I ricomincianti

 

La paura può crescere anche quando ci si avvicina al fine pena

Dopo essere sopravvissuto alla galera, l’ignoto

Chi è stato condannato a pene lunghissime finisce per non sentire più il peso dei ferri, si abitua, si lascia andare alla monotonia dell’attesa e, dimenticando perfino di essere mai stato una persona “normale”, spesso finisce per spaventarsi anche del ritorno ad una vita libera

 

di Elton Kalica

 

Non ho fatto nulla di irreparabile per finire qui. Tuttavia ho sofferto abbastanza per capire che la galera è una violenza che va usata con cautela nella quantità e nei modi, anche verso chi ha commesso i reati più gravi. È vero che molte persone, di fronte a delitti come l’omicidio, sono portate a pensare che la galera non basti mai. Ho trascorso talmente tanti anni qui dentro che non ricordo più se pensavo anch’io la stessa cosa prima di entrarvi, ma la galera mi ha insegnato che dopo un po’ di botte la pelle si ispessisce e, mentre si è raggomitolati e stesi per terra, si è portati ad allontanarsi dal proprio corpo, non si sente più il male, non si sentono né i calci sulla schiena, né gli anni che si passano in cella. Così anche chi è stato condannato a pene lunghissime finisce per non sentire più il peso dei ferri, si abitua e si lascia andare alla monotonia dell’attesa. Ormai alienato dal proprio destino, dimenticando perfino di essere mai stato una persona “normale”, spesso finisce per spaventarsi anche del ritorno ad una vita libera, come sono spaventato io ora che mi avvicino al fine pena.

 

Quando i miei compagni rimpatriati mi scrivono

 

… non ho trovato più nessuno di quelli che conoscevo. Il condominio è popolato da gente nuova, facce sconosciute arrivate da lontano, giovani coppie distratte oppure gruppi di studenti rumorosi...

Molti miei conterranei, dopo aver espiato la pena vengono rimandati in Albania, e immancabilmente, dopo qualche settimana arriva una lettera in cui la notizia del ritorno è subito seguita dalla descrizione di un luogo cambiato, popolato da persone sconosciute, mentre i ricordi conservati gelosamente negli anni di emigrazione tutto d’un tratto svaniscono nelle strade di una città ormai sconosciuta.

 

… sono stato uno stupido a non aver preso sul serio la storia con Mira. Sai che aveva gli occhi dal colore del mare quando la quiete della mattina ti permette di vedere anche i sassolini sul fondale? Ricordo come fosse ora quando le andavo sotto casa. Appena fischiavo il nostro ritornello, i fiori del suo balcone si spostavano per fare spazio al suo sorriso incorniciato da una cascata di capelli neri e lisci. E poi c’era solo il silenzio delle ore trascorse stesi sull’erba del parco e la voracità dei miei baci...

Un mio compagno di cella continuava ad essere così affascinato dalla bellezza della sua ex fidanzata che ha trascorso quattro anni di carcere pensandola, desiderandola. Era talmente convinto che una volta ritornato a casa sarebbe riuscito a riconquistarla e sposarla, che attese l’espulsione orgogliosamente. Invece la lettera che mi scrisse non aveva nulla di fiero dato che aveva scoperto che il suo sogno era diventata una donna sposata, e incinta del secondo figlio.

 

… mio zio è direttore di un ufficio importante al Ministero del turismo. È così importante che ha trovato lavoro a tutti i miei cugini. Uno lavora in una filiale di Durazzo. Un altro cugino fa il caposala in un albergo lussuoso. Una cugina fa l’interprete a Saranda. Insomma si sono sistemati tutti. Invece a me basterebbe anche trovare un posto come autista. Ho la patente anche per gli autobus io. Posso portare i turisti a fare il giro della costa...

Il progetto lavorativo di Artan prevedeva la raccomandazione dello zio, una pratica diffusa anche in Albania, e forse si sarebbe pure realizzato se non fosse che quando tornò a casa scoprì che lo zio era morto d’infarto da tre anni. Un mese dopo il suo rimpatrio, mi scrisse un’unica lettera in cui brevemente mi raccontava di essere solo, disoccupato e ostinato a rientrare in Italia da clandestino.

 

 … è incredibile come il più piccolo sta crescendo a vista d’occhio. Una volta al mese, con l’aiuto di mia moglie, si misura l’altezza e poi al colloquio mi aggiorna su ogni centimetro guadagnato. Questa volta ha detto di essere diventato alto un metro esatto, ma dice che vuole diventare alto come Raul Bova perché piace alle sue compagne di classe. Ma tu sai quanto è alto Raul Bova? mi ha domandato quel giorno Nico mentre, appoggiato al cancello della sua cella, mi raccontava l’ultimo colloquio con la moglie e i tre figli. Aveva fatto ricorso contro l’ordinanza di espulsione per non essere separato dalla propria famiglia, ma dopo un paio di mesi, poche settimane prima del fine pena, lo hanno rimpatriato. La moglie e i figli continuano a vivere a Genova, e lui per un po’ ha continuato a scrivermi raccontandomi come aiuta telefonicamente i propri figli a fare i compiti di matematica, e come rimpiange i tempi della galera, quando per lo meno vedeva la famiglia una volta a settimana.

 

Un ventenne circondato da diciassette anni di vuoto

 

Se non si può chiamare vita una condizione in cui tutto ti è proibito – non si possono vedere i genitori e non si può fare una camminata se ti prende un crampo al polpaccio, non si può mangiare ogni volta che si ha fame, non si può alzare il telefono e chiamare un’amica o chiamare il dentista e prenotare la visita se si ha mal di denti, non si può fare la doccia quando si ha bisogno e tra le altre migliaia di cose che non è permesso fare – mi domando come si può chiamare una esistenza come la mia in cui, oltre alle migliaia di interdizioni, mi sono imposto anche il divieto di fare progetti.

Quando a vent’anni ti trovi condannato a una pena lunga, vedi sollevarsi intorno lentamente un muro ancora più alto di quello che circonda il carcere. Quello che ho visto io sin dall’inizio della carcerazione è stato un muro alto diciassette anni di galera, del colore di una nebulosa intensa e fredda che impediva di vedere come sarebbe stata la mia vita.

Oggi che mancano meno di tre anni alla fine della condanna, continuo ad essere circondato dall’ignoto: non ho mai saputo cosa succede veramente a casa, come stanno di salute le persone che amo o come vanno le loro relazioni, tanto loro si ostinano a tranquillizzarmi dicendo sempre di stare bene. Ma se era difficile progettare la mia vita nei primi anni di carcere, adesso trovo che vivere circondato da questo muro di ignoranza rende ancora più difficile ogni tipo di pianificazione. Spesso mi ritrovo a ripassare mentalmente la giornata in cui ho fatto l’atto per cui sono finito qui dentro, ma un ventenne confuso che faceva cose difficili non può essere compreso da un trentenne che sta imparando a ragionare. Rivedo il processo concluso rapidamente, la difesa inesistente, la pesante condanna e puntualmente finisco per odiare il fato che mi ha intrappolato nello sfortunato vortice dell’odissea italiana. Certo, tutti i giorni sento di stranieri che nei loro viaggi, nei loro luoghi di lavoro o nelle case comperate a fatica incontrano destini più spietati del mio, tragedie che trascinano donne incinte in fondo al mare, sfasciano impalcature sotto i piedi di uomini sudati, incendiano baracche mentre i bambini dormono dentro. Ma allora, l’ottimismo si rivela un sentimento difficile da provare, e l’amore c’entra davvero poco con milioni di disegni e di progetti fatti di sofferenza e di non-vita.

 

In attesa di riscoprire il mondo

 

C’è chi esce di galera e riesce a godere di appaganti opportunità sentimentali e lavorative, così come invece escono tante persone incapaci di trovare gli appigli e la forza per costruirsi un’esistenza decente, mentre qui dentro, chi più chi meno, avevano tutti imparato a sopravvivere adattandosi anche alle condizioni più difficili, oppure rendendosi insensibili alla sofferenza. Forse anch’io ormai sono talmente assuefatto alla galera che ho iniziato ad illudermi di vivere una vita normale, in mezzo a gente che mi stima, e vedo questa fase come una sfortunata parentesi della mia vita piuttosto che il crudele castigo dell’emigrazione. Certo che, così come dopo un incidente stradale si attende l’alzarsi della nebbia per calcolare i danni, anch’io dovrò uscire fuori di qui per liberarmi del muro di nebbia che mi circonda e finalmente realizzare davvero cosa sono stati per me questi anni.

Ovviamente uscirò una persona trasformata rispetto al ventenne che ero quando sono finito in carcere, ma nella stessa misura, anche il mio dimenticato mondo di amici e parenti sarà cambiato. E dovrò imparare a fare lavori che non ho mai fatto sino ad ora, e dovrò relazionarmi con persone di una età di cui conosco poco, e dovrò sopravvivere in una società complessa e sempre più ostile verso uno come me, sempre attento a vincere le mie paure e a contenere il mio orgoglio. E infine scriverò anch’io ai miei compagni di cella per raccontare le mie delusioni o i miei successi, magari seduto insieme a collerici rimpatriati che progettano nuove odissee italiane.

C‘è chi dice che la difficoltà più grande è rappresentata dal momento in cui si attraversa la porta del carcere, ma che poi tutto diventa facile come prima. Io invece credo che sarà drammatico quando mi toglierò di dosso il velo di ignoranza che mi ha avvolto in questi anni e scoprirò tutto quello che è successo, mentre io cercavo di sopravvivere alla galera.

 

 

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