Vita - 26 settembre 2003

 

In carcere a trovare papà, dopo quattro lunghi anni

 

Genitori in carcere e figli fuori: è drammaticamente difficile decidere se dire a un bambino la verità, se fargli affrontare il disagio di una sala colloqui, la sofferenza di un incontro con pochi gesti di affetto e tanti controlli. A volte sembra più semplice dire una bugia, raccontare di una malattia o di un lavoro all’estero che impediscono di tornare a casa. Patrizia, prima detenuta alla Giudecca, ora in detenzione domiciliare, racconta dell’incontro della sua bambina con il padre in carcere, dopo tre anni di lontananza forzata e di paura di raccontarle tutta la verità.

 

Ornella Favero

 

Quando sono uscita in detenzione domiciliare, prima di tutto ho avuto la gioia di riabbracciare mia figlia, ma poi ben presto ho cominciato a pensare che doveva arrivare anche il momento di far incontrare la bambina con il suo papà, cosa non facile perché lui si trova ancora in carcere e più volte, quando si affrontava l’argomento, lui sosteneva che i colloqui in carcere coi bambini sono una cosa da evitare, perché le regole rigide e il tempo controllato sono i padroni, lì dentro, e non esistono intimità e possibilità di esprimere liberamente le emozioni.

Più volte avevo chiesto a mia figlia se voleva venire con me a incontrare suo padre, spiegandole cosa avremmo trovato arrivando là, ma facendo anche leva sulla sua curiosità e sul suo amore per il papà, la risposta era sempre "no", finché un giorno ha detto finalmente "sì".

Era dal settembre 1999 che non si vedevano, e la mia paura era quella che fra di loro si rompesse anche quel sottile filo che unisce due persone costrette a non vedersi per lungo tempo. Quel giorno la sala colloqui era vuota, c’era solo lui, solo noi, con due ore da riempire e l’emozione che si vedeva, si toccava, il battito del cuore amplificato, a mille.

Erano uno di fronte all’altra, percepivo quello che provavano. L’ultima volta che lui l’aveva vista aveva sei anni, adesso quasi dieci e io avrei voluto che non ci trovassimo in una sala colloqui di un carcere.

Era molto bello rivederli assieme, ma ho anche pensato… non è giusto! Non è giusto che i rapporti affettivi si limitino, per chi sta in carcere, a una o due ore di colloquio, soprattutto se avvengono tra genitori e figli. Il genitore che si trova in carcere perde molte cose, oltre che la libertà, e tra le tante c’è anche la crescita di un figlio. Il rapporto tra genitore detenuto e figlio si può costruire solo in spazi idonei, e se non è possibile a casa, almeno dovrebbe avvenire con dei tempi "umani" e in un luogo dove il bambino si trovi a suo agio.

 

Patrizia, Giudecca

 

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