Vita - 12 dicembre 2003

 

Dodici anni di sanità in carcere, e non sono ancora morto

 

Quella che segue è una testimonianza "esemplare"; nel senso che racconta un percorso attraverso cui passano tanti detenuti che si ammalano in carcere, o anche "di carcere", perché è il carcere che a volte fa davvero ammalare. È un percorso con tante tappe "tipiche": la patologia seria e sottovalutata, il disagio psichico, la "cura" con gli psicofarmaci. L’accusa di essere dei simulatori. Raccontarlo serve a tenere sempre i fari puntati sui temi della salute dei detenuti; che si spera saranno al centro dell’attenzione dei Garanti dei diritti delle persona private della libertà, che molti Comuni; a partire da Roma, hanno istituito o stanno per farlo.

 

Ornella Favero

 

Nei primi tempi della detenzione ebbi qualche serio problema di salute, superato (anche se non risolto del tutto) soprattutto grazie alla consapevolezza delle regole igieniche e alimentari necessarie per sopravvivere alle malattie, al carcere… e ad un sistema sanitario che fa paura. Sottolineo il termine "paura", perché questo è il sentimento più diffuso tra noi detenuti, quando dobbiamo rivolgerci ai medici del carcere: una paura fondata su ciò che vediamo ogni giorno attorno a noi, a volte anche su esperienze vissute in prima persona.

In carcere entro, nel 1991, con una cardiopatia congenita (che da libero trascuravo).

Poi, a seguito di un tentativo di suicidio, mi ricoverano nel reparto psichiatrico di un ospedale "civile" dove rimango per tre mesi, prendendo a forza vagonate di psicofarmaci (se rifiutavo pillole e gocce, arrivavano tre o quattro infermieri, mi immobilizzavano e mi facevano un’iniezione). Questi farmaci mi provocano un’epatite devastante, dimagrisco a vista d’occhio, fino a pesare 50 chili e, naturalmente, i problemi al cuore si aggravano. Dimesso dalla psichiatria torno in carcere: nella terapia prescritta in ospedale ci sono pure due pastiglie di "Roipnol" e tanto "Valium", per tre volte al giorno. Io non voglio queste medicine ma i medici del carcere non si fidano a lasciarmi senza sedativi e mi dicono che, se le rifiuto, non mi danno nient’altro, né per il fegato, né per il cuore.

M’impunto e smetto qualsiasi cura, finché mi mandano al Centro Clinico di Pisa. Sono messo davvero male, anche se non me ne rendo pienamente conto. Vado avanti con due flebo di glucosio al giorno, per due mesi: nelle prime settimane mi bucano da tutte le parti, poi mi mettono un catetere nel braccio, così posso attaccarmi da solo al "distributore" e "fare il pieno". Così dicono gli infermieri, dopo aver preso l’abitudine di passarmi il flacone e il deflussore attraverso lo spioncino, senza nemmeno aprire la porta della cella. Io appendo l’apparecchiatura ad un’anta dell’armadietto… "faccio il pieno" e poi la restituisco.

Al terzo mese mi dimettono e comincio a viaggiare da un carcere all’altro, in ogni posto la prima fatica consiste nel convincere i medici che non sono un simulatore, che ho bisogno di un vitto in bianco e possibilmente di stare in una cella dove non ci sono fumatori (la prima richiesta è più semplice da soddisfare, la seconda un po’ meno…), oltre che delle medicine segnate nella cartella clinica. La percezione, nell’incontrare i dottori, è quasi sempre quella: io sono un seccatore, forse fingo d’essere malato per farmi scarcerare e, in ogni caso, sono poco degno di essere curato da essere umano. In questi ultimi otto anni di carcere una vera visita medica non l’ho mai avuta. Eppure, basterebbe che i detenuti fossero un po’ più ascoltati.

 

Francesco Morelli, Casa di Reclusione di Padova

 

Precedente Home Su Successiva