Vita - 4 gennaio 2002

 

Storia di E., che a tre anni deve essere scarcerata
ma non vuole andarsene dalla galera

 

E. ha appena compiuto tre anni, e quello è stato un gran brutto giorno. Il giorno che ha ricevuto l’annuncio che dovrà "essere dimessa" dal carcere. Dunque c’è qualcuno che può non voler uscire dal carcere, ed essere costretto a farlo: una bambina di tre anni, per esempio, perché per lei il carcere è vivere con Maria, sua madre, e uscire significa essere staccata da lei inesorabilmente. E infatti è appena arrivata una carta del Tribunale, che ha decretato quello che Maria temeva più di tutto: l’affidamento della figlia a un istituto o a una famiglia italiana.

Maria, albanese, e G., italiana, erano detenute insieme nel carcere della Giudecca pochi mesi fa: solo che G. i figli li aveva fuori, affidati alla sorella, e Maria l’unica figlia se l’era portata dentro.

Ma c’è un’altra differenza tra queste due donne, ed è quella che forse peserà di più: Maria è albanese, e tutto allora per lei è e sarà più difficile. Ora G. è fuori, il suo è uno dei pochi casi di applicazione della legge sulle detenute madri, che le ha permesso di vivere a casa, in detenzione domiciliare, per accudire i figli. Per Maria invece è arrivato quello che più temeva: il compleanno più brutto, tre anni, la fine di quello strano periodo in cui un bambino può essere carcerato.

Un mese fa avevamo parlato con lei, e ci aveva detto: "Quando mi portano via la bambina, divento matta". Era terrorizzata da tutto: le volontarie, che venivano a prendere E. per portarla un po’ fuori, le vedeva con sospetto, diceva che la portavano a conoscere famiglie italiane a cui affidarla. Non aveva fiducia neppure nei suoi parenti che stanno in Italia, temeva che non fossero in grado di aiutarla. Il fratello che vive in Australia, invece, le sembrava l’unica soluzione: meglio che la piccola se ne andasse così lontano, ma con un parente, piuttosto che finisse in una famiglia italiana.

Le straniere temono l’affidamento dei figli come la peste: forse non fanno nemmeno tante differenze fra affidamento e adozione, pensano che l’affidamento sia un fatto inesorabile, che poi i figli nessuno glieli restituirà più. E se hanno i bambini con loro in carcere, aspettano come il peggiore degli incubi il giorno che compiono tre anni. Succede che gli ultimi mesi il rapporto tra madre e figlio diventi addirittura morboso: e come non capirlo, con questa separazione incombente, inevitabile e che si consuma ogni giorno un po’?

Ma come è stata, la carcerazione di E.? Una vita sempre e solo con donne: agenti, detenute, suore, l’assenza pressoché completa di figure maschili. Alla sera, quando le agenti chiudevano la porta blindata della cella, c’erano le urla perché a E. non piaceva essere rinchiusa. Se succedeva poi che la madre alzava troppo il volume della televisione, la bambina le diceva: "Abbassa, che se no viene l’agente e ti sgrida". E poi le piaceva imitare i gesti di tutti quegli adulti che aveva intorno: anche lei aveva imparato a fischiare e gridare "Terapia!!!" quando lo faceva la suora, che ogni giorno passa e distribuisce le gocce tranquillanti alle donne che non ne sanno fare a meno perché stanno troppo male.

Poi, è successo quello che doveva succedere: è arrivata una carta, qualcuno deve staccare la bambina dalla madre e decretare la fine della sua carcerazione. E per la madre la condanna a una pena aggiuntiva, una separazione con davanti solo l’ignoto.

 

Le donne detenute alla Giudecca

Precedente Home Su