per spingere i mafiosi a collaborare con la giustizia.

Inoltre, su un piano più generale, si è progressivamente attenuata la rigidità dei presupposti applicativi delle varie misure.

Tale sviluppo normativo ha portato gran parte della dottrina a parlare di una vera e propria "binarietà" delle norme sull'ordinamento penitenziario, la quale ha reso, e tuttora rende, problematico il coordinamento fra le varie disposizioni in materia. Oltre a queste difficoltà di coordinamento, le frequenti oscillazioni legislative fra l'ampliamento della portata applicativa delle misure alternative e le periodiche controtendenze con l'introduzione di divieti e limitazioni, hanno determinato una non certo agevole definizione della loro reale natura ed effettiva funzione.

In un sistema come il nostro, caratterizzato dal primato della pena detentiva, l'introduzione di misure alternative alla detenzione non può che rappresentare la messa in atto di una "strategia differenziata" nella repressione dei reati, basata sulla realizzazione di un trattamento individualizzato, il quale prevede l'osservazione scientifica del condannato, tiene conto delle sue condizioni specifiche e dei particolari bisogni della sua personalità, ed ha come scopo primario il recupero del reo e il suo reinserimento nella vita sociale. Alla luce di ciò non vi è dubbio che gli istituti alternativi alla detenzione siano la palese dimostrazione dell'avvenuta "positivizzazione del primato della prevenzione speciale sulle altre funzioni della pena".

Comunque, data la composita tipologia delle misure alternative, la difficoltà maggiore consiste nel trovare un comune denominatore per istituti fra loro molto diversi, in modo che la definizione stessa di "misura alternativa" sia correttamente riferibile ad ognuno di essi.

A tal riguardo la dottrina non ha mancato di trovare innumerevoli ed originali soluzioni interpretative; si è giustificata infatti l'inclusione nella definizione di misura alternativa di alcuni istituti e l'esclusione di altri talora con riferimento al momento di attuazione della misura (durante la fase cognitiva o durante quella esecutiva); talaltra considerando se, durante la loro attuazione, questi istituti comportino comunque un contatto, magari attenuato, con il carcere oppure ne prescindano totalmente; altre volte si è individuata l'alternatività in rapporto al contenuto delle misure stesse (a seconda che queste ultime prevedano o meno un sostitutivo contenutisticamente determinato al carcere).

Nonostante la pluralità dei criteri distintivi proponibili, si ritiene comunque preferibile attenersi al principium individuationis basato sul dato normativo, anche se siffatta impostazione non può prescindere da correttivi derivati da valutazioni di ordine sistematico.

Prendere il Capo VI del titolo I della legge 354/75 come termine di riferimento implica in realtà una duplice sfasatura, per eccesso e per difetto, rispetto all'estensione concettuale della definizione di misura alternativa.

Per un verso infatti la legge sull'ordinamento penitenziario eccede, includendo fra le misure alternative alla detenzione oltre all'affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 o.p.; art. 47 bis o.p.), alla detenzione domiciliare (art. 47 ter o.p., introdotta dalla legge 663/86) ed alla semilibertà (art. 48 o.p.), anche la liberazione anticipata nonché la disciplina delle licenze e delle modalità di esecuzione della libertà vigilata.

Per un altro verso la legge è in difetto in quanto non considera la liberazione condizionale, disciplinata dal codice penale all'art. 176.

L'inclusione per eccesso delle licenze, delle modalità di esecuzione della libertà vigilata e della liberazione anticipata si giustifica in considerazione del fatto che esse comportano una permanenza del soggetto, anche se temporanea o subordinata a verifiche e controlli, in ambiente libero; ciò consente di assimilarle, sia pure per questo solo aspetto, alle misure alternative e rende la loro collocazione, all'interno del Capo VI del Titolo I della legge 354/75, la più appropriata.

Tali misure però, traducendosi di fatto in "assaggi di libertà premio" o in "sconti" sul periodo di pena da espiare, non realizzano niente di veramente alternativo al regime custodiale e devono essere perciò qualificate più propriamente come istituti "squisitamente premiali". La liberazione anticipata ad esempio si risolve in sostanza nella remissione di una parte della pena detentiva da concedersi al condannato che abbia dato prova di partecipare all'opera di rieducazione. La mancanza di alternatività alla detenzione determina quindi l'impossibilità di includere le licenze, la libertà vigilata e la liberazione anticipata fra le misure alternative, sia che ci si riferisca ad esse nella loro accezione più propria, sia che vi si alluda in senso lato.

Gran parte della dottrina infatti, ha distinto concettualmente le ipotesi in cui la pena abbia corso, in tutto o in parte, secondo schemi caratterizzati da una reale alternativa alla carcerazione (si è parlato in questi casi di misure alternative alla detenzione in senso proprio), da quegli istituti, definiti misure alternative in senso lato, che sono soltanto modificativi delle modalità di esecuzione delle pene detentive, le quali restano in vita, anche se in forma attenuata.

Sulla base di questa ripartizione la dottrina prevalente ha ritenuto corretto considerare misure alternative in senso improprio la detenzione domiciliare e la semilibertà, misure alternative in senso proprio invece l'affidamento in prova al servizio sociale e la liberazione condizionale.

In relazione a quest'ultima poi è necessaria un'ulteriore precisazione in quanto essa, pur non disciplinata dall'ordinamento penitenziario, bensì dal codice penale all'art. 176, tuttavia viene comunemente annoverata tra le misure alternative alla detenzione. Ciò sembra giustificarsi in relazione al fatto che, fino alla emanazione della legge 354/75, la liberazione condizionale ha in concreto rappresentato, per il detenuto, l'unico modo di ottenere la scarcerazione prima del termine finale della pena.

Del resto, in quanto prosecuzione della pena in un regime di libertà vigilata, la liberazione condizionale realizza quella necessaria alternatività che permette di inserirla fra le misure alternative alla detenzione.

Alla luce di tali osservazioni, tenendo sempre come termine di riferimento il dato normativo costituito dal Capo VI del titolo I della legge 354/75 ed i succitati correttivi sistematici per eccesso e per difetto elaborati dalla dottrina, in questo lavoro, si è ritenuto opportuno non limitare l'analisi alla revoca delle misure alternative che vengono definite come proprie, ma estenderla anche a quelle considerate improprie.

Sulla base di questa impostazione l'oggetto di questo studio è costituito quindi dall'analisi della revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale, della detenzione domiciliare, della semilibertà e della liberazione condizionale.

 

Disciplina della revoca delle misure alternative alla detenzione

 

L'affidamento in prova al servizio sociale

 

Il Tribunale di Sorveglianza competente, cioè quello che ha giurisdizione nel luogo di residenza o di domicilio dell'affidato, può disporre, con ordinanza impugnabile per Cassazione, la revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale "qualora il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la prosecuzione della prova".

La condizione del comportamento contrario alla legge o alle prescrizioni dettate però non determina automaticamente la revoca della misura alternativa, infatti, anche in presenza di riconosciute violazioni, spetta sempre al Tribunale di Sorveglianza valutare se esse siano di gravità tale da risultare incompatibili con la prosecuzione della prova.

In proposito si è pronunciata più volte anche la Corte di Cassazione, la quale ha stabilito che per poter dar luogo alla revoca dell'affidamento occorre, anche in caso di commissione di un nuovo reato, una valutazione da parte del Tribunale di Sorveglianza per verificare se la violazione commessa sia tale da rendere opportuno l'ulteriore protrarsi della misura alternativa.

Inoltre, sempre la Corte di Cassazione ha decretato che il Tribunale di Sorveglianza, nel formare il proprio convincimento in relazione al provvedimento di revoca, possa basarsi "su qualsiasi elemento probatorio, compreso il rapporto della Polizia Giudiziaria e la risultanza di un procedimento penale ancora in corso, purché fornisca al riguardo adeguata motivazione".

Più in generale la revoca non può essere disposta quando la violazione della legge o delle prescrizioni sia da considerarsi meramente occasionale, occorrendo viceversa che essa risulti un fatto che, nel quadro generale del comportamento del soggetto o per la sua particolare gravità, sia sintomatico della necessità di un più severo trattamento in istituto, essendo prevedibile il fallimento della prova.

Dal fatto che l'art. 47 comma 11 o.p. richieda per la revoca che il comportamento dell'affidato in prova al servizio sociale si ponga in contrasto con la legge ovvero con le prescrizioni a lui imposte discende che, ove l'affidato non incorra in violazioni di legge e osservi scrupolosamente le limitazioni connesse alla misura alternativa per tutta la durata di questa, non potrà essergli negata l'estinzione della pena e di ogni altro effetto penale. Ai sensi del comma 12 dell'art. 47 o.p. infatti l'esito positivo del periodo di prova estingue la pena ed ogni altro effetto penale; esso dunque deve considerarsi realizzato ogniqualvolta non sia intervenuto un provvedimento di revoca per esito negativo della prova stessa.

La giurisprudenza della Cassazione, piuttosto copiosa al riguardo, precisa, in primo luogo, che la declaratoria di estinzione della pena è di esclusiva competenza del Tribunale di Sorveglianza perché il giudizio sul buon esito della prova costituisce naturale prosecuzione di quello che deve essere formulato ai fini dell'applicazione della misura, nonché della sua eventuale revoca.

In secondo luogo ritiene che, mentre la revoca dell'affidamento intervenuta durante il periodo di prova comporta in ogni caso l'esito negativo della prova stessa, non possa escludersi che, pur non essendo stata disposta la revoca dell'affidamento, il Tribunale di Sorveglianza ritenga che il periodo di prova non abbia avuto esito positivo.

Infine, in numerose sentenze, la Corte di Cassazione ha ribadito che l'effetto estintivo dell'affidamento non consegue al mero decorso del periodo di prova, senza che sia intervenuta la revoca dell'affidamento, "occorrendo, invece, l'accertamento di elementi di comportamento positivi, tali da far supporre essere avvenuta inequivocabilmente la rieducazione del reo".

Risulta evidente dunque come il verificarsi della revoca determini in ogni caso l'esito negativo dell'affidamento in prova al servizio sociale, mentre, affinché possa dichiararsi estinta la pena, sia imprescindibile, anche in assenza di revoca della misura alternativa, un compiuto processo rieducativo e risocializzativo del reo.

Con il determinarsi della revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale si pone inoltre il problema della computabilità o meno, ai fini del calcolo del periodo di pena detentiva da scontare, del periodo trascorso in regime di misura alternativa. Dal momento che nessuna indicazione è stata data dal legislatore riguardo alla detraibilità o meno di tale periodo di prova dalla pena che a seguito della revoca dovrà essere espiata dal condannato, le soluzioni possibili e prospettate dalla dottrina e dalla abbondante quanto controversa giurisprudenza sono tre: computabilità di tutto il periodo anteriore al provvedimento di revoca; computabilità del solo periodo utilmente trascorso in prova, cioè fino al momento della violazione che ha comportato la revoca; non computabilità.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione nel tempo ha sostenuto a più riprese l'una o l'altra delle sopra citate soluzioni, formando il proprio convincimento su assunti di partenza ogni volta diversi.

Originariamente la Corte sostenne che l'affidamento in prova al servizio sociale costituiva una misura alternativa alla detenzione, ma che per "il suo contenuto afflittivo connesso alle penetranti limitazioni della libertà conseguenti alle prescrizioni imposte all'affidato e per la sua finalità rieducativa partecipava dei caratteri e della funzione della pena", per cui si riteneva inevitabile considerare tale lasso di tempo quale periodo di pena effettivamente espiata.

Tuttavia la Corte precisava che il periodo trascorso in affidamento vale come espiazione della pena fin dal momento in cui si è verificato il fatto che ha dato causa al provvedimento di revoca, perché altrimenti "la misura della pena residua da espiare per la riconversione conseguente alla revoca, verrebbe a dipendere da un elemento fortuito (se non addirittura accortamente determinabile da manovre dilatorie dell'interessato), quale quello della maggiore o minore durata del procedimento di revoca".

Successivamente però, a non molti mesi di distanza dalla pronuncia della sentenza sopra menzionata, la Corte mutò orientamento sostenendo che l'affidamento in prova al servizio sociale si connota essenzialmente "per il venire meno di ogni rapporto diretto del condannato con l'istituzione carceraria, in conformità con la tendenza a qualificare tale istituto come una misura di stretto carattere rieducativo", e da ciò consegue che "il periodo di prova non può essere considerato equivalente al periodo di pena effettivamente espiato", onde, in caso di revoca, la pena inflitta residua all'atto del provvedimento con il quale la misura alternativa è concessa deve essere eseguita per intero.

A sostegno di questa impostazione veniva citato, oltre all'inapplicabilità agli affidati delle disposizioni riguardanti i detenuti in espiazione effettiva di pena, l'ultimo comma dell'art 47 o.p., per il quale l'esito positivo della prova estingue la pena ed ogni altro effetto penale e che, si affermava, potesse avere significato solo in quanto interpretato nel senso che, ove la prova non abbia esito positivo, la pena non si estingue e conseguentemente deve essere espiata.

L'orientamento sull'efficacia ex tunc della revoca non è però stato seguito a lungo dalla Corte, la quale, nello stesso anno, ha sostenuto che l'affidamento in prova al servizio sociale è una misura "del tutto equivalente alla pena detentiva" proprio perché la riuscita della prova comporta non solo l'estinzione della pena, ma anche l'estinzione di ogni effetto penale. Sulla base di questo presupposto, il periodo di prova, completamente fungibile con l'esecuzione della pena detentiva, deve essere considerato come pena espiata fino al provvedimento di revoca e perciò scomputato per intero.

La Suprema Corte inoltre ha giustificato il rifiuto dell'impostazione precedentemente sostenuta, secondo cui la revoca retroagisce al momento del fatto comportante la stessa, affermando che "il provvedimento di revoca ha natura tipicamente costitutiva, e perciò, finché non venga emanato, deve ritenersi che il periodo di prova abbia avuto esito positivo, e che sia quindi interamente computabile nella durata della pena", anche perché la soluzione di uno scomputo parziale implicherebbe per l'organo di sorveglianza "l'obbligo di identificare il momento preciso in cui l'incompatibilità si è verificata, con la conseguenza che ne deriverebbero inconvenienti, soprattutto per quanto riguarda la parità di trattamento".

Presto, peraltro, la Corte di Cassazione, rinnegando tale indirizzo è tornata, ripetutamente, anche a Sezioni Unite, a sostenere la retroattività piena della revoca. La Suprema Corte ha nuovamente ribadito la validità dell'orientamento per il quale la durata del periodo di prova risoltosi negativamente non può essere considerato come pena espiata, dal momento che "la revoca consegue alla valutazione di un comportamento del condannato che per il suo significato negativo dimostra la mancata realizzazione di quello scopo di rieducazione che avrebbe dovuto essere raggiunto con la misura alternativa alla detenzione".

In tale occasione le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno ritenuto che la disciplina dell'art. 47 o.p., in quanto non consentiva di considerare come espiazione di pena il periodo di affidamento in prova in caso di annullamento del provvedimento di ammissione, fosse da considerare in contrasto con gli artt. 3, 13, 27 della Costituzione.

Le motivazioni a queste questioni di legittimità sono da rinvenire innanzi tutto nel fatto che la legge 354/75 prevede la stessa disciplina sia per l'ipotesi di revoca dell'affidamento (cioè l'ipotesi del venir meno di esso in conseguenza della cattiva condotta dell'affidato) sia per l'ipotesi di annullamento del medesimo (cioè l'ipotesi del venir meno di esso o per vizio del procedimento o per accertata carenza originaria di un presupposto di applicabilità della misura o per il sopravvenire di un titolo di carcerazione tale da portare la pena da espiare oltre il limite previsto dalla legge).

Da ciò deriva il possibile contrasto col principio di uguaglianza giuridico-formale affermato nell'art. 3 della Costituzione, sotto l'aspetto del dovere di imparzialità del legislatore, che vieta di trattare in modo difforme situazioni soggettive uguali e correlativamente di trattare in modo uguale situazioni soggettive fra loro diverse. Pur non dovendosi intendere tale principio in modo meccanicistico, tuttavia la Corte ha sostenuto che "non sembra riconducibile a criteri di razionalità la scelta legislativa che uguaglia negli effetti situazioni radicalmente differenti, come la revoca e l'annullamento", essendo soltanto la prima correlata alla condotta del condannato.

Altra questione di costituzionalità dell'art. 47 o.p. si ha in relazione alle limitazioni alla libertà personale come sancite nell'art. 13 della Costituzione in quanto "se l'annullamento dell'ordinanza di affidamento neutralizza l'idoneità della prova a determinare l'estinzione della pena, all'annullamento medesimo sembra residuare un complesso di restrizioni della libertà personale del condannato che ingiustificatamente si sovrappone alla pena senza poter ripetere la sua ammissibilità da un provvedimento del giudice, essendo stata eliminata l'ordinanza di affidamento".

Infine dal raffronto fra l'art. 47 o.p. e l'art. 27 della Costituzione si pone il problema della dubbia costituzionalità del primo in quanto parrebbe non coerente con il principio costituzionale di umanizzazione delle pene (né con il principio fatto proprio dalla riforma penitenziaria di individualizzazione della pena, sulla base del quale tanto più probabile sarà il raggiungimento dello scopo rieducativo, quanto più differenziato e collegato alla personalità del condannato sarà il trattamento sanzionatorio) "far derivare da un evento del tutto estraneo alla condotta del condannato la vanificazione di un risultato rieducativo in tesi già conseguito attraverso il trattamento alternativo".

La Corte Costituzionale a cui sono state rimesse le suddette questioni di legittimità si è, in un primo momento, pronunciata sul problema dello scomputo della pena limitatamente all'ipotesi di annullamento, muovendo proprio dalla constatazione della diversità del caso di revoca per fatto colpevole rispetto a quello dell'annullamento della misura per il sopravvenire di condizioni tali da far cessare i presupposti di legittimità per la concessione.

Con le sentenze n. 185 e n. 312 del 1985 la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, in riferimento all'art. 13 della Costituzione, l'art. 47 o.p. della legge 354/75, nella parte in cui non prevede che valga come espiazione di pena il periodo trascorso in affidamento in caso di annullamento del relativo provvedimento ammissivo (sent.185/85) o in caso di revoca per motivi non dipendenti dall'esito negativo della prova (sent.312/85).

La Corte Costituzionale ha ritenuto che il periodo trascorso in affidamento ("nell'ambito della durata complessiva, che è e rimane unica, della pena inflitta") comporta per il condannato l'osservanza di prescrizioni restrittive della sua libertà e insieme la soggezione, pur se in un quadro di assistenza, ai costanti controlli del servizio sociale nonché alla vigilanza del Magistrato di Sorveglianza cui il servizio sociale è tenuto a fornire dettagliate notizie.

Da ciò deriva che l'affidamento in prova al servizio sociale costituisce "non una misura alternativa alla pena, ma una pena essa stessa, alternativa alla detenzione o, se si vuole, una modalità di esecuzione della pena, nel senso che viene sostituito a quello in istituto, il trattamento fuori dell'istituto, perché ritenuto più idoneo, sulla base dell'osservazione, al raggiungimento delle finalità di prevenzione e di emenda proprie della pena".

È infatti l'osservazione scientifica della personalità del condannato compiuta in istituto, cioè sul soggetto in stato di detenzione, che porta ad indicare l'opportunità di sostituire al trattamento carcerario quello alternativo dell'affidamento, ma "questa scelta non muta o quantomeno non annulla il carattere sanzionatorio del trattamento prescelto e non ne cancella, ma semplicemente ne attenua l'afflittività".

Sulla base di queste considerazioni dunque la Corte Costituzionale ha ritenuto "neppure pensabile che, in caso di annullamento del provvedimento di ammissione, il periodo effettivamente trascorso in affidamento in ottemperanza alle specifiche prescrizioni imposte al condannato, venga, viceversa, considerato non mai trascorso ovvero inutilmente trascorso".

Dal momento che l'ammissione all'affidamento non annulla il carattere sanzionatorio del trattamento, nel caso si dovesse ritenere come mai trascorso tale periodo, la misura alternativa si trasformerebbe in misura aggiuntiva alla detenzione, senza che questo vero e proprio "supplemento" di pena trovi fondamento e sia quindi legittimato da una sentenza di condanna.

A siffatte argomentazioni parte della dottrina ha obiettato che l'art. 13 della Costituzione non vieta le limitazioni della libertà personale e neppure le ricollega necessariamente alla commissione di un reato e quindi alla previsione di una sanzione penale, ma stabilisce soltanto una riserva assoluta di legge ed una riserva di giurisdizione, prescrivendo appunto che ogni limitazione debba trovare il suo fondamento in una disposizione espressa di legge e l'esistenza dei suoi requisiti debba essere verificata dall'autorità giudiziaria, elementi questi riscontrabili anche nel caso della disciplina prevista dalla legge in tema di revoca dell'affidamento.

Per tale dottrina quindi l'affermato contrasto del comma 11 dell'art. 47 o.p. con il principio contenuto nell'art. 13 della Costituzione non sembra convincente e viene sottolineato come in effetti neppure la Corte lo spieghi, limitandosi ad affermare che, costituendo le disposizioni da inserire nel provvedimento di affidamento in prova vere e proprie limitazioni della libertà personale, esse rientrano nella tutela apprestata dall'art. 13 Cost.

Piuttosto questi autori sostengono che la Corte avrebbe potuto più coerentemente ritenere, una volta parificato l'affidamento in prova alla pena detentiva inflitta al condannato, che tutto il periodo trascorso in affidamento fino al momento del "fatto revocante" e non solo una parte dovesse essere scomputato, dal momento che ovviamente la pena inflitta dal giudice di cognizione non può essere scontata due volte e che in ogni caso non sarebbe consentito infliggere una nuova pena senza che questa non sia ricollegabile ad un fatto reato e non sia astrattamente prevista dalla legge; palese sarebbe infatti in tal caso la violazione dell'art. 25 della Costituzione.

Il fatto che la Corte non sia tuttavia pervenuta a siffatta conclusione sarebbe dimostrativo dell'intima convinzione di tale organo che l'affidamento non può considerarsi pena paragonabile sotto nessun profilo alla detenzione in uno stabilimento carcerario e palesa come scelta della Corte una via di mezzo che, pur accettabile sul piano pragmatico, finisce per invadere chiaramente il campo riservato al potere legislativo.

Infatti la Corte con una sentenza successiva (di cui si tratterà più approfonditamente in seguito) ha trasferito al Tribunale di Sorveglianza l'immenso potere discrezionale di stabilire caso per caso quale periodo di pena debba considerarsi scontato al momento del "fatto revocante", tenendo presenti i caratteri, la natura e gravità delle violazioni commesse, il momento in cui si sarebbe verificato il "fatto revocante" stesso e il comportamento tenuto durante l'affidamento. Tutto ciò, sempre secondo la succitata dottrina, potrebbe essere fonte di sperequazioni ben maggiori di quelle che si sono volute evitare, creando quindi le condizioni per un'oggettiva violazione dei principi contenuti nell'art. 3 Cost., poiché naturalmente ciascun Tribunale di Sorveglianza potrà concretamente valutare in maniera difforme comportamenti o situazioni simili.

La Corte Costituzionale comunque, dopo le sentenze n. 185 e n. 312 del 1985, è tornata sull'argomento precisando a quale tipo di revoca doveva riferirsi la dichiarazione di illegittimità costituzionale.

Sebbene infatti entrambe le sentenze della Corte dichiarassero l'illegittimità del comma 10 dell'art. 47 o.p., limitatamente alla mancata previsione della validità del periodo trascorso in affidamento come espiazione di pena in caso di annullamento o di revoca del provvedimento di affidamento in prova al servizio sociale, tuttavia in esse veniva specificato che l'annullamento o la revoca dovessero derivare da cause originarie o sopravvenute all'ammissione alla misura alternativa, non considerando affatto (anche perché non oggetto delle ordinanze di remissione esaminate dalla Corte) l'ipotesi di revoca dell'affidamento durante la prova a causa di comportamenti incompatibili con il proseguimento della stessa.

La legge di modifica dell'ordinamento penitenziario del 1986 n. 663, non ha ritenuto di trasfondere nell'art. 47 o.p. la dichiarata illegittimità della Corte Costituzionale; questo se da una parte appare giustificabile in quanto più che la norma in sé ad essere in contrasto con la Costituzione era l'interpretazione che di essa se ne faceva, dall'altra è contraddetto dalla ricezione di tali pronunzie in tema di affidamento in prova del condannato militare, per il quale la legge 897/86 prevede specificatamente che "nel caso di revoca del provvedimento di ammissione, per motivi non dipendenti dall'esito negativo della prova, il periodo di affidamento debba essere considerato espiazione di pena".

Sulla questione degli effetti della revoca per fatto colpevole dell'affidato la Corte Costituzionale si è pronunciata solo nel 1987 con la sentenza n. 343, con la quale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 47 comma 10 (ora 11) della legge 354/75, nella parte in cui, in caso di revoca del provvedimento di ammissione all'affidamento in prova per comportamento incompatibile con la prosecuzione della prova stessa, non consente al Tribunale di Sorveglianza di determinare la residua pena detentiva da espiare, "tenuto conto della durata delle limitazioni patite dal condannato e del suo comportamento durante il trascorso periodo di affidamento in prova".

Dopo aver ribadito quanto già affermato nelle richiamate decisioni n. 185 e n. 312 del 1985 circa il carattere sanzionatorio delle prescrizioni inerenti all'affidamento in prova, le quali costituiscono norme di condotta che investono l'intera attività del reo e comportano significative limitazioni all'esercizio di una serie di diritti costituzionalmente garantiti, la Corte Costituzionale ha ritenuto la norma impugnata (art. 47 o.p.) come confliggente con gli artt. 13 e 3 della Costituzione.

Infatti il non tener conto del trascorso periodo di affidamento in caso di esito negativo della prova equivale, invero, all'applicazione di una sanzione per il comportamento incompatibile con la prosecuzione di essa tenuto dal condannato. In un sistema costituzionale come il nostro però, "nel quale la libertà personale è solennemente qualificata come inviolabile e soffre di restrizioni solo in presenza di particolari garanzie -puntualmente dettate nello stesso art. 13 ed in una serie di altre disposizioni- l'irrogazione di sanzioni che si aggiungano a quelle ritenute originariamente proporzionate al grado di responsabilità del soggetto non può avvenire in assenza di un ulteriore condotta violatrice, addebitabile a costui, che razionalmente la giustifichi".

Inoltre, sempre secondo la Suprema Corte, è il collegamento tra lo stesso art. 13 e l'art. 3 della Costituzione che impone l'esistenza di un'analoga proporzione fra condotta ulteriore e sanzione aggiuntiva; sia nel senso che questa deve essere astrattamente congrua e concretamente commisurata al grado di disvalore della prima, sia nel senso che la previsione normativa deve consentire il pari trattamento di condotte analoghe e la differenziazione di quelle diverse.

Invero già più volte la Corte Costituzionale ha sottolineato come in materia di trattamento sanzionatorio valgano i principi di proporzionalità ed individualizzazione della pena a cui si è ispirato il legislatore ordinario sia nel dettare i criteri di determinazione della pena nella fase di cognizione (art. 133 C.p.), sia nel fissare i principi del trattamento penitenziario (artt. 1 e 13 della legge 354/75), sia infine nel realizzare una strategia sanzionatoria differenziata con l'introduzione e di sanzioni sostitutive (legge 689/81) e di misure alternative alla detenzione (legge 354/75).

Tali principi vanno pertanto realizzati concretamente non solo nella fase di cognizione, ma anche in quella esecutiva; per questo motivo è necessario non limitarsi a criteri formali, ma tener conto delle "circostanze di contenuto sostanziale intervenute successivamente alla fase di cognizione e perciò non considerate in quella sede".

Alla luce di queste riflessioni la Corte Costituzionale non ha potuto non dichiarare esigenza imprescindibile dei principi di proporzionalità e di individualizzazione della pena che la Sezione di Sorveglianza (oggi Tribunale di Sorveglianza) nel procedere alla revoca dell'affidamento in prova, per il comportamento incompatibile con la sua prosecuzione, debba determinare la durata della residua pena detentiva da scontare, tenendo conto, sia del periodo di prova trascorso dal condannato nell'osservanza delle prescrizioni imposte e del concreto carico di queste, sia della gravità oggettiva del comportamento che ha dato luogo alla revoca.

La Corte, come già precedentemente accennato, non ha comunque omesso di evidenziare che ciò comporta l'attribuzione al Tribunale di Sorveglianza di un consistente potere discrezionale, sottolineando però come questo fenomeno sia e comune ad altri ordinamenti e coerente con l'analogo potere spettante al predetto Tribunale e al Magistrato di Sorveglianza in sede di ammissione alla misura, di controllo sul corso di essa e di individuazione dei presupposti della sua revoca.

La Corte inoltre conclude affermando che d'altra parte non è certo inibito al legislatore dettare nuove regole che, in ottemperanza al precetto costituzionale, valgano a stabilire puntuali criteri di valutazione e comparazione.

Nel corso della diatriba sulle problematiche relative alla revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale la Corte di Cassazione ha trovato il modo di precisare che "la revoca medesima può essere disposta, ricorrendo le condizioni previste nel comma 10 dell'art. 47 o.p., anche se è ormai interamente trascorso, per un qualsiasi motivo, il tempo corrispondente alla predetta pena residua, la quale, disposta la revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale, dovrà essere eseguita".

In questo modo la Corte ha tentato di risolvere il problema, proprio di tutti gli ordinamenti che prevedono istituti in varia misura riconducibili al probation-system, relativo alla configurabilità di una "revoca postuma", cioè di una revoca dichiarata quando il periodo di affidamento in prova al servizio sociale è ormai interamente trascorso.

In linea di massima, all'interno dei diversi sistemi penali, ci si è orientati a favore della possibilità di procedere alla revoca dell'affidamento anche dopo la scadenza del periodo di prova. Pur variando infatti i limiti cronologici entro i quali viene consentita, la revoca tuttavia svolge un insostituibile ruolo di controllo quale "elemento di chiusura" garantendo l'effettività della prova ed impedendo l'elusione, per difficoltà contingenti (magari collegate alla lunghezza dei tempi processuali), di un'effettiva e puntuale verifica sull'efficacia del periodo di prova stesso.

Conferma della necessità di poter configurare una "revoca postuma" è data inoltre dall'ipotesi di revoca conseguente alla commissione di un reato, in questo caso infatti la possibilità di emettere tale provvedimento in un momento successivo rispetto a quello della conclusione del periodo di prova, viene a concretare un'obiettiva esigenza di giustizia sostanziale.

Il fondamento stesso della revoca, cioè il reato, dovrà infatti essere accertato con formalità procedurali (quelle tipiche del giudizio di cognizione) ben più complesse e lunghe di quelle occorrenti per verificare presunte inosservanze di prescrizioni nell'affidamento. È proprio in questa ipotesi dunque che appare altamente probabile che i tempi processuali richiesti dal procedimento di revoca nel suo complesso spostino quest'ultima nel tempo ben al di là dei limiti cronologici previsti per il periodo di prova.

La configurabilità di una revoca successiva all'esaurirsi del periodo di affidamento quindi è di per sé sicuramente concepibile, anche sulla base dell'inesistenza, nel nostro ordinamento, di termini perentori per il procedimento di revoca che di fatto soltanto un'espressa disposizione di legge potrebbe stabilire. Il silenzio del legislatore in proposito può perciò essere colmato solo argomentando sulla base dei principi ispiratori dell'affidamento in prova, fra i quali abbiamo visto rientrare la funzione di reale verifica sull'effettività dell'istituto assegnata alla revoca; funzione che non potrebbe non essere compromessa dall'ipotizzare che il tempo della revoca coincida con il periodo di tempo della prova.

L'ammissibilità di un provvedimento revocatorio postumo non implica però che la revoca non incontri limiti di tempo in assoluto, vi è infatti almeno un limite naturale, di natura sostanziale, rappresentato dal verificarsi delle c.d. cause estintive della pena. Pertanto, dal momento che la revoca comporta l'esecuzione detentiva di una pena (quella a suo tempo quantificata per il reato commesso), ne consegue che il provvedimento revocatorio non potrà aver luogo se tale sanzione risulta, per qualsiasi ragione, estinta.

Parte della dottrina al riguardo, pur ammettendo la difficile contestabilità di tale impostazione, ha sottolineato come i termini di revoca implicitamente tracciati dal legislatore con il suo silenzio siano "eccessivamente ampi e politicamente svantaggiosi", in quanto, facilitando revoche eccessivamente tardive, possono compromettere processi rieducativi ben avviati o addirittura compiuti nonostante la formale elusione dell'affidamento da parte del reo.

Con le previsioni di cui agli artt. 15 e 16 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, il legislatore ha ulteriormente precisato casistica e modalità di cessazione o prosecuzione delle misure alternative sia in relazione all'affidamento in prova al servizio sociale, che alla detenzione domiciliare, che infine al regime di semilibertà.

Con l'introduzione nell'ordinamento penitenziario dell'art. 51 bis infatti si è previsto che quando durante l'attuazione dell'affidamento in prova al servizio sociale o della detenzione domiciliare o del regime di semilibertà sopravviene un titolo di esecuzione di altra pena detentiva, il direttore dell'istituto penitenziario o il direttore del centro di servizio sociale informi immediatamente il Magistrato di Sorveglianza. Nel caso in cui quest'ultimo ritenga che, tenuto conto del cumulo delle pene, permangano le condizioni di cui al comma 1 dell'art. 47 o al comma 1 dell'art. 47 ter o ai primi tre commi dell'art. 50, deve disporre con decreto la prosecuzione della misura provvisoria in corso; in caso contrario invece deve disporre la sospensione della misura stessa.

Il Magistrato di Sorveglianza trasmette quindi gli atti al Tribunale di Sorveglianza che deve decidere nel termine di venti giorni la prosecuzione o la cessazione della misura.

La previsione di cui si tratta va molto opportunamente incontro alle difficoltà rilevate nella pratica operativa, ove le interruzioni nell'esecuzione di una misura alternativa - determinate dal sopravvenire di titoli esecutivi di pena talvolta anche molto brevi - danneggiavano lo svolgimento del trattamento in modo spesso grave (ad esempio causando la perdita, per il semilibero o per l'affidato, del posto di lavoro).

L'art. 51 ter o.p. invece disciplina la sospensione cautelativa delle misure alternative, in base alla quale se l'affidato in prova al servizio sociale o l'ammesso al regime di semilibertà o di detenzione domiciliare pone in essere comportamenti tali da determinare la revoca della misura, il Magistrato di Sorveglianza nella cui giurisdizione essa è in corso ne dispone con decreto motivato la provvisoria sospensione, ordinando l'accompagnamento del trasgressore in istituto e trasmettendo quindi immediatamente gli atti al Tribunale di Sorveglianza per le decisioni di competenza. Il provvedimento di sospensione del Magistrato di Sorveglianza cessa di avere efficacia se la decisione del Tribunale di Sorveglianza non interviene entro trenta giorni dalla ricezione degli atti.

Con l'attribuzione al Magistrato di Sorveglianza della competenza a disporre la sospensione cautelativa delle misure alternative, il legislatore ha risolto un problema che la riforma del 1975 aveva considerato solo parzialmente e in linea di principio, restando indefinita la regolamentazione operativa. L'ipotesi di sospensione infatti era stata prevista solo per la semilibertà ed in relazione alla eventuale denuncia intervenuta a carico del semilibero per il reato di evasione.

Nulla era previsto per l'affidamento, con la conseguenza pratica di accrescere enormemente i rischi di fuga nei casi in cui lo svolgimento insoddisfacente della misura rendeva probabile, ed infine inevitabile, l'avvio di un nuovo procedimento davanti al Tribunale di Sorveglianza finalizzato ad un eventuale provvedimento di revoca.

Attualmente la sospensione cautelare può riguardare il semilibero come l'affidato, come l'ammesso al regime di detenzione domiciliare, in ordine a fattispecie trasgressive ben più gravi di quelle considerate in passato solo per la semilibertà. Anche senza che sia intervenuta evasione infatti è realizzabile una sospensione quando il soggetto "pone in essere comportamenti tali da determinare la revoca della misura". Per ricavare di quali comportamenti in concreto si tratti occorre far riferimento ai singoli istituti, ove sono specificati i rispettivi limiti di condotta oltre i quali è giuridicamente possibile dar luogo ad un provvedimento di revoca.

Infine l'art. 58 quater o.p., introdotto dal D.L. 13 Maggio 1991, n. 152, convertito dalla legge 12 Luglio 1991, n. 203, prevede il divieto, per cinque anni, di concessione dei benefici e l'obbligo di revoca dei benefici eventualmente già concessi nei confronti dei condannati per taluno dei delitti indicati dal comma 1 dell'art. 4 bis o.p., qualora si proceda o sia pronunciata condanna nei confronti dei medesimi per un delitto doloso punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni, commesso da chi ha posto in essere una condotta punibile a norma dell'art. 385 c.p. ovvero durante il lavoro all'esterno, la fruizione di permesso premio o di una misura alternativa alla detenzione.

Non vi è dubbio che il sistema scelto dal legislatore per enunciare i divieti nell'articolo in questione è piuttosto complesso in quanto, con il richiamo al primo comma dell'art. 4 bis, si fa riferimento alla situazione di coloro che in principio sono esclusi dai benefici, ma che, per il sopravvenire di condizioni ritenute meritevoli di considerazione, vi vengono nuovamente ammessi, e poi ancora esclusi per aver commesso il reato di evasione.

Ai fini dell'applicazione della disposizione di cui al comma 5 dell'art. 58 quater o.p., l'autorità giudiziaria che procede per il nuovo delitto ne dà comunicazione al Magistrato di Sorveglianza del luogo di ultima detenzione dell'imputato.

 

L'affidamento in prova in casi particolari

 

Un discorso a parte va poi fatto riguardo all'affidamento in prova in casi particolari. Si tratta di una misura alternativa introdotta con l'art. 4 ter della legge 21 giugno 1985, n. 297, che ha convertito il decreto legge 144/85, contenente norme per l'erogazione di contributi finalizzati al sostegno delle attività di prevenzione e reinserimento dei tossicodipendenti nonché disposizioni per la distruzione di sostanze stupefacenti e psicotrope sequestrate e confiscate.

Per consentire un'adeguata integrazione nel quadro delle misure alternative alla detenzione di questo particolare istituto, la legge 297/85 è stata in seguito opportunamente modificata dalla legge 663/86, la quale ha inserito nell'ordinamento penitenziario l'art. 47 bis. Successivamente, con il testo unico della legge in materia di stupefacenti (D.P.R. 309/1990), le previsioni contenute nel detto articolo sono state ancora una volta ritoccate, inserendole nel corpo stesso della disposizione normativa in questione. Da un punto di vista formale, quindi, la materia de quo non fa più parte del testo dell'ordinamento penitenziario, rimanendo però di natura eminentemente penitenziaria le sue disposizioni.

Con tutta evidenza il legislatore, sulla base di considerazioni spiccatamente (se non esclusivamente) specialpreventive, ritenendo la condizione di tossicodipendenza e di alcooldipendenza incompatibili con lo stato di detenzione, ha privilegiato il programma di recupero del condannato, accordandogli la possibilità di evitare, anche per reati diversi da quelli previsti dalla legge sugli stupefacenti, l'esperienza della carcerazione in cambio di un impegno a partecipare ad un programma terapeutico di recupero, nel quadro dell'istituto dell'affidamento in prova.

La disciplina prevista per l'affidamento in prova in casi particolari infatti ricalca sostanzialmente le disposizioni contenute nell'art. 47 o.p., discostandosene solo per gli aspetti strettamente correlati alle peculiarità dell'istituto.

Nello specifico l'art. 47 bis prevede che alla domanda debba essere allegata certificazione rilasciata da una struttura sanitaria pubblica attestante lo stato di tossicodipendenza o di alcooldipendenza e la idoneità, ai fini del recupero del condannato, del programma concordato. Inoltre è attribuito al Tribunale di Sorveglianza, ai fini della decisione sulla concessione della misura alternativa in questione, anche la facoltà di acquisire copia degli atti del procedimento e di disporre opportuni accertamenti in ordine al programma terapeutico concordato.

Oltre a questo permane per il Tribunale di Sorveglianza l'obbligo di accertare che lo stato di tossicodipendenza o alcooldipendenza o l'esecuzione del programma di recupero non siano preordinati al conseguimento del beneficio, previsione quest'ultima tanto più opportuna se si osserva che in nessun passaggio dell'articolo viene posta la condizione che il reato da cui deriva la condanna sia stato commesso quando già esisteva nel soggetto uno stato di tossicodipendenza o alcooldipendenza. Si può quindi ipotizzare che un condannato niente affatto coinvolto in stati di dipendenza strumentalizzi le previsioni dell'art. 47 bis, ponendo in atto simulazioni o artificiose forzature della realtà per evitare l'esecuzione di una carcerazione alla quale non potrebbe diversamente sottrarsi..

Nel caso in cui il Tribunale disponga per l'affidamento ai sensi dell'art. 47 bis, tra le prescrizioni impartite, devono essere incluse quelle che determinano le modalità di esecuzione del programma e devono altresì essere stabilite le prescrizioni e le forme di controllo per accertare che il tossicodipendente o l'alcooldipendente prosegua il programma di recupero; la data del verbale di affidamento viene considerata quale termine iniziale dell'esecuzione della pena.

La legge 663/86 ha disposto che questo particolare tipo di affidamento in prova al servizio sociale, non possa comunque essere disposto più di due volte, coerentemente con il significato riabilitativo e non già genericamente liberatorio dell'istituto; significato che risulta appunto vanificato se il soggetto dimostra, anche dopo una seconda prova, di non essere in grado di avvalersi della misura per uscire dalla condizione di dipendenza in cui si trova.

Per tutto ciò che non è esplicitamente disciplinato dall'art. 47 bis si rinvia all'affidamento in prova al servizio sociale, di cui all'art. 47 o.p., in particolar modo per quanto concerne la revoca. Anche per questa misura infatti risulta operante la regola che annette alla buona riuscita del trattamento alternativo conseguenze estintive della pena e degli altri effetti penali, sebbene il concetto stesso di esito positivo della misura risulti di difficile decifrazione.

In effetti parte della dottrina ha ritenuto che obiettivo del programma terapeutico debba essere anzitutto, anche se non esclusivamente, la disintossicazione del soggetto ed il suo allontanamento dalla droga.

Altra parte invece ha sostenuto che la non coincidenza fra tempo della terapia e durata della pena porti ad escludere che l'esito positivo si sostanzi sempre nella raggiunta non dipendenza psicologica dagli stupefacenti.

In questa ottica ad un traguardo eventuale, e non sempre raggiungibile, si sostituisce in sostanza un obiettivo minimale assunto come indicativo di una proiezione comportamentale verso l'uscita dalla tossicodipendenza, cioè un contegno dell'interessato sostanzialmente non elusivo degli interventi programmati.

Questo sarebbe un risultato di per sé non trascurabile se riferito a soggetti la cui propensione al reato derivi dalla condizione di tossicodipendenza, ma certo inappagante qualora la si riferisca a situazioni in cui la spinta a delinquere è svincolata da quello stato; in quest'ultimo caso la promessa, pur mantenuta, di sottostare al trattamento terapeutico non significa necessariamente rinuncia ad un ulteriore violazione delle regole penali.

Queste riflessioni hanno fatto ipotizzare a certa dottrina che la misura in esame lungi dall'essere stata pensata con il fine di soddisfare le esigenze riabilitative del tossicodipendente, sia stata invece tentativo di risoluzione delle preoccupazioni di buon governo del carcere compromesso dalla irrisolta situazione di sovraffollamento.

Se l'esito positivo si esaurisce nella esecuzione ininterrotta del programma riabilitativo è chiaro che, a contrario, ogni inosservanza da cui è pregiudicata la continuità della terapia integra, di per sé, quel comportamento incompatibile che provoca la fine anticipata della misura.

La revoca qui viene ad assumere un ruolo di "rinforzo positivo" (cioè come tecnica di condizionamento psicologico del comportamento) della scelta terapeutica ribadita o manifestata dal condannato al momento dell'applicazione del trattamento particolare.

La minaccia di revoca serve a dissuadere dall'interruzione delle attività terapeutiche (da cui dipende la valutazione sugli effetti della prova) e paradossalmente la sua efficacia è più pregnante nel caso dell'affidamento ai sensi dell'art. 47 bis, in quanto l'impiego di una certa qual coazione, che sopperisca alle carenze volitive può rivelarsi utile perlomeno per il tossicodipendente che abbia liberamente intrapreso un percorso riabilitativo, e comunque più efficace che per il normale affidato, sempre però che i momenti di coazione eventualmente necessari nel percorso di liberazione dagli stupefacenti siano attuati nel rigoroso rispetto dell'integrità fisica e della dignità della persona sottoposta a trattamento.

Per quanto riguarda gli effetti conseguenti alla revoca, vale quanto già esposto in relazione all'affidamento in prova ordinario, per cui il Tribunale di Sorveglianza competente per la revoca deve determinare la residua pena tenendo conto della durata delle limitazioni patite dal condannato e del suo comportamento durante il periodo di prova.

Questa disciplina appare quanto mai adeguata se si considera le difficoltà che concretamente si oppongono ad una rapida uscita dalla tossicodipendenza e la severità che connota taluni interventi terapeutici. Anche in questo caso dunque si salvaguarda la forza intimidativa della revoca impedendo che la sua declaratoria esoneri il condannato da ogni conseguenza sanzionatoria.

L'ipotesi di revoca per motivi indipendenti dal comportamento assunto dal condannato durante l'affidamento in prova in casi particolari prevede, accanto alle cause originarie o sopravvenute di inammissibilità che determinano l'annullamento anche dell'affidamento ordinario, cause di insussistenza dei requisiti propri della misura in esame (non preordinazione dello stato di tossicodipendenza o della esecuzione del programma terapeutico, limite di ripetibilità della misura); comunque anche in questi casi si è optato per la deducibilità del periodo trascorso in prova dalla durata della pena.

Infine è da rilevare come non sia applicabile all'affidamento in prova in casi particolari la normativa restrittiva prevista dall'art. 58 quater o.p., in quanto il legislatore con la norma in esame ha fatto riferimento alle "misure alternative alla detenzione previste dal Capo VI".

Tale inapplicabilità risulta essere perfettamente logica dal momento che, come già esposto, la misura alternativa dell'affidamento in prova in casi particolari non è più disciplinata dal citato Capo VI, ma è altresì compiutamente regolata dal D.P.R. 309/90. Inoltre tale esclusione risulta pienamente comprensibile, ove si consideri la natura della misura alternativa in esame e la presumibile scarsa capacità delinquenziale di soggetti affetti da alcool o tossicodipendenza, quantomeno con riferimento ai reati di criminalità organizzata.

 

La detenzione domiciliare

 

L'inserimento nella normativa penitenziaria della previsione dell'art. 47 ter costituisce senza dubbio uno degli apporti più rilevanti della legge 10 ottobre 1986, n. 663, la quale viene a porre la detenzione domiciliare come forma di esecuzione, per una determinata categoria di soggetti, della pena detentiva a regime attenuato svolta in un luogo diverso dal carcere, sia esso rappresentato dalla propria abitazione, da altro luogo di privata dimora o da luogo pubblico di cura od assistenza.

La detenzione domiciliare non costituisce tuttavia una novità assoluta in quanto come istituto di diritto processuale è contemplata in non pochi ordinamenti stranieri, e come sanzione penale alternativa era già prevista dall'art. 21 del c.p. per il Regno d'Italia del 1889 e ancor prima in numerosi codici preunitari.

Inoltre il legislatore, prima dell'istituzione di questa misura, aveva già previsto, anche per la fase esecutiva, norme che salvaguardassero l'integrità fisica del condannato: artt. 11 o.p. e 17 reg. esec. o.p. (prevedono idonei trattamenti ed interventi terapeutici funzionali alla tutela della salute dei detenuti); artt. 146 e 147 c.p. (pongono limiti alla stessa attuazione della pretesa esecutiva dello stato).

Nella formulazione originaria dell'articolo in questione esisteva anche un secondo comma che riguardava il divieto di applicazione della detenzione domiciliare a soggetti collegati con la criminalità organizzata o che avessero fatto "una scelta di criminalità". Il comma è stato abrogato dall'art. 1, comma 7, del D.L. 13 Maggio 1991, n. 152, convertito nella legge 12 Luglio 1991, n. 203, ed il divieto di cui trattava il comma è stato assorbito dalle disposizioni limitative dell'attuale art. 4 bis o.p.

Attraverso la detenzione domiciliare si è data attuazione ai precetti costituzionali sanciti all'art. 27, comma 3, Cost. in base al quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e all'art. 32 Cost. che tutela la salute come diritto fondamentale dell'individuo e l'interesse della collettività a rendere meno afflittiva l'espiazione della pena per quei soggetti destinatari che si trovano in particolari condizioni.

Come infatti ha sostenuto in più occasioni la Corte Costituzionale "la detenzione domiciliare deve essere considerata, a tutti gli effetti, una pena alternativa alla detenzione o. se si vuole, una modalità di esecuzione della pena caratterizzata - al pari dell'affidamento in prova - dalla soggezione a prescrizioni limitative della libertà sotto la vigilanza del Magistrato di Sorveglianza e con l'intervento del servizio sociale".

Inoltre, "tenendo conto delle condizioni specifiche in cui devono trovarsi i soggetti a cui è applicata, questa misura risulta anche caratterizzata, in particolare, da una finalità umanitaria ed assistenziale" essendo diretta a salvaguardare determinate situazioni particolari ritenute meritevoli di tutela, sostituendo la detenzione in carcere con altra meno afflittiva.

La detenzione domiciliare si pone come sviluppo logico, in sede di esecuzione della sentenza di condanna a pena detentiva, dell'analogo istituto processuale degli arresti domiciliari già introdotto, all'interno del codice di procedura penale abrogato (art. 254 bis e ss.). con la legge 28 luglio 1984, n. 398, come misura alternativa o sostitutiva della custodia cautelare in carcere.

Così come gli arresti domiciliari infatti costituiscono una forma di detenzione preventiva a regime attenuato svolta in luogo diverso dagli istituti di custodia cautelare, la detenzione domiciliare rappresenta una forma di esecuzione della pena detentiva a regime attenuato svolta in luogo diverso dal carcere. Ciò che non appare sufficientemente definito è invece il contenuto intrinseco della misura sul piano rieducativo.

La mancanza nelle previsioni normative di cui si discute di un richiamo esplicito alle finalità della misura, a presupposti come quelli indicati per l'affidamento in prova nel secondo comma dell'art. 47 o.p., o per la semilibertà dal quarto comma dell'art. 50 o.p., nonché a qualsiasi nozione contenutisticamente significativa circa il trattamento da svolgere nel corso della misura, costituisce indubbiamente un fatto di rilievo.

La misura alternativa in questione in effetti costituisce una mera modalità di esecuzione della pena riservata a poche e ben individuate categorie di soggetti e non persegue nessuna funzione risocializzatrice; infatti le prescrizioni che possono essere adottate nei confronti del soggetto ammesso alla detenzione domiciliare attengono per lo più alle modalità di fruizione della misura.

Dal raffronto fra detenzione domiciliare ed arresti domiciliari risulta evidente la diversità tra i due istituti: in primo luogo per quanto riguarda la loro natura giuridica (gli arresti domiciliari sono una misura cautelare eminentemente processuale, diretta ad evitare il pericolo di fuga dell'imputato e di inquinamento delle prove; la detenzione domiciliare invece è priva di qualsiasi funzione cautelare o preventiva costituendo solo una modalità alternativa di esecuzione della pena), in secondo luogo in relazione all'ambito soggettivo di applicazione di tali misure (gli arresti domiciliari sono previsti come provvedimento generalmente fruibile, mentre la detenzione domiciliare è riservata a determinate categorie di soggetti).

Sebbene tra i due istituti siano riscontrabili queste ed altre differenze i punti di contatto però rimangono numerosi (basti pensare che nel concedere la detenzione domiciliare il Tribunale di Sorveglianza ne fissa le modalità di esecuzione secondo i criteri dettati dall'art. 284 c.p.p. per gli arresti domiciliari).

Stante l'espressa assimilazione legislativa alla misura cautelare degli arresti domiciliari, la detenzione domiciliare risulta assai riduttiva, se non quasi completamente privativa della libertà del soggetto tanto che parte della dottrina l'ha configurata come caso limite tra la condizione carceraria e la misura alternativa, portando a conferma di questa interpretazione il carattere di extrema ratio dell'istituto, nell'ambito delle possibilità di scelta offerte dall'attuale panorama delle misure alternative.

Altra dottrina invece ha sottolineato la completa autonomia rispetto alla pena carceraria della detenzione domiciliare, la quale una volta concessa, salvi i controlli e le possibili revoche, è del tutto estranea all'organizzazione penitenziaria (art. 47 ter, comma 5, interpretato in senso restrittivo per cui non trovano applicazione soltanto le norme relative all'ordinamento penitenziario in senso stretto), manifestandosi dunque come alternativa piena al carcere, come modalità integralmente extracarceraria della pena.

Riguardo alla revoca della misura alternativa della detenzione domiciliare essa può essere disposta, sulla base di quanto sancito dall'art. 47 ter o.p., al verificarsi di tre distinte situazioni: la misura è revocata se il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appare incompatibile con la prosecuzione della prova (comma 6); la misura è revocata quando vengono a cessare le condizioni previste nel primo comma dello stesso art. 47 ter o.p. (comma 7); infine la misura è revocata al soggetto, in regime detentivo domiciliare, condannato per evasione (comma 8 e 9).

Risulta evidente come la formula usata per definire la prima delle succitate situazioni ricalchi quella contenuta nel comma 10 dell'art. 47 o.p. in tema di affidamento in prova al servizio sociale, anche se, come è stato osservato da taluni , sfuggono le ragioni di tale simmetria dal momento che non viene effettuato per la detenzione domiciliare un giudizio di "idoneità alla misura" cosicché risulta difficile individuare un criterio successivo di "inidoneità alla prosecuzione" della medesima.

Comunque, come per l'affidamento in prova, anche la revoca della detenzione domiciliare non consegue alla mera violazione di una disposizione di legge o di una prescrizione, ma viene pronunciata solo quando tale violazione riveli l'inopportunità o l'impossibilità circa la prosecuzione della misura; tutto ciò coerentemente non solo con quanto dettato in tema di affidamento, ma soprattutto con l'orientamento del legislatore in tema di misure alternative alla custodia carceraria.

L'incompatibilità dunque, sia che derivi dalla commissione di un reato, sia da attività in contrasto con la condotta autorizzata, non comporta la revoca automatica ed il ripristino dello stato detentivo, bensì occorre che il Tribunale di Sorveglianza valuti se quel comportamento abbia inciso negativamente sulla scelta di vita del condannato, come stabilito dall'art. 51 ter o.p. (già citato in tema di affidamento in prova al servizio sociale, nonché valido anche per il regime di semilibertà).

Peraltro, proprio per la struttura della detenzione domiciliare e per le tipologie dei soggetti ammessi, il contenuto delle prescrizioni risulta assai circoscritto, limitato ulteriormente dal richiamo al comma 2 dell'art. 254 quater c.p.p. abr.: le prescrizioni si ridurranno all'indicazione degli orari di uscita e di rientro per i soggetti autorizzati ad allontanarsi dal luogo di detenzione e la violazione di conseguenza inerirà a tali indicazioni.

La seconda ipotesi di revoca è indicata dal comma 7 dell'art. 47 ter o.p. e riguarda il venir meno delle condizioni previste dal primo comma del medesimo articolo, che sono state all'origine del provvedimento di concessione.

La valutazione relativa all'avvenuta cessazione dell'esistenza dei presupposti di concessione per alcune delle ipotesi indicate dal primo comma risulta piuttosto agevole, mentre per altre sicuramente non lo è, e comunque appare sempre necessario un accertamento concreto della situazione del soggetto. Si pensi ad esempio al minore di anni ventuno, ammesso alla detenzione domiciliare per "comprovate esigenze di salute", che nel frattempo compia i ventuno anni, ma per il quale continuino a sussistere le suddette esigenze.

In tal caso sarà necessario almeno verificare se la situazione così profilata possa concretare l'ipotesi di cui al n. 2 dello stesso art. 47 ter comma 1 o.p., cioè se le condizioni di salute del condannato ormai ventunenne, risultando "particolarmente gravi" da richiedere "costanti contatti con i presidi sanitari territoriali", siano tali da giustificare, sia pure ad altro titolo, il mantenimento della detenzione domiciliare, o viceversa legittimino la disposizione del provvedimento di revoca.

L'ultima ipotesi di revoca della misura alternativa in questione è costituita dall'allontanamento dal luogo stabilito per la detenzione domiciliare. Più nello specifico, alla semplice denuncia di allontanamento dai luoghi di detenzione domiciliare consegue la sospensione della misura alternativa, alla condanna definitiva per il reato di evasione consegue l'applicazione della revoca della misura stessa. Tale disciplina peraltro ripropone quanto già sancito dal legislatore per altre misure alternative (art. 51 o.p. per la semilibertà).

Inoltre anche per la detenzione domiciliare, come per le altre misure alternative indicate, l'art. 51 ter o.p. prevede la sospensione cautelare della misura alternativa, sospensione che deve essere disposta con provvedimento provvisorio del Magistrato di Sorveglianza adottabile quando il comportamento del soggetto sia tale da determinare la revoca del beneficio.

In questo caso il Magistrato di Sorveglianza ordina l'accompagnamento del condannato in istituto e trasmette gli atti al Tribunale di Sorveglianza per il procedimento di revoca. Il provvedimento provvisorio cessa di avere efficacia se entro trenta giorni dalla ricezione degli atti il Tribunale non dispone la revoca del beneficio.

A questo proposito però parte della dottrina si è domandata se questo provvedimento debba essere adottato in ogni ipotesi di possibile revoca o se vadano effettuate delle distinzioni. La soluzione a questo problema è stata cercata nel coordinamento tra l'art. 51 ter o.p. ed il comma 9 dell'art. 47 ter o.p., secondo cui la denuncia per evasione implica la sospensione della misura alternativa e solo la condanna divenuta irrevocabile ne comporta la revoca.

Si tratta di effetti penali conseguenti al reato, in relazione ai quali i provvedimenti del Magistrato che li concretizzano hanno semplice efficacia dichiarativa e non costitutiva, quindi in tali casi non appare certamente giustificabile un provvedimento di sospensione a carattere provvisorio, come quello previsto dall'art. 51 ter e suscettibile di conferma da parte del Tribunale di Sorveglianza nel breve termine di trenta giorni.

Se infatti la provvisorietà del provvedimento appare spiegabile quando questo sia collegato a fatti suscettibili di valutazione discrezionale, come il comportamento incompatibile con la prosecuzione della misura, altrettanto non può dirsi in relazione a fatti precisi come la denuncia per evasione.

D'altra parte la brevità del termine viene a scontrarsi con la notoria lunghezza dei tempi necessari per pervenire ad una sentenza irrevocabile (di condanna o di assoluzione) in tema di evasione, tanto che la sospensione della misura, qualora dovesse essere disposta sulla base dell'art. 51 ter o.p., sarebbe destinata fatalmente a perdere efficacia, poiché non sarebbe possibile l'emanazione di un provvedimento di revoca entro soli trenta giorni dal fatto.

Da quanto sopra esposto si conclude che le due norme (art. 51 ter e comma 9 dell'art. 47 ter o.p.), come i provvedimenti da esse previsti, sono state considerate separate ed autonome fra loro. Perciò la suddetta dottrina ha ritenuto che la sospensione in caso di evasione debba essere obbligatoriamente disposta dal Magistrato di Sorveglianza sulla base della notizia dell'avvenuta denuncia del condannato, mentre il provvedimento di cui all'art. 51 ter o.p. debba essere adottato solo quando si tratti di comportamenti diversi dall'evasione suscettibili di determinare la revoca della misura alternativa.

In realtà molti problemi interpretativi sono stati risolti dalla sentenza della Corte Costituzionale 13 Giugno 1997, n. 173, anche se tuttavia qualche perplessità ha suscitato l'iter argomentativo seguito dalla sentenza e la drastica conclusione cui essa perviene, nel senso della declaratoria di incostituzionalità.

La Corte Costituzionale ha ritenuto costituzionalmente illegittimo l'art. 47 ter, ultimo comma, della legge 26 Luglio 1975, n. 354, nella parte in cui fa derivare automaticamente la sospensione della detenzione domiciliare dalla presentazione di una denuncia per il reato previsto dal comma 8 dello stesso articolo, in quanto la disposizione censurata è in contrasto tanto con il principio di ragionevolezza che con quelli della funzione rieducativa della pena e della tutela della salute individuale.

La Corte ha concluso dunque che spetti al Magistrato di Sorveglianza verificare, caso per caso, se la condotta posta in essere dal condannato, ed in ordine alla quale è stata presentata denuncia per evasione, presenti "le caratteristiche, soggettive ed oggettive, di una non giustificabile sottrazione all'obbligo di non allontanarsi dalla propria abitazione o dal luogo altrimenti indicato ai sensi dell'art. 47 ter o.p.", disponendo quindi soltanto in ipotesi di positivo riscontro la sospensione della misura alternativa. Decisione quest'ultima che, proprio perché derivante da un apprezzamento di merito della situazione di specie, necessariamente dovrà essere adottata con le forme del provvedimento motivato.

Dei vari profili prospettati dal giudice remittente la Corte prende in considerazione e fa proprio quello relativo al parametro della ragionevolezza del sistema, contro cui urterebbe il meccanismo delineato nel comma 9 dell'art. 47 ter o.p., ritenendo invece non fondata la questione concernente la diversa disciplina della sospensione e della revoca accolta dall'art. 51 ter o.p.

Il giudice remittente aveva sottolineato come il comm 9 dellart. 47 ter o.p., laddove precisa che la denuncia per evasione "importa la sospensione del beneficio", non consenta alcuna valutazione del comportamento tenuto dal beneficiario della misura, imponendo anzi al Magistrato di Sorveglianza una "acritica presa d'atto" e violando così la presunzione di non colpevolezza sancita dall'art. 27, comma 2, Cost.

Il medesimo giudice peraltro aveva anche evidenziato come si verrebbe a delineare una irragionevole disparità di trattamento tra le ipotesi di sospensione ai sensi dell'art. 51 ter o.p., per effetto di comportamenti devianti posti in essere durante la prova, e quella conseguente alla denuncia per il reato di evasione ex art, 385 c.p.

Nel primo caso infatti la sospensione è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice, mentre nel secondo la denuncia comporterebbe l'automatica cessazione del beneficio con conseguente rientro in carcere.

Inoltre la previsione del comma 9 si porrebbe altresì in contrasto con la funzione rieducativa della pena perché la sua automatica applicazione verrebbe ad "interrompere il rapporto esecutivo ed il percorso risocializzativo, riabilitativo e terapeutico intrapreso". Quindi, sotto quest'ultimo aspetto, rivelerebbe "indifferenza normativa verso le conseguenze lesive del bene della salute" protetto dall'art. 32 Cost., che verrebbero prodotte dalla cessazione del beneficio e dal rientro in carcere del soggetto.

La Corte Costituzionale però riconosce e sottolinea la "forte valenza" negativa dell'evasione (rectius dell'allontanamento equiparato all'evasione), che rappresenta una "specifica rottura" con il regime alternativo, tanto che "disconoscere la specificità dell'infrazione consiste nell'evasione rispetto ad altre infrazioni (....) non è possibile senza togliere al sistema uno dei cardini del suo funzionamento".

Appunto per questo la Corte ritiene che non sia possibile la comparazione con il meccanismo delineato nell'art. 51 ter o.p. (richiamato invece dal giudice remittente per sostenere la disparità di trattamento) attesa la diversità delle situazioni e la loro non equiparabilità all'evasione

Non si può negare che il legislatore, introducendo nell'art. 47 ter o.p. una autonoma disciplina di sospensione conseguente a condotte riconducibili al reato di evasione, abbia voluto differenziare le ipotesi che possono determinare la sospensione (e successivamente la revoca) della detenzione domiciliare, esprimendo in tal modo un giudizio di maggior disvalore nei confronti dell'allontanamento dal luogo imposto con l'ordinanza concessiva del beneficio, cioè attribuendo a tale condotta un inequivocabile significato di inconciliabilità rispetto alla misura stessa o meglio rispetto alla sua prosecuzione.

Tale concetto però è comunque già espresso nel comma 6 dell'art. 47 ter o.p., laddove si riconduce la revoca ad un "comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, che appare incompatibile con la prosecuzione della misura".

Il quadro della disciplina della revoca della misura alternativa in questione va infine completato osservando che, qualora la persona ammessa alla detenzione domiciliare ed evasa sia stata condannata a suo tempo e si sia trovata in esecuzione di pena inflitta per uno dei reati indicati nell'art. 4 bis o.p. e commetta durante l'evasione un delitto punibile in astratto con la reclusione superiore a tre anni (delitto per cui si proceda o sia stata pronunciata condanna), la misura alternativa deve essere obbligatoriamente revocata sulla base di quanto disposto dal comma 5 dell'art. 58 quater o.p. introdotto con il D.L. 306/92.

Tale ulteriore restrizione si accompagna a quelle già previste con riferimento alla sola evasione durante la misura alternativa, con la differenza tuttavia che mentre per la semplice evasione la misura deve essere prima sospesa e poi revocata a seguito della sentenza definitiva di condanna, in questa ipotesi si procede alla revoca sulla base dell'esercizio dell'azione penale per il reato avente le caratteristiche sopraindicate.

Per la concreta operatività della speciale restrizione conseguente alla commissione di un delitto, l'autorità che procede deve darne comunicazione al Magistrato di Sorveglianza del luogo di ultima detenzione del soggetto (art. 58 quater, comma 6) il quale a sua volta dovrà informarne, trasmettendo i relativi atti, il Tribunale di Sorveglianza competente, che deve decidere entro trenta giorni dalla ricezione.

In ogni caso, la revoca della detenzione domiciliare, come delle altre misure alternative previste dall'art. 58 quater o.p., non ha carattere definitivo nel senso che essa può, ai sensi del comma 7 dello stesso articolo, essere nuovamente concessa dopo il decorso di cinque anni dal momento in cui è ripresa l'esecuzione della custodia o della pena o è stato emesso il provvedimento di revoca della misura.

È da sottolineare che anche la detenzione domiciliare è soggetta a cessazione nell'ipotesi di sopravvenienza di nuovi titoli di privazione della libertà, secondo le regole già viste riguardo all'affidamento in prova al servizio sociale (art. 51 bis o.p.).

Infine anche per quanto concerne il problema del computo del periodo anteriormente trascorso in stato di detenzione domiciliare si rinvia a quanto previsto per l'affidamento in prova al servizio sociale ritenendo che, in caso di revoca, sia che questa sia dovuta al venir meno delle condizioni soggettive previste per la sua concessione, sia che derivi dal comportamento del condannato, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate ed incompatibile con la prosecuzione della misura, debba essere considerato come pena espiata e detraibile perciò nel computo della pena residua da scontare.

Questa conclusione appare completamente in sintonia in primo luogo con la natura e finalità umanitaria della misura in questione, seconda di poi con il suo carattere fortemente afflittivo, infine con i riscontri sistematici dell'evoluzione interpretativa in materia di affidamento in prova al servizio sociale.

 

La semilibertà

 

La semilibertà si caratterizza per l'accostamento nell'arco delle ventiquattro ore di un periodo di detenzione e di uno di attività libera. Secondo il nostro ordinamento penitenziario consiste nella concessione al condannato di "trascorrere parte del giorno fuori dall'istituto per partecipare ad attività, istruttive o comunque utili al suo reinserimento sociale" (art. 48 o.p.).

Il più specifico contenuto della misura, comprendente anche gli orari di uscita e di rientro in carcere, è rimesso, in base al regolamento di esecuzione (art. 92, comma 2), alle prescrizioni che il direttore dell'istituto ed il Magistrato di Sorveglianza riterranno di dover imporre al condannato. Tutto ciò con massima realizzazione del principio dell'individualizzazione del trattamento, peraltro nella pratica quotidiana frustrato dalla prassi della rigida predeterminazione delle prescrizioni attraverso la predisposizione di moduli a stampa.

Alla unitarietà di contenuto della misura fa però riscontro nel nostro sistema una duplicità di presupposti che ne riflette anche la duplicità di funzioni. Occorre infatti distinguere, prescindendo dalla semilibertà obbligatoria quale forma di espiazione di pene pecuniarie convertite (ormai superata dal nuovo regime di conversione stabilito dalla legge 689/81), tra semilibertà sostitutiva ab origine di pene detentive brevi e semilibertà preparatoria alla liberazione di condannati a pene medio-lunghe.

Questa stessa distinzione è stata ripresa da parte della dottrina che se ne è servita per meglio definire il concetto di inidoneità al trattamento da cui, secondo l'art. 51 o.p., discende la revoca della semilibertà.

L'art. 51 o.p. infatti, disciplinando la sospensione e la revoca del regime di semilibertà, dispone che, quando il soggetto non si appalesi idoneo al trattamento, il provvedimento di semilibertà possa essere in ogni tempo revocato dal Tribunale di Sorveglianza che ha giurisdizione sul luogo in cui si trova l'istituto dove il soggetto è assegnato; il che comporta che in caso di trasferimento del soggetto in istituto di altra giurisdizione si sposti anche la competenza giudiziale.

Uno dei motivi di revoca della semilibertà è dunque l'inidoneità al trattamento. La corrente dottrinale già menzionata, nell'analizzare il concetto di "inidoneità al trattamento", ha ritenuto, trattandosi di pene medio-lunghe, in relazione alle quali la misura alternativa in questione è applicata in funzione preparatoria alla libertà, e in considerazione anche della scarsa determinatezza della formulazione testuale dell'art. 51 o.p., che per la revoca della semilibertà non sia sufficiente né necessaria una violazione delle prescrizioni.

Ciò che risulta rilevante infatti è che il comportamento tenuto dal semilibero lasci presumere che lo scopo proprio della misura, cioè il reinserimento sociale, non potrà verosimilmente essere raggiunto.

Per quanto riguarda invece la revoca della semilibertà relativa a pene brevi, per le quali tale misura alternativa risulta essere un semplice mezzo di attenuazione degli effetti desocializzanti della carcerazione, sempre la stessa dottrina ha ritenuto prevalente un criterio di inidoneità alla prosecuzione del trattamento in libertà per l'insorgere del pericolo di recidiva o comunque di sistematica inosservanza delle prescrizioni.

A questo orientamento dottrinale però se ne contrappone un altro che ritiene che il legislatore, anche se nell'art. 51 o.p. ha usato espressioni diverse da quelle contenute nel comma 11 dell'art. 47 o.p., tuttavia abbia inteso configurare un'ipotesi analoga, in quanto l'inidoneità al trattamento deve essere sempre ed "evidentemente" desunta da fatti comportamentali. Per questi autori non si vede infatti come, prescindendo dalle manifestazioni comportamentali, si possa fondare un così grave giudizio.

Sulla definizione di "inidoneità al trattamento" si è pronunciata in diverse occasioni anche la Corte di Cassazione, la quale ha cercato di chiarire i principi cui il Tribunale di Sorveglianza deve attenersi in caso di revoca della misura alternativa al semilibero non idoneo al trattamento.

La Suprema Corte ha ritenuto legittima la revoca della semilibertà in caso di licenziamento dal posto di lavoro; nello stesso modo infatti in cui la concreta ed effettiva possibilità di svolgimento di un'attività lavorativa costituisce il presupposto indispensabile per l'ammissione al regime di semilibertà, così lo svolgimento di un'attività lavorativa condiziona il permanere della misura alternativa, con l'ovvia conseguenza che "ove non sia più svolta l'attività lavorativa per la quale la semilibertà è stata concessa, la stessa, sempre che non ricorrano ipotesi di forza maggiore, deve essere revocata perché priva di qualsiasi significato al fine del reinserimento del soggetto nella società".

Con questa pronuncia quindi, la Suprema Corte, che in passato aveva costantemente subordinato l'applicabilità della misura alternativa in questione all'esistenza di un posto di lavoro o comunque di un'attività lavorativa armonizzata con lo specifico trattamento rieducativo, viene ad adottare un'interpretazione meno restrittiva, ammettendo la possibilità che la semilibertà non venga revocata in caso di perdita del lavoro per cause di forza maggiore.

Successivamente però la Corte di Cassazione dopo aver nuovamente ribadito che il concreto ed effettivo svolgimento di un'attività lavorativa non solo è presupposto indispensabile per l'ammissione al regime di semilibertà, ma è anche condizione per il permanere della misura alternativa, ha poi aggiunto che il provvedimento di revoca "è perciò doveroso in tutti i casi in cui l'attività lavorativa esterna non può più essere prestata, e quindi anche nel caso di licenziamento senza colpa". Diversamente infatti il semilibero verrebbe a fruire di un beneficio senza causa, cioè senza lo svolgimento di un'attività utile al suo reinserimento sociale.

Per la Corte inoltre non ha rilievo l'esistenza di trattative volte a trovare altra occupazione al detenuto, quest'ultimo infatti non può ottenere né conservare lo status di semilibero se non ha la concreta possibilità di svolgere un'attività lavorativa.

Questo tipo di orientamento giurisprudenziale è stato ritenuto da alcuna dottrina non del tutto convincente in quanto configura un presupposto per la revoca della misura alternativa della semilibertà del quale non vi è traccia nella legge. È altresì vero che ciò avviene solo in via di interpretazione, ma la Suprema Corte, proponendo un rigido automatismo tra il venir meno dell'attività lavorativa e la revoca del regime di semilibertà, pare ignorare, almeno nell'analisi di questi autori, la finalità rieducativa peculiare delle misure alternative.

In realtà una tale impostazione giurisprudenziale non dovrebbe sorprendere dal momento che in più occasioni la Corte di Cassazione ha sostenuto che l'operatività della misura debba ritenersi "subordinata non solo ad un'indagine diretta a stabilire se l'opera rieducativa abbia, sino a quel momento raggiunto risultati positivi, ma anche ad altra diretta ad accertare quale attività il condannato possa svolgere al fine della sua risocializzazione".

Inoltre la Corte ha sottolineato anche la necessarietà della prova dell'esistenza del posto di lavoro, il che comporta, secondo parte della dottrina, che si debba verificare con molta attenzione la veridicità delle offerte di lavoro, controllandone contenuti e provenienza (soprattutto dal momento che si tratta spesso di attività fittizie), e che si debba intervenire nei confronti di coloro che, pur meritevoli, ma privi di agganci con l'esterno, soprattutto se condannati a lunghe pene detentive, risultino in qualche modo penalizzati.

In proposito il già menzionato indirizzo dottrinale non intende affatto disconoscere il ruolo che il lavoro assume al fine del reinserimento sociale dell'individuo, ma ritiene necessario "evitare che l'esigenza della prova del posto di lavoro si traduca in un nuovo presupposto per l'ammissione al regime di semilibertà, cioè l'esistenza del posto stesso". Lascia infatti dubbiosi il fatto che si faccia dipendere l'ammissione alla misura anche da una circostanza del tutto indipendente dalla volontà dell'interessato, interpretandosi, tra l'altro, in modo discutibilmente restrittivo l'art. 48 o.p., che si riferisce alla partecipazione ad "attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale".

Porsi nella prospettiva della rieducazione, come si è inteso fare con l'introduzione della legge 354/75, significa ampliare il potere discrezionale del giudice, dandogli la possibilità di una valutazione più pertinente alla realtà dell'uomo. Non significa però affidargli autonomia di gestione in ordine all'adozione di misure alternative, tantomeno alla loro revoca, la qual cosa potrebbe tradursi in un grave attentato per i diritti del detenuto.

L'elencazione delle cause di revoca della semilibertà deve quindi considerarsi tassativamente stabilita dall'art.51 o.p., anche se l'inidoneità del soggetto al trattamento, come osservato da autorevole dottrina, è "una formula(...)particolarmente elastica, al limite dell'indeterminatezza".

In questa sede però l'elasticità della formula si rivela opportuna: non si comprende infatti perché non possa rompersi l'equazione licenziamento = revoca della semilibertà, dando al giudice la possibilità di valutare se la perdita del posto di lavoro, per le sue cause e modalità, sia effettivamente manifestazione dell'inidoneità del soggetto al trattamento. Il dettato dell'art. 51 o.p. è infatti abbastanza generico da non escludere la ricomprensione della valutazione conseguente all'accertamento suddetto, eliminandosi dunque anche il carattere puramente sanzionatorio che la revoca della semilibertà assume come configurata originariamente dalla giurisprudenza.

D'altra parte una "linea morbida" è seguita in giurisprudenza anche in ordine alla misura dell'affidamento in prova al servizio sociale. Infatti, come abbiamo già avuto modo di vedere, la commissione di un nuovo reato non è considerata indice inequivocabile del fallimento dell'esperienza rieducativa, spettando piuttosto alla Magistratura di Sorveglianza accertare se il comportamento del soggetto, nell'ampio contesto della di lui personalità, si dimostri incompatibile con la prosecuzione della prova.

Anche in materia di semilibertà la Suprema Corte si è orientata secondo il medesimo principio, dichiarando che la semplice e momentanea assenza del condannato dal luogo assegnatogli non è sufficiente di per sé a giustificare la revoca della misura alternativa in questione. A tal fine va accertato dal giudice che "la violazione sia tale, in relazione a tutte le circostanze di essa, al comportamento complessivo del condannato ed alle cause che l'hanno determinata, da poter far ritenere che il condannato non sia idoneo al trattamento e che quindi l'esperimento abbia avuto esito negativo".

L'evoluzione comportamentale dell'individuo deve essere infatti valutata quanto più globalmente possibile, al fine di non ridurre l'adozione e la revoca delle misure alternative ad un automatico aut aut.

Per la revoca della misura alternativa della semilibertà infatti non è sufficiente la mera violazione, oggettivamente considerata, delle prescrizioni del programma di trattamento, essendo necessario accertare anche l'atteggiamento psicologico del soggetto in ordine alla sua commissione, al fine di acclarare se l'avvenuta violazione sia tale da far ritenere - in relazione a tutte le circostanze di essa, alle cause che l'hanno determinata ed al comportamento complessivo del soggetto - che lo stesso sia idoneo o meno al trattamento e quindi la misura alternativa debba essere o no revocata.

Le notizie sui fatti che appalesino l'inidoneità al trattamento possono pervenire al Tribunale di Sorveglianza direttamente o, come prevedibile che avverrà di regola, attraverso la segnalazione del direttore dell'istituto il quale, seguendo il trattamento del soggetto anche nell'ambiente libero, è messo in condizione di avere una continua ed esauriente conoscenza della condotta del condannato o dell'internato (art. 92, comma 4, L. 431/76, regolamento di esecuzione dell'ordinamento penitenziario).

L'inidoneità al trattamento però non è l'unico motivo di revoca del regime di semilibertà sancito dall'art. 51 o.p., il quale prevede infatti che il condannato ammesso al regime di semilibertà, che rimane assente dall'istituto per oltre dodici ore, senza giustificato motivo, sia punibile per evasione ai sensi dell'art. 385 c.p. (art. 51 comma 3); l'assenza per un tempo inferiore è invece punita solo in via disciplinare e può comportare la proposta di revoca della misura sempre che non sussista un giustificato motivo (art. 51 comma 2).

Il ritardo nel rientro giornaliero in istituto quindi comporta differenti conseguenze a seconda della sua durata, inferiore o superiore alle dodici ore.

Nel primo caso, anche se l'assenza è stata volontaria, non si configura il reato di evasione ed i possibili interventi sono, da un lato, la sanzione disciplinare e dall'altro, la proposta di revoca. Ambedue gli interventi sono tuttavia esclusi in presenza di un "giustificato motivo". Se questo non sussiste si verte nell'ipotesi prevista dal n. 18 dell'art. 72 del regolamento. Il valore dell'infrazione può però non essere tale da appalesare inidoneità al trattamento, il che spiega la facoltatività della proposta di revoca della concessione.

Nel secondo caso si configura il reato di evasione. Il reato concernete il ritardato rientro nell'istituto carcerario, previsto dall'art. 51 o.p., si richiama però al delitto di evasione solo ai fini della pena, e non anche circa la connotazione di dolo concernente l'evasione. La stessa Corte di Cassazione, pronunciatasi in proposito ha giudicato sufficiente il ritardo nel rientro in istituto, a nulla rilevando la prova che l'imputato non avesse intenzione di evadere.

Inoltre, con altra pronuncia, ha ritenuto il reato previsto dall'art. 51 o.p. "assimilabile a quelli di carattere permanente non solo per il rinvio quoad poenam al delitto di evasione di cui all'art. 358 c.p., ma anche e soprattutto perché il condannato ammesso al regime di semilibertà è in condizione di ridurre o aumentare volontariamente la durata dell'assenza entro oppure oltre le dodici ore".

Per la Suprema Corte poi l'ipotesi criminosa prevista dall'art. 51 o.p., che condiziona la punibilità del condannato sottoposto al regime di semilibertà, allontanatosi dall'istituto senza giustificato motivo, al perdurare dell'assenza per oltre dodici ore, non può essere utilizzata per interpretare allo stesso modo l'art. 358 c.p. con riferimento alla categoria degli imputati arrestati per i quali lo stato di custodia cautelare è stato sostituito con l'arresto nella propria abitazione o in luogo pubblico di cura. Nel senso che l'art. 51 o.p. configura un'autonoma figura di reato equiparato al delitto di evasione soltanto quoad poenam.

Poiché, in assenza di esplicita previsione, sarebbe potuto sorgere qualche dubbio riguardo all'evasione, specialmente in ordine alla determinazione del momento consumativo del reato, il legislatore ha opportunamente dettato la previsione del comma 3. In esso non si fa questione di "giustificato motivo", poiché sarebbe stato inopportuno attribuire ai pubblici ufficiali, obbligati alla denuncia ai sensi dell'art. 2 c.p.p., una valutazione di merito che è di esclusiva competenza dell'autorità giudiziaria.

Considerando però che l'esistenza di un giustificato motivo sotto forma di causa di giustificazione potrebbe emergere in sede di cognizione giudiziale, la legge ha ritenuto di posticipare il provvedimento di revoca all'esito dell'accertamento giudiziale prevedendo in via cautelare la sospensione obbligatoria del beneficio. Il comma 4 dell'art. 51 o.p. stabilisce infatti che la denuncia per il delitto di evasione importa la sospensione del beneficio e la condanna ne importa la revoca. È questa l'unica ipotesi di revoca obbligatoria della misura che, viceversa, anche in caso di commissione di reati più gravi, è soltanto facoltativamente revocata.

Pertanto, salva l'ipotesi specifica del delitto di evasione, in tutte le altre circostanze di commissione di un reato, il giudice deve sempre motivare adeguatamente l'esercizio del potere discrezionale di revoca, indicando le ragioni della inidoneità del soggetto al trattamento cui è stato sottoposto.

Semplice valore ripetitivo ha inoltre il richiamo all'ultimo capoverso dell'art. 358 c.p. - come pure è avvenuto nel comma 8 dell'art. 47 ter o.p.- il quale prevede una diminuzione di pena in caso di costituzione dell'evaso prima della condanna, che sarebbe stato applicabile anche senza espressa menzione.

All'ultimo comma dell'art. 51 o.p. il legislatore ha stabilito che "all'internato ammesso al regime di semilibertà che rimane assente dall'istituto senza giustificato motivo, per oltre tre ore, si applicano le disposizioni dell'ultimo comma dell'art. 53 o.p. ("l'internato che rientra in istituto dopo tre ore dallo scadere della licenza senza giustificato motivo, è punito in via disciplinare e, se in regime di semilibertà, può subire la revoca della concessione").

Mentre si giustifica il regime diversificato previsto per il ritardo dell'internato, il quale secondo il codice penale non risponde di evasione (art. 214 c.p.), non si comprende la peculiare sanatoria per le prime tre ore di assenza. Poiché è inammissibile che un internato, anche reiteratamente, in violazione delle prescrizioni rientri in istituto con un ritardo fino a tre ore, deve pensarsi che in questa ipotesi, non potendo trovare applicazione la previsione del n. 18 dell'art. 72 del regolamento, il ritardo, valutato il collegamento con altri tratti comportamentali, possa assumere il significato di indice di inidoneità al trattamento in semilibertà, tale da provocare il provvedimento di revoca.

Con riferimento al regime di semilibertà, il quale costituisce una variazione modale dell'esecuzione detentiva, non si pone nemmeno il problema del computo del periodo passato in semilibertà prima della revoca ai fini del calcolo della durata complessiva della sanzione. Il tempo trascorso in semilibertà infatti è sempre considerato come pena detentiva scontata.

La revoca del provvedimento di semilibertà non esclude comunque una nuova concessione del beneficio. Anche la stessa Corte di Cassazione ha ritenuto possibile la concessione di una nuova semilibertà dopo la revoca, se la revoca è avvenuta in base a fatti contingenti, attribuendo quindi ai fatti stessi un carattere del tutto episodico, non idoneo a svolgere un'influenza negativa sul processo di reinserimento.

Il fatto che la revoca non sia ostativa ad una successiva concessione della misura trova conferma anche nel dato normativo: l'art. 58 quater, comma 2, pone infatti il divieto espresso (peraltro temporaneo: tre anni) di concessone di questa misura (e delle altre, compresi i permessi premio ed il lavoro all'esterno), in caso di precedente revoca, nei soli confronti dei condannati per uno dei delitti di cui all'art. 4 bis o.p., dimostrando così implicitamente, ma sicuramente, la possibilità - in via ordinaria - di riconcessione della misura, nonostante un antecedente provvedimento di revoca.

Infine, come già visto in tema di affidamento in prova al servizio sociale e per la detenzione domiciliare, anche al regime di semilibertà è applicabile la disciplina dell'art. 51 ter introdotto dalla legge 663/86.

Per ovviare agli inconvenienti legati al pericolo di fuga derivanti dalla precedente mancata previsione di provvedimenti cautelari, nel caso di comportamenti in aperto contrasto con le prescrizioni impartite o con il programma di trattamento, l'art. 51 ter o.p. dispone in via generale che, se l'affidato in prova al servizio sociale o l'ammesso al regime di semilibertà o di detenzione domiciliare pone in essere condotte tali da determinare la revoca della misura, il Magistrato di Sorveglianza, nella cui giurisdizione essa è in corso, ne dispone con decreto motivato la provvisoria sospensione, ordinando l'accompagnamento del trasgressore in istituto.

Trasmette quindi immediatamente gli atti al Tribunale di Sorveglianza per le decisioni di competenza che, se non intervengono entro trenta giorni dalla ricezione degli atti, rendono inefficace il provvedimento cautelare.

Altrettanto utile, ma nel senso inverso, cioè di consentire la continuazione dello svolgimento di una delle misure alternative di cui agli artt. 47, 47 ter e 50 o.p., anche nel caso che sopravvenga in corso di esecuzione una nuova pena detentiva da espiare, è l'art. 51 bis (frutto anch'esso della L.663/86).

Prima della legge Gozzini infatti succedeva che il sopravvenire di un nuovo titolo di privazione della libertà (anche per un periodo molto breve) determinasse l'interruzione dell'esecuzione della misura, con possibile grave nocumento dei programmi di trattamento in corso (anche con e per la perdita del posto di lavoro).

L'art. 51 bis prevede invece che, quando durante l'attuazione dell'affidamento in prova, della detenzione domiciliare o della semilibertà sopravviene un titolo di esecuzione di altra pena detentiva, il direttore dell'istituto o del centro di servizio sociale informi immediatamente il Magistrato di Sorveglianza il quale, se rileva, tenuto conto del cumulo delle pene, che non siano superati i limiti per la concessione dei vari benefici, dispone con decreto la prosecuzione provvisoria della misura in corso e, in caso contrario, ne dispone invece la sospensione.

Gli atti vengono quindi trasmessi al Tribunale di Sorveglianza che, nel termine di venti giorni, deve decidere la prosecuzione o la cessazione della misura.

 

La liberazione condizionale

 

La liberazione condizionale, pur non essendo "topograficamente" collocata all'interno dell'ordinamento penitenziario, tuttavia, in quanto strumento atto a determinare la prosecuzione della pena in regime di libertà vigilata, in netta contrapposizione con la condizione detentiva, si affianca nella sostanza alle altre misure alternative alla detenzione.

Parte della dottrina ha ritenuto che con la liberazione condizionale permanga il rapporto di esecuzione. Durante il periodo di libertà vigilata infatti, la condizione del liberato è quella propria di un condannato sottoposto alla espiazione in forma alternativa della pena inflitta. Questa tesi si desume dal fatto che il liberato, seppur fuori dell'istituto penitenziario, rimane vincolato nella libertà personale e sotto il potere di controllo degli organi dello Stato.

Da questa impostazione discende che, ove il condannato, durante la liberazione condizionale, ponga in essere un reato, questo sarà qualificato dalla recidiva ai sensi dell'art. 99, comma 2, n.3 c.p. (reato commesso durante l'esecuzione della pena).

Discende ancora che la pena si considera scontata al termine originario (coincidente con il termine finale della libertà vigilata) e non a quello della scarcerazione.

In senso contrario invece si delinea la tesi secondo cui, nel periodo di liberazione condizionale, si determina una sorta di "quiescenza", e quindi di cessazione degli effetti, del rapporto di esecuzione penale.

Nello stesso senso peraltro è la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, la quale ritiene la liberazione condizionale configurabile non come fase dell'esecuzione della pena, ma come causa di sospensione della sentenza. Seguendo tale tesi la Corte ha affermato che la commissione di un reato precedentemente al beneficio da parte del liberato condizionalmente, non comporta la revoca della liberazione già concessa ex art.54 o.p. poiché tale revoca è espressamente prevista per il caso in cui il nuovo reato sia commesso durante la sospensione dell'esecuzione della pena.

Prescindendo dalla valutazione di costruzioni meramente teoriche, si deve constatare che il liberato condizionalmente versa, in concreto, nella condizione di un condannato assoggettato all'espiazione della pena in forma alternativa. Tanto discende dal fatto che il soggetto è tenuto all'osservanza di prescrizioni di varia natura e portata, conseguenti alla libertà vigilata cui deve essere sottoposto e subisce, peraltro, una costante limitazione della libertà personale correlata anche al potere di controllo attribuito agli organi dello Stato.

Il parallelismo tra la liberazione condizionale e le misure alternative si desume inoltre dalla attribuzione della competenza alla concessione ed alla revoca del beneficio, come operata dalla legge 663/86, al Tribunale di Sorveglianza, con conseguente assunzione a primario rilievo degli elementi relativi alla osservazione ed al trattamento penitenziario.

Il procedimento infatti è quello di sorveglianza; la proposta è effettuata dal Magistrato di Sorveglianza, anche a seguito di segnalazione degli organi di Polizia Giudiziaria o del Pubblico Ministero. La sussistenza della trasgressione deve essere dimostrata dall'organo procedente ed il soggetto ammesso alla liberazione condizionale ha il diritto di dimostrare, attraverso valide giustificazioni, o l'inesistenza della violazione di obblighi nel comportamento oggetto di censura o la insussistenza del comportamento addebitato.

Non si ha, pertanto, una revoca automatica. Quest'ultima poi, ove venga disposta, fa cessare lo stato di libertà ed impedisce così l'estinzione della pena nonché una seconda concessione del beneficio per la stessa pena.

L'art. 177 c.p. infatti per la revoca della liberazione condizionale pone due condizioni essenziali, caratterizzate dall'alternatività: a) che il liberato commetta un delitto o una contravvenzione della stessa indole rispetto al reato per cui riportò la condanna, purché accertato con sentenza irrevocabile (la revoca può essere adottata solo dopo la irrevocabilità della sentenza di condanna in base al principio posto dall'art, 27, comma 2, della Costituzione che stabilisce che l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva); b) che il liberato trasgredisca gli obblighi della libertà vigilata disposta a norma dell'art. 230, n. 2, c.p.

Mentre però per quel che concerne l'operatività della prima condizione risolutiva si ritiene sufficiente la sussistenza di una sentenza passata in giudicato che abbia accertato definitivamente il reato posto in essere dal liberato nel periodo di prova, per la seconda, ai fini della revoca, non si considera alla stessa stregua una mera informativa degli organi addetti alla sorveglianza circa le trasgressioni delle prescrizioni contenute nell'ordinanza precettiva.

La dottrina infatti, nell'esaminare la prima delle ipotesi di revoca previste dall'art. 177 c.p. ha preliminarmente osservato che l'identità dell'indole si riferisce sia ai delitti che alle contravvenzioni, sulla base del rilievo letterale della mancanza di virgola dopo la parola "delitto". A conclusioni opposte è pervenuta invece altra dottrina nonché la giurisprudenza della Cassazione, che hanno sostenuto che il requisito dell'identità dell'indole sia richiesto solo per le contravvenzioni, mentre in caso di delitto il beneficio debba essere senz'altro revocato.

La Corte di Cassazione ha fatto riferimento allo stesso argomento letterale e più convincentemente, ha richiamato la ratio della disposizione in esame, secondo la quale, essendo le contravvenzioni reati di minore gravità, "si è inteso ad esse attribuire rilevanza [...] solo quando ledono un bene giuridico omogeneo a quello leso con il reato precedentemente commesso".

La formulazione di questa ipotesi di revoca peraltro è stata criticata dalla dottrina, che l'ha ritenuta da un lato eccessivamente ampia, in quanto la revoca è imposta anche nelle ipotesi di commissione di delitto colposo o di contravvenzione, indipendentemente dalla gravità di queste ultime, e dall'altro ingiustificatamente restrittiva, data la previsione del requisito della "medesimezza dell'indole", non essendovi dubbio che l'inesistenza del ravvedimento del condannato possa essere provata anche dalla commissione di reati di diversa indole.

Anche la giurisprudenza al riguardo ha specificato come sia necessario, per potere procedere alla revoca, che la commissione del delitto o della contravvenzione venga accertata con sentenza irrevocabile e che tale condizione, oltre ad essere necessaria, sia anche sufficiente, essendo il giudice privo di ogni potere di valutazione circa l'idoneità del reato commesso ad annullare il giudizio di sicuro ravvedimento in precedenza formulato.

Per quanto riguarda la seconda ipotesi di revoca contemplata dall'art. 177 c.p. anch'essa è stata oggetto di critiche serrate, alle quali si sono unite interessanti posizioni giurisprudenziali, Invero, considerato che gli obblighi imposti al liberato condizionalmente possono essere vari e di diversa consistenza, è apparso eccessivo prevedere la revoca del beneficio anche per la violazione di uno solo di essi. Si è dunque evidenziata l'eccessiva e cieca automaticità della disposizione, auspicando nel contempo che il Magistrato di Sorveglianza, prima di pervenire al giudizio di revoca, valuti la sussistenza e l'entità della trasgressione.

Autorevole dottrina, pur segnalando una trasformazione della liberazione condizionale "da misura clemenziale a misura alternativa", ha sostenuto che la stessa è improntata ad un sistema di "regressività rigida" e, rifiutando le opposte soluzioni della totale deducibilità o indeducibilità, ha suggerito in caso di revoca il criterio della deducibilità parziale "proporzionale al periodo di astensione dal reato", auspicando un sistema che tenga conto della punitività dell'esito almeno non parzialmente positivo della prova e della meritevolezza insita nella non ricaduta nel reato per un certo periodo e proporzionale alla durata della non ricaduta.

All'interno della giurisprudenza comunque si sono formati due orientamenti diversi. Punto di partenza di entrambi è che la violazione degli obblighi inerenti alla libertà vigilata non comporti la sussistenza del reato di cui all'art. 650 c.p. (inosservanza dei provvedimenti dell'Autorità), ma l'applicazione dell'art. 231 c.p. (trasgressione degli obblighi imposti), e che tale ultima norma non venga in considerazione nel caso di libertà vigilata conseguente alla liberazione condizionale, essendo qui la sanzione costituita proprio dalla revoca. Posta tale pacifica premessa, la giurisprudenza ha affrontato la questione se sia sufficiente accertare la violazione di uno soltanto degli obblighi imposti con la libertà vigilata o se occorra un'indagine particolare.

Parte della giurisprudenza ha negato che il giudice abbia un qualsiasi potere discrezionale nel disporre la revoca, in quanto il legislatore avrebbe operato una predeterminazione delle condizioni risolutive della liberazione condizionale e della pericolosità del liberato condizionalmente, valutata come insita nelle trasgressioni agli obblighi inerenti alla libertà vigilata.

Pertanto nessuna valutazione sarebbe consentita al giudice in relazione alla reiterazione delle trasgressioni o alla maggiore o minore gravità di esse. Al giudice infatti, secondo tale impostazione, spetta di compiere "una mera operazione ricognitiva", la quale consiste nel "verificare l'esistenza di detta condizione e conseguentemente revocare, con provvedimento di natura dichiarativa, il beneficio in precedenza concesso".

Un orientamento più consistente invece, non potendo negare prima della sentenza 282/89 della Corte Costituzionale l'impossibilità di computare il tempo trascorso in liberazione condizionale ai fini della pena detentiva ancora da espiare, ha negato l'automaticità della revoca nell'ipotesi di trasgressioni agli obblighi inerenti alla libertà vigilata.

Tale orientamento, tenendo in debita considerazione la varietà e la diversa consistenza delle prescrizioni che compongono la libertà vigilata, giunge alla conclusione che non ogni trasgressione ai suddetti obblighi comporta la revoca. Infatti, scontata la non sufficienza della mera segnalazione degli organi di polizia incaricati della sorveglianza, la trasgressione va individuata "attraverso l'accertamento, in primo luogo, della volontarietà del fatto, dovendosi escludere le infrazioni incolpevoli e, poi, valutando se la valutazione di quegli obblighi sia di tale gravità da investire tutto il regime di vita al quale il liberato è stato sottoposto, al fine di costituire un sicuro elemento per ritenere, con giudizio penetrante e completo, da tradurre in adeguata motivazione, la insussistenza del ravvedimento e, quindi, la immeritevolezza dell'anticipato reinserimento nella vita sociale".

In tal modo si viene ad istituire un perfetto parallelismo tra il giudizio necessario ai fini della liberazione condizionale e quello sul quale si fonda l'eventuale revoca: nel primo caso viene ritenuto sussistente il sicuro ravvedimento, nella seconda ipotesi è proprio la mancanza di tale condizione che deve essere verificata nella situazione concreta, avendo come principale elemento di valutazione la trasgressione commessa. Al tempo stesso, ancorando la revoca alla mancanza di sicuro ravvedimento del condannato, si evita il ricorso a parametri diversi che, oltre a non avere alcun riconoscimento normativo, introdurrebbero un ambito di "facoltatività" il quale, come per la concessione, non può avere spazio nell'istituto della liberazione condizionale.

È interessante rilevare che quest'ultimo orientamento giurisprudenziale non viene preso in esame dalla Corte Costituzionale nella sentenza 282/89. Anzi, la Corte dichiara che "la legge, con l'art. 177 c.p., presumendo che il delitto o la contravvenzione della stessa indole dimostrino l'erroneità (od il superamento) del giudizio di sicuro ravvedimento di cui all'art. 176 c.p., dispone che la liberazione venga revocata, per essere venuto meno della medesima il principale presupposto".

Considerando che nella stessa pronuncia la Corte ha individuato il fondamento della revoca nel "presunto" errore del giudizio di sicuro ravvedimento, non è immediatamente chiaro se la Corte intenda giustificare, sulla base di una scelta legislativa discrezionale e ragionevole, la disciplina delle cause di revoca.

Per individuare l'esatto pensiero della Corte è importante rilevare che la stessa, in sintonia con la giurisprudenza sopra ricordata, individua uno stretto collegamento tra insussistenza del sicuro ravvedimento e revoca della liberazione condizionale. Inoltre, considerandosi l'ispirazione di fondo della sentenza in questione, finalizzata a ridurre gli spazi di automaticità che privano di rilievo le istanze rieducative, è possibile ritenere che la "presunzione" alla quale la Corte fa riferimento possa essere smentita da positive considerazioni circa la persistenza, malgrado la trasgressione, del sicuro ravvedimento del condannato.

In tale prospettiva, la particolare indagine che la giurisprudenza richiede prima di procedere alla revoca della liberazione condizionale rappresenta un completamento dell'attuale pronuncia riguardando una fase prodromica ovvero quella nella quale occorre valutare se una trasgressione "rilevante" ai fini della revoca della liberazione condizionale vi sia stata.

È auspicabile che tale atteggiamento interpretativo si imponga, in attazione dell'art. 27, comma 3 della Costituzione, anche per quanto concerne la commissione di delitti e di contravvenzioni della stessa indole, giungendosi ad affermare la necessità, anche in questo caso, di una valutazione del giudice per accertare la permanenza od il venir meno del sicuro ravvedimento

L'importanza della decisione n. 282/89 della Corte Costituzionale, inoltre, è stata sottolineata dalla dottrina, la quale ha visto in essa un accostamento della disciplina della liberazione condizionale a quella dell'affidamento in prova al servizio sociale. Ciò per la personalizzazione degli effetti della revoca attraverso un "meccanismo flessibile" meglio rispondente alle esigenze rieducative e risocializzatrici proprie delle misure alternative alla detenzione.

Più nello specifico, le due ordinanze di remissione (ma altre ordinanze, riguardanti la stessa norma ed impostate negli stessi termini, sono poi pervenute alla Corte la quale, conformemente alla sua giurisprudenza, si è pronunciata nel senso della manifesta inammissibilità delle questioni propostele, in quanto già decise con la sentenza 282/89) richiamavano in modo esplicito e circostanziato la pronuncia n. 343/87 della Corte Costituzionale.

Con questa sentenza, come abbiamo già avuto modo di vedere, la Corte ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 47, comma 10, o.p. nella parte in cui non prevede che il Tribunale di Sorveglianza possa determinare la residua pena nell'ipotesi di revoca dell'affidamento in prova per comportamento incompatibile, tenendo conto della durata delle limitazioni patite dal condannato e del comportamento dello stesso durante il periodo trascorso in affidamento.

I giudici remittenti ritenevano infatti, anche in relazione all sent. 343/87 della Corte Costituzionale, che il primo comma dell'art. 177 c.p. contrastasse con gli artt. 3, 13 e 27 della Costituzione. Infatti, premesso che la liberazione condizionale comporta prescrizioni non lievi inerenti all'esercizio di diritti costituzionalmente garantiti, i giudici a quibus sottolineavano la sussistenza di più di una disparità di trattamento.

In primo luogo si faceva notare una divergenza tra la liberazione condizionale e l'affidamento in prova al servizio sociale, due istituti nei quali, l'ipotesi della revoca è diversamente regolata, sebbene abbiano entrambi natura di "modalità di esecuzione della pena". Altra disparità è stata riscontrata tra i condannati ai quali la liberazione condizionale sia stata ugualmente revocata, considerando che in tale ultima ipotesi la norma impugnata impone un trattamento uguale e non consente alcuna disciplina differenziata relativamente alle condotte diverse.

Per quanto concerne l'art. 13 Cost., il condannato verrebbe a subire restrizioni della libertà personale, quali sono quelle inerenti alla libertà vigilata conseguente alla liberazione condizionale, non assistite dalle cautele imposte dalla predetta norma costituzionale, in quanto il mancato computo del periodo trascorso in liberazione condizionale si tradurrebbe in una sanzione per inosservanza degli obblighi connessi alla misura, sanzione non giustificata da alcun provvedimento dell'autorità giudiziaria.

L'art. 27, comma 1 e 3, Cost., infine, sarebbe violato dalla impossibilità di graduare la reazione al comportamento del condannato, essendo la revoca della liberazione condizionale conseguenza unica ed automatica di una pluralità di condotte che possono presentare un diverso disvalore.

Con la sentenza 282/89, la Corte Costituzionale ha ritenuto sussistente la violazione degli artt. 13 comma 2 e 27 comma 1 Cost., con la conseguente illegittimità costituzionale dell'art. 177, comma 1, c.p. "nella parte in cui, nel caso di revoca della liberazione condizionale, non consente al Tribunale di Sorveglianza di determinare la pena detentiva ancora da espiare, tenendo conto del tempo trascorso in libertà condizionale nonché delle restrizioni di libertà subite dal condannato e del suo comportamento durante tale periodo".

Il Tribunale di Sorveglianza, quindi, nell'ipotesi di revoca, dovrà determinare, caso per caso, la durata della "residua" pena da scontare detraendo dalla pena inflitta in sede di cognizione di carico afflittivo globale della libertà vigilata e tenendo altresì presente ogni altro elemento anche al di fuori del contenuto delle relative prescrizioni. Più precisamente dovrà tenere conto dell'aiuto prestato dal servizio sociale e della personalità del reo desunta dal suo comportamento complessivo durante la libertà condizionale nonché dell'evoluzione, sotto il profilo rieducativo, di detta personalità dall'inizio della detenzione alla revoca della liberazione condizionale.

D'altro canto, ove decorra tutto il tempo della pena inflitta, ovvero cinque anni dalla data della liberazione condizionale (se si tratta di condannato all'ergastolo), in assenza di cause di revoca la "revoca" si considera superata (e la risocializzazione verificata) con conseguente automatica estinzione della pena e delle misure di sicurezza (cioè senza necessità di una valutazione positiva nel merito).

Alla luce della legge 354/75, come modificata dalla legge 663/86, non può più dubitarsi circa la correttezza di quell'orientamento giurisprudenziale che riconosce al Tribunale di Sorveglianza la competenza esclusiva per la declaratoria di estinzione prevista dall'art. 177, comma 2, c.p. (art. 236 delle norme di coordinamento).

Un ultimo profilo concerne la possibilità da parte del Tribunale di Sorveglianza di non revocare, pur ricorrendone i presupposti di legge, la liberazione condizionale.

La Corte Costituzionale con la sentenza 282/89 non ha dichiarato, come abbiamo visto, anche l'incostituzionalità dell'automaticità della revoca. Si deve tuttavia osservare come risulti però estremamente singolare che un "nuovo giudizio" sulla personalità e sulla rieducazione del liberato debba portare necessariamente ed inevitabilmente ad una conclusione negativa ed influire soltanto sul quantum del "residuo" da scontare.

D'altro canto, peraltro non si può non sottolineare come il legislatore stesso nei casi particolari di criminalità organizzata, abbia previsto espressamente la revoca obbligatoria della misura alternativa o del permesso premio da parte del Tribunale di Sorveglianza, ai sensi ed alle condizioni di cui all'art. 15, comma 2, D.L. 8 Giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni nella legge 7 Agosto 1992, n. 356.

Il problema riguarda il risultato del nuovo giudizio e cioè se la pena residua così determinata sia una pena nuova oppure una reviviscenza di quella originaria.

Indubbiamente, nel suo sforzo garantista contro una disparità di trattamento, in punto di afflittività, dei liberati condizionalmente in caso di revoca i quali, nel vecchio sistema, venivano a subire, oltre all'intera pena detentiva, anche l'ulteriore carico afflittivo del periodo di libertà condizionata della misura di sicurezza, la Corte ha introdotto elementi di logica sostitutiva, quantomeno per certa parte del contenuto dell'istituto in esame. In questo modo la revoca sembrerebbe perdere il suo carattere sanzionatorio per trasformarsi in una misura trattamentale complessa potenzialmente contrastante con una logica sospensiva.

Comunque, il rispetto "dell'equilibrio proporzionalistico tra reato e pena determinato in astratto dalla legge ed in concreto dal giudicato", pur causando, nella decisione della Corte giuste modificazioni alla pena originaria non giunge fino a configurare nella specie l'elemento della "novità", rimanendo pur sempre quest'ultima pena unico punto di riferimento e base del nuovo calcolo; tanto è vero che "in sede esecutiva non sarebbero in alcun caso consentiti aumenti di misure afflittive". In realtà, si è solo voluto attrarre "nella logica rieducativa della pena ex art. 27, comma 3, Cost. sia la revoca di cui all'art. 177 c.p. che l'integrale istituto della liberazione condizionale" prima trascinato proprio dal meccanismo dichiarato costituzionalmente illegittimo "in una logica esclusivamente afflittiva".

 

La discrezionalità della magistratura di sorveglianza

 

Si pone a questo punto l'esigenza di studiare i processi di costruzione della discrezionalità della Magistratura di Sorveglianza con specifico riferimento alla revoca delle misure alternative alla detenzione. In altre parole appare necessario indagare i parametri obiettivi - e quindi costanti e qualificabili - che, sia pure in modo latente, di fatto guidano il sentencing in ordine alla revoca delle misure alternative.

Determinante a tale proposito è la discrezionalità che la legislazione e la prassi giurisprudenziale consentono ai Tribunali di Sorveglianza; discrezionalità che gioca un ruolo fondamentale anche nelle decisioni in materia di revoca delle misure alternative.

Infatti nel nostro ordinamento, accanto ad ipotesi in cui la discrezionalità è sottoposta dalla legge a chiari criteri guida, esistono casi nei quali è estremamente problematico ricostruire tali criteri in via d'interpretazione; in qualche caso poi la giurisprudenza sembra impegnata non già a valorizzare, bensì a vanificare le direttive dettate dalla legge.

Questo nonostante la disciplina delle misure alternative alla detenzione, contenuta nella legge 354/75, esprima una certa sensibilità del legislatore all'esigenza di vincolare la discrezionalità del giudice. Sono infatti espressamente individuati, oltre ai limiti esterni, anche i criteri finalistici per l'affidamento in prova del condannato al servizio sociale, per la detenzione domiciliare e per la semilibertà. Inoltre la legge non si limita ad un generico riferimento a finalità di prevenzione speciale, ma precisa ulteriormente le proprie scelte, in sintonia con i caratteri peculiari di ciascun istituto.

Ad ogni modo, sebbene risulti innegabile il tentativo di vincolare la discrezionalità della Magistratura di Sorveglianza operato dal legislatore del 75 prima e dell'86 poi, tuttavia si riscontrano notevoli difficoltà nell'individuazione dei criteri guida con cui i giudici di sorveglianza gestiscono gli ampi spazi di libera valutazione loro concessi. Tutto ciò anche perché, con la riforma penitenziaria e la maggiore valorizzazione della prospettiva rieducativa, si sono aperti orizzonti sempre più vasti di discrezionalità, finalizzati ad una migliore individualizzazione e personalizzazione del trattamento penitenziario.

Analoghe considerazioni poi possono essere fatte anche in relazione alla disciplina della liberazione condizionale, la quale, pur non disciplinata dall'ordinamento penitenziario, in tema di discrezionalità della Magistratura di Sorveglianza e di revoca, presenta le stesse problematiche delle altre misure alternative.

Più nello specifico è possibile individuare per ciascuna misura alternativa sia i "vincoli" posti dal legislatore sia gli ampi margini di discrezionalità all'interno dei quali si può muovere il Magistrato di Sorveglianza.

Per quanto riguarda l'affidamento in prova al servizio sociale, l'art. 47 o.p. prevede che si proceda alla revoca della misura alternativa in questione "qualora il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la prosecuzione della prova". In questo caso può ritenersi oggettivamente individuabile la contrarietà alla legge o alle prescrizioni, ma altrettanto non può dirsi per l'incompatibilità con la prosecuzione della prova che è poi l'elemento determinante la revoca. Il Magistrato di Sorveglianza dunque può liberamente determinare il suo concetto di incompatibilità fondandosi su qualsiasi elemento probatorio purché fornisca quella adeguata motivazione che rappresenta l'unico strumento di controllo del suo operato.

La discrezionalità del Magistrato però non si esaurisce in seguito alla pronuncia di revoca, sarà suo compito infatti stabilire, caso per caso, il periodo di pena ancora da scontare, tenendo conto dei parametri indicati dalla Corte di Cassazione con la sentenza 343/87 (carattere, natura e gravità delle violazioni; comportamento durante l'affidamento).

Inoltre, ai fini dell'estinzione della pena, anche in assenza di revoca, è necessario che il Magistrato di Sorveglianza consideri come positivamente trascorsa la prova, cioè come compiutamente realizzato il processo rieducativo e risocializzativo del reo.

Se già per l'affidamento ordinario la definizione di positività della prova non risulta agevole, quasi impossibile diventa poi per l'affidamento in prova in casi particolari. Il giudice potrà infatti ritenere riuscito il trattamento terapeutico in base ad una sua definizione di "esito positivo della prova", la quale può coincidere con la completa disintossicazione, come con il semplice allontanamento dalla droga/alcool, oppure con un contegno non elusivo delle prescrizioni.

L'ambito di discrezionalità riconosciuto dal legislatore al Magistrato di Sorveglianza per la revoca dell'affidamento in prova è valido anche per la detenzione domiciliare. In questo caso, però tale discrezionalità risulta assai circoscritta, soprattutto in relazione alla incompatibilità tra comportamento dell'ammesso alla detenzione domiciliare e prosecuzione della prova. Le prescrizioni previste dalla misura alternativa in questione infatti si ridurranno all'indicazione degli orari di uscita e di rientro dal luogo di detenzione.

In relazione agli altri motivi di revoca della detenzione domiciliare il Magistrato di Sorveglianza si trova piuttosto vincolato nella valutazione relativa all'avvenuta cessazione dei presupposti di concessione, mentre gode di una discrezionalità amplissima nel caso di allontanamento dal luogo stabilito per la detenzione domiciliare.

L'ambiguità del dettato normativo ha reso necessaria una pronuncia della Corte Costituzionale, la quale ha attribuito al giudice di sorveglianza un poter di verifica nel merito, caso per caso, della sussistenza di un comportamento (quello denunciato) che per le sue caratteristiche oggettive e soggettive rappresenti una "non giustificabile sottrazione all'obbligo di non allontanarsi dalla propria abitazione o dal luogo altrimenti indicato dall'art. 47 ter o.p.".

Riguardo ai motivi di revoca della semilibertà non si parla di incompatibilità del comportamento con la prosecuzione della prova, ma di "inidoneità al trattamento", utilizzando una formula che autorevole dottrina ha definito "particolarmente elastica, al limite dell'indeterminatezza". Si è arrivati infatti perfino ad ancorare la possibilità di revoca all'andamento del processo risocializzativo del semilibero a prescindere da sue manifestazioni comportamentali.

La semilibertà dunque appare essere la misura in relazione alla quale maggiormente si evidenzia la labilità dei vincoli normativamente posti al potere discrezionale della Magistratura di Sorveglianza. A conferma di ciò sta il fatto che per poter procedere alla revoca della semilibertà è necessario "accertare anche l'atteggiamento psicologico del soggetto in ordine alla commissione della violazione, al fine di acclarare se quest'ultima sia tale da far ritenere - in relazione a tutte le circostanze di essa, alle cause che l'hanno determinata ed al comportamento del soggetto - che lo stesso sia inidoneo al trattamento".

Inoltre, come abbiamo già visto più volte, sia per la semilibertà, che per la detenzione domiciliare, che infine per l'affidamento in prova al servizio sociale è riservata al Magistrato una certa discrezionalità sulla determinazione dell'andamento della misura alternativa successivamente al sopravvenire di un nuovo titolo di privazione della libertà.

Ultima osservazione poi va fatta in riferimento alla revoca della liberazione condizionale la quale pone problemi non già per l'individuazione in astratto, bensì per l'applicazione in concreto del criterio rappresentato dal "sicuro ravvedimento del condannato". Si può addirittura avanzare il dubbio che i presupposti della liberazione condizionale siano fissati in modo troppo restrittivo, non identificandosi il ravvedimento con la buona condotta carceraria.

Comunque, se per la revoca della liberazione condizionale si fa riferimento alla mancanza di sicuro ravvedimento del condannato, elemento peraltro indispensabile per la concessione della misura alternativa in questione, si evita il ricorso a parametri diversi da quelli normativamente previsti. La liberazione condizionale infatti non permette, o comunque permette in misura molto minore rispetto alle altre misure alternative, la gestione discrezionale dell'istituto della revoca.

Concludendo dunque, possiamo vedere come, in presenza di una normativa sulla revoca assolutamente estranea a modelli di "discrezionalità vincolata", la Magistratura di Sorveglianza si trovi a ricorrere sempre più spesso, anche se in modo diverso a seconda delle misure alternative in oggetto, a parametri extranormativi (e talvolta extragiuridici) per la disciplina dell'istituto della revoca.

Sarà proprio all'esame (effettuato mediante parametri normativi, extranormativi ed extragiuridici) della discrezionalità della Magistratura di Sorveglianza nella revoca delle misure alternative che verrà dedicato il Capitolo 2 di questo lavoro.

Attraverso l'analisi dei dati riguardanti i provvedimenti di revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale, della detenzione domiciliare, della semilibertà e della liberazione condizionale, disposti dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze negli anni 1995, 1996, 1997, si cercherà di individuare quali siano stati, di fatto, i criteri di indirizzo, i parametri utilizzati e la loro compatibilità con la disciplina e le finalità proprie delle misure alternative, come teorizzate dall'ordinamento penitenziario e dal codice penale.

 

 

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