Vita - 11 ottobre

 

Mario, l’ergastolano scrive ai ragazzi "difficili"

 

 

Non è cosa di tutti i giorni che un ergastolano tenti di instaurare un contatto diretto con ragazzi, italiani, marocchini, albanesi, rumeni, ospiti di un istituto per adolescenti "difficili": Mario, detenuto da moltissimi anni, lo ha fatto, e quella che segue è la prima lettera di questa strana corrispondenza. Succede infatti spesso che, tra i giovanissimi che hanno a che fare con la giustizia, qualcuno sembra non veda l’ora di finire nella galera vera per sentirsi "importante"; e allora Mario ha cercato di spiegare loro come davvero la durissima realtà del carcere.

 

 

Ornella Favero

 

 

Cari amici, mi chiamo Mario e sono detenuto dal 1983, e da allora non sono mai uscito dal carcere, se non per andare al funerale dei miei genitori. Sono entrato che avevo 28 anni e ancora oggi, a 19 anni di distanza, non so quando uscirò, perché il mio come è scritto nel fascicolo, è un "fine pena mai". Sono un ergastolano, detenuto da prima che voi nasceste. Provengo da un paesino del Sud che si trova in provincia di Foggia.

Con tutta la famiglia siamo emigrati a Milano. All’inizio ho incontrato le stesse difficoltà che avrete senz’altro trovato voi. Non c’erano tante possibilità per gli emigrati, negli anni 60. Ma, come qualsiasi altro ragazzo della mia età, mi piaceva il divertimento, tipo andare in giro con il motorino o avere dei vestiti "sani", o magari il pacchetto di sigarette, o pagare da bere alla fidanzata.

Per arrivare a permettermi tutto ciò, non sono stato capace di trovare altra soluzione che commettere il primo furto. Il guaio forse sta nel fatto che mi è andata bene. Convinto di non dover mai pagare per i reati che commettevo, ho continuato. Sembrava tutto così facile.

Man mano che crescevo sono passato a reati più gravi, naturalmente. Per mia sfortuna guadagnavo sempre di più e non mi rendevo conto in quale tunnel mi stavo spingendo. Non c’era via d’uscita, perlomeno io non riuscivo a vederla, anche perché non la cercavo. Mi ero formato la convinzione di essere nel giusto, di essere un duro. Sono entrato e uscito dal Beccaria, il carcere minorile di Milano, tante volte. Era quasi un collegio. Tante volte sono anche scappato. Non era per me il luogo che poteva farmi capire, la vera realtà del carcere, quindi continuavo a rubare e a non pensare a quello che poteva diventare il mio futuro.

L’ho capito solo dopo tanti anni. Quel "fine pena mai" è lì a ricordarti chi sei echi invece avresti potuto essere. Credete a me, tutti i reati che si fanno, prima o poi si pagano, e così è stato per me. Ho guadagnato anche tanti soldi, ma era tutta un’illusione.

Perché quei soldi in realtà non li ho goduti io. Man mano che facevo i processi, i miei avvocati si sono portaci via tutto quello che avevo. Perdere tutti i soldi è il minimo. Perché poi si perdono anche le persone a noi care.

 

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