Vita - 22 febbraio

 

Chicca: quei colloqui disumani con l’uomo che amo

 

Questa è una rubrica di lettere e testimonianze di chi sta in carcere, ma un po’ di spazio vorremmo darlo anche a quei famigliari che il carcere sono costretti a conoscerlo nelle sale colloqui, nelle lunghe attese all’esterno prima di entrare a visitare un parente, nelle ore passate a cucinare per portare ai propri cari quel cibo. Quella che segue è la testimonianza di Chicca, la compagna di un detenuto che questa vita la fa da dieci anni, e di carceri, attraverso le sale colloqui, ne ha conosciuti tanti. E nonostante ora al posto dei vetri divisori ci siano i tavolini, i luoghi di incontro dei detenuti con i loro parenti sono tutti ugualmente tristi, perché ben poco si fa per renderli meno squallidi: il fatto è che nel nostro Paese, anche se tutti amano parlare dell’importanza della famiglia, le famiglie dei detenuti sono considerate ancora famiglie di serie E, e quei pochi gesti di intimità di cui parla Chicca per ora si possono vivere solo nell’immaginazione. Di "stanze dell’affettività", luoghi appartati dove i detenuti possano incontrare i famigliari senza la promiscuità delle sale colloqui, da noi si è parlato per un attimo e poi si è preferito dimenticarsene in fretta, mentre in molti altri Paesi sono da anni una realtà.

Ornella Favero

 

Vedere il mio compagno una volta alla settimana e arrivare a colloquio con le ansie e le paure accumulate nei giorni passati lontani l’uno dall’altra significa poi che tante volte lui non riesce a capirmi e mi tratta male.

Tutta la settimana conto i giorni per correre da lui perché ho bisogno di vederlo. di sentire la sua voce, o tante volte più semplicemente di rifugiarmi nelle sue braccia e abbandonarmi anche al pianto liberatorio di tante tensioni accumulate, di sentirmi protetta, di sapere che lui c’è e che non sono sola! Poi ci troviamo davanti e basta un malinteso per rovinare un colloquio che tanto abbiamo atteso, invece di allontanare le tensioni ci si sente irrimediabilmente più soli. Perché stiamo rovinando attimi che dovevano essere di gioia, di forza e coraggio per affrontare i giorni che ancora ci dividono?

Vorrei alzarmi, abbracciarlo, baciarlo, dirgli quanto è stronzo, vorrei infilargli le mani sotto il maglione per accarezzarlo, fargli il solletico per vederlo ridere, ma rimango lì seduta come un baccalà, c’è la guardia, c’è il bambino al tavolo vicino al nostro, trattengo le lacrime e... ci chiamano è finito, mi alzo, lo saluto senza dirgli niente, esco senza voltarmi, voglio solo scappare lontano da lì. Hanno messo i tavoli, le sedie, ma non è cambiato niente, manca la cosa più importante: l’umanità e l’intimità, anche di poter litigare per poi fare pace. Ci tolgono tutto, anche la gestualità quotidiana per poter sentirci vivi. Com’è difficile non perdersi dietro queste frustrazioni, umiliazioni e quanta rabbia, voglia di urlare.

 

Chicca, compagna di un detenuto

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