Le interviste di "Ristretti"

 

Ristretto con i miei libri… e i miei sogni

Uno studente-detenuto racconta come si è avvicinato all’Università in carcere. E come riesce a studiare e dare esami nonostante le difficoltà burocratiche e gli impedimenti pratici che deve affrontare ogni giorno

 

(Realizzata nel mese di maggio 2004)

 

Intervista a cura di Ilir Ceka

 

Ora anche il carcere di Padova ha il suo polo universitario. Ma ci sono detenuti - da noi come in altri penitenziari d’Italia - che da tempo affrontano da soli il percorso degli studi superiori. Tra mille difficoltà burocratiche e lungaggini che rischiano di scoraggiare anche le volontà più agguerrite. Abbiamo chiesto a Elton, redattore della nostra rivista, di raccontarci i particolari della sua esperienza di studente "ristretto".

 

Elton, come vuoi presentarti a chi non ti conosce?

Ho ventisei anni, di cui sette trascorsi in carcere. Sono nato a Tirana, in Albania, e come molti miei compatrioti della mia generazione, a un certo punto della mia vita ho deciso di venire in Italia. Cercavo una cosa astratta che si chiama benessere: inseguivo un sogno che ora non ricordo più. Poi, purtroppo, il destino aveva in serbo tutt’altra cosa e forse proprio per questo, dopo poco tempo, sono finito in carcere.

 

Come ti sei interessato allo studio, in carcere?

Da sempre lo studio è stato parte della mia vita: ero venuto in Italia subito dopo aver terminato il liceo, quindi il mio status sociale pre-carcerario era quello di studente. Riprendere in mano i libri non è stato difficile - nel primo anno di carcere avrò letto una trentina tra romanzi e libri storici. Molto più difficile è stato riprendere a studiare: come si sa, il carcere spesso offre dei corsi più di intrattenimento che costruttivi. Quando ero detenuto nel carcere di Monza, pur di non rimanere in cella, sono stato "costretto" a frequentare la scuola media delle 150 ore. Poi sono stato trasferito in quello di Voghera dove ho fatto il primo biennio di geometra. Successivamente mi hanno trasferito qui a Padova, dove ho rifatto la scuola media e poi di nuovo il primo biennio dell’Istituto tecnico commerciale. Da un lato sembrava tempo sprecato, ma alla fine anche queste frequentazioni "obbligatorie" hanno portato i loro benefici: ho migliorato il mio italiano scritto e inoltre ho ripassato la lingua inglese e quella francese che avevo già studiato in Albania.

 

E il desiderio di continuare fino all’università, com’è nato?

È stato un vero calvario. Fin dall’inizio della mia carcerazione avevo cercato di iscrivermi all’università, ma ogni mia richiesta riceveva risposte confuse e giustificazioni improvvisate. Ricordo che, quando chiesi all’educatore del carcere di Monza di prendere contatti con qualche università, mi guardò irritato e disse, storcendo il naso: "Cos’è questa barzelletta? Farai bene a studiarti gli atti del processo che ti aspetta, ragazzo". Forse aveva ragione, visto l’esito giudiziario… Erano trascorsi tre anni dal mio arresto quando sono stato trasferito a Padova, e qui ho finalmente trovato una persona che ha preso la mia richiesta sul serio: la signora Vianello, un’assistente volontaria, che ha fatto di tutto per iscrivermi all’Università. è stata una guerra lunghissima, oltre due anni di estenuanti attese, colloqui, domande, riunioni, fino a quando, nel gennaio del 2003, il Senato accademico dell’Università di Padova ha autorizzato la mia iscrizione. È stata una vera vittoria contro la burocrazia ottusa e la diffidenza cinica.

 

A quale facoltà sei iscritto, quanti esami hai sostenuto e con quale profitto?

Frequento la facoltà di Scienze politiche ma la mia è una "non" frequentazione: oltre al fatto che non posso recarmi all’Università per seguire le lezioni e partecipare ad altre attività attinenti allo studio, non posso nemmeno comunicare con i professori, il che complica ulteriormente le cose. Fino a oggi ho sostenuto sei esami con la media del 28, per un totale di 40 crediti. Calcolando il tempo che mi ci è voluto devo ammettere che è un risultato deludente: è già un anno esatto dalla mia iscrizione.

 

Come riesci a studiare e quali vie devi seguire per sostenere gli esami?

Non ci sono metodi e strade che ti portino all’esame, così come non c’è un protocollo o una tabella di lavoro. La realtà è che qui in carcere non importa a nessuno dei miei studi, perciò se non prendo i libri e non mi chiudo in bagno non potrò mai arrivare all’esame. Il mio modo di procedere è stato pionieristico, ho fatto a casaccio: ho preso il primo testo che era di sociologia, l’ho letto e riletto traendo degli appunti. Quando mi sono sentito pronto ho scritto al dipartimento di Sociologia, che ha provveduto a inviare una commissione qui in carcere per interrogarmi. Dopo quasi un mese sono arrivati i professori: mi hanno interrogato e alla fine mi hanno scritto un trenta sul libretto. È stata una grande soddisfazione che mi ha fatto gioire come un adolescente, basta poco per rendere felici noi detenuti... Ho proseguito nella stessa maniera per gli altri quattro esami, e nonostante i tempi lunghi ormai mi sto abituando al fatto che noi detenuti-studenti viaggiamo su una corsia diversa rispetto agli studenti normali.

 

Quali sono le difficoltà maggiori che incontri nello studio?

Se ti racconto la trafila che ho dovuto seguire solo per pagare le tasse, ti faccio passare la voglia di ascoltarmi! Mio padre mi ha spedito i contanti dall’Albania. Poi ho dovuto presentare una domandina motivata affinché venissero consegnati a una volontaria, la quale si è recata all’università… e detto così sembra facile, ma ti assicuro che è tutto estremamente difficoltoso. Frequentare le lezioni, essere in contato con dei professori, degli assistenti, e specialmente la compagnia degli altri studenti, creano un quadro insostituibile. Per forza di cose qui tutto ciò manca, e allora devi arrangiarti da solo, sperimentare continuamente, scoprire quel che è meglio per riuscire a proseguire gli studi.

 

Non pensi che per sopperire a queste mancanze sarebbe importante la figura del tutor, come accade nelle carceri dove ci sono i poli universitari?

In carcere ogni figura esterna è sempre utile, sia in qualità di tutor sia di operatore volontario. Ultimamente ho conosciuto un professore di diritto, si chiama Mario Mavolo, e si è offerto di aiutarmi per gli esami di economia e di diritto pubblico: viene tre-quattro volte al mese e approfondiamo i concetti poco chiari che incontro durante lo studio. Questo suo contributo per me è insostituibile perché vedi, quando stai leggendo da solo in cella e incontri ripetutamente degli intoppi invalicabili, e non hai nessuno a cui chiedere, ti viene la voglia di lanciare i libri fuori dalle sbarre della finestra. L’idea di avere qualcuno, a cui domandare cose anche banali, è una risorsa veramente eccezionale: le cose diventerebbero più facili e le difficoltà un po’ più contenute.

 

Quanto è difficile concentrarsi in carcere e riuscire a studiare? Quali sono, in altri termini, le difficoltà pratiche che incontri qui?

Anche dal punto di vista pratico non è uno scherzo. È molto difficile trovare la concentrazione giusta a causa dei rumori e delle grida che provengono costantemente dal corridoio. Per non parlare dell’umore altalenante a seconda di come vanno le cose fuori: basta una lettera a farti tralasciare lo studio per due giorni. Un altro problema è rappresentato dal condividere lo spazio stretto della cella con persone che escono e che entrano: è frustrante e poco redditizio in termini prettamente scolastici. Ma il problema fondamentale, lo dico con convinzione, è la frequentazione delle lezioni: non capisco perché un detenuto che ha dimostrato la buona volontà di rieducarsi, e che ha scelto uno dei percorsi più difficili, come quello dello studio universitario, per rendere evidente con i fatti questa sua intenzione, non possa recarsi a lezione per due-tre mattine alla settimana. Esiste una norma (l’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario) che permette al direttore del carcere di autorizzare il detenuto a uscire per svolgere attività lavorativa o per frequentare corsi professionali, ma non la si può applicare per recarsi all’università poiché, apparentemente, il legislatore non ha previsto che un detenuto possa avanzare questa "strana" richiesta. Come ci si può laureare senza mettere mai piede in una università?

 

Quali benefici hai ricevuto dallo studio e quali sono i tuoi progetti per il futuro, le tue speranze?

Andiamo per ordine. Di benefici, fin’adesso ne ho avuti soltanto a livello personale, cioè di crescita culturale. Mentre di benefici legati alla mia posizione giuridica fino adesso nemmeno l’ombra.

Invece, per quanto riguarda i miei progetti, semplicemente non esistono, mentre le speranze sono tante che non basterebbero migliaia di megabyte per contenerle. Per esempio, spero che i miei genitori abbiano abbastanza vita per aspettarmi. Spero che tutti i miei cari stiano bene. Spero che il giudice si convinca che non sono pericoloso per la società italiana e mi faccia uscire in misura alternativa un po’ prima di quanto avviene di solito per noi detenuti stranieri. Spero di laurearmi. Spero che la gente fuori capisca che qua dentro si lotta tutti i giorni per sopravvivere e che ciò è un’altra pena aggiuntiva. Spero veramente tante cose, ma con il radicale pessimismo che le mie speranze saranno sempre chiuse, incatenate con me, e insieme seguiremo questo lungo iter che il mio numero di matricola percorrerà.

 

Secondo te, quanta importanza ha lo studio in vista di un reinserimento nella società?

Lo studio ha un’importanza essenziale: è facile immaginare che chi esce dal carcere con un titolo di studio riuscirà a trovare più facilmente un lavoro, forse non commisurato al suo grado di istruzione, ma comunque un’occupazione che gli eviterebbe di dover rubare per sopravvivere. È ovvio che chi passa cinque o sei anni di carcere steso su una branda guardando la televisione 18 ore al giorno troverà difficile guadagnare un posto di lavoro alla sua liberazione. Ma questo è solo uno dei benefici dello studio in carcere: si potrebbe parlare della crescita personale che migliora sicuramente il modo di vivere. Oppure ricordare il fatto che, studiando, si acquisiscono delle capacità di pensare e di agire nel rispetto di quelle leggi prima ignorate, con la possibilità di trovare una nuova dimensione nella società e intraprendere, per esempio, un’attività economica di produzione e dare anche lavoro ad altri. Ci sono dei casi di detenuti che sono usciti dal carcere con un’altra visione del mondo, e hanno lavorato sodo e creato aziende di successo che oggi portano lavoro e ricchezza per quella società che un tempo li voleva segregati. Infine, perché mai l’alta considerazione che le istituzioni danno all’istruzione per tutta la popolazione, non dovrebbe riguardare anche i detenuti? L’istruzione è importante per tutti e dovunque.

 

 

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