Sprigionare gli affetti

 

Sesso, affetti e intimità sono necessari

per permettere ad una persona di sentirsi ancora tale

L’astinenza sessuale e la mancanza di intimità, quando non sono praticate per scelta,

deformano l’emotività, il rapporto col proprio corpo e con quello degli altri

 

di Stefano Bentivogli

 

Mi è successo di incontrare e di intervistare Ljudmila Al’pern, durante una sua visita in Italia nella quale ha conosciuto diverse persone che a vario titolo si interessano di carcere. Ljudmila fa parte di una Organizzazione non governativa russa – gestisce anche un interessante sito internet, www.prison.org, consultabile in inglese o russo – che si occupa proprio di carcere e della riforma del sistema penitenziario russo. Noi ovviamente ne abbiamo approfittato per capire qualcosa in più sulle loro carceri, e da lei ci siamo fatti raccontare qual è la vita di chi si trova in Russia a scontare una pena. Un quadro piuttosto sconfortante, con circa 700.000 detenuti e celle che “ospitano” anche fino a cento persone.

Non so se sia stato un caso, ma durante l’intervista non avevo fatto alcuna domanda su come viene gestita la questione “affetti e sesso in carcere”. È stato in un momento successivo che le abbiamo chiesto informazioni, e riflettendoci mi sono accorto che, vista la situazione che lei ci aveva descritto, avevo dato per scontato che la questione affetti e sentimenti fosse decisamente superflua e fuori luogo in un contesto quale quello di cui ci aveva parlato. E invece mi dimentico ogni volta che veramente l’Italia fa parte di quei Paesi anomali dove, se per alcune questioni, quantomeno a livello di normativa, siamo all’avanguardia, per tutto quanto riguarda i sentimenti che in qualche modo coinvolgono la sessualità della persona siamo fermi, immobili in un atteggiamento ormai difficilmente spiegabile.

Ljudmila mi raccontava che in Russia, anche se con una frequenza molto bassa, quattro volte all’anno, i “colloqui intimi” sono consentiti, e sosteneva che la motivazione che viene data a questo tipo di concessione deriva soprattutto dalla convinzione – basata su studi scientifici – che negare il sesso ai detenuti aumenta i casi di suicidio, di autolesionismo, di conflitti violenti.

Certo la loro logica dell’esecuzione della pena non è assolutamente paragonabile alla nostra, quella russa è figlia di un sistema penale dove la vittima del reato era principalmente lo Stato, il cui atteggiamento, nei confronti del reo, era implacabile: l’istituzione dei Gulag, dove le persone sparivano per essere utilizzate solo ed esclusivamente per attività produttive alla stregua degli schiavi, ne era la dimostrazione evidente. Da anni però in Russia, pur essendoci un tasso di carcerizzazione tra i più alti del mondo e condizioni di vita per i detenuti allucinanti, vengono comunque concessi i “colloqui intimi”, sebbene con motivazioni non sempre “nobili”.

Che io invece sia italiano lo si capisce già dal fatto di dover usare perifrasi e virgolette su una questione che non solo in Russia, ma in tanti altri Paesi, da noi considerati arretrati ed incivili per le continue violazioni dei diritti dei detenuti e non, è stata invece affrontata ed in qualche modo risolta. In Italia sulla questione dei diritti alla cosiddetta affettività, già in occasione del rifacimento del Regolamento d’esecuzione dell’Ordinamento penitenziario nel 2000, si era tentata una soluzione, ma il Consiglio dei Ministri, dopo l’intervento del Consiglio di Stato, dovette stralciare dalla legge proprio la parte che riguardava questa questione.

Le obiezioni del Consiglio di Stato erano state elaborate sotto due profili. Da una parte, il “forte divario fra il modello trattamentale teorico” prefigurato nel nuovo regolamento penitenziario e l’inadeguatezza del “carcere reale”. Dall’altra parte, di ordine non solo procedurale, rinviando l’introduzione di norme a favore del diritto all’affettività a scelte legislative e non al regolamento di esecuzione della legge 26 luglio 1975, numero 354: “Nel silenzio della legge”, si disse, “il diritto all’affettività non è scelta che possa essere legittimamente effettuata in sede regolamentare attuativa o esecutiva”.

 

Negare un minimo di intimità significa punire il corpo, svilirlo, umiliarlo

 

Ma cosa c’è dietro questa difficoltà ad accettare che sesso, ma anche e soprattutto affetto ed intimità, siano elementi necessari per permettere ad una persona di sentirsi ancora tale? Insisto che non si tratta, come molti vogliono far apparire, di far sfogare i bollori di quell’impulso che accomuna tutti gli esseri animali, ma di evitare piuttosto che il detenuto finisca per non considerarsi più a tutti gli effetti una persona, proprio perché privato della possibilità fondamentale di sentirsi unito intimamente ad un’altra persona.

Intimità poi è sì il rapporto sessuale, ma è anche passare un pomeriggio a giocare coi figli, fare i compiti insieme, riunirsi attorno ad un tavolo a mangiare ritrovandosi a vivere quelle sensazioni che sono parte dei vissuti positivi, che sono gli unici ai quali probabilmente è meglio aggrapparsi nella prospettiva prima o poi di uscire e ricominciare a vivere, in famiglia, in coppia, in compagnia e comunque in relazione. E poi è un fatto di civiltà, perché in qualsiasi caso eliminare le relazioni, o permetterle solo in termini freddi e superalienanti, significa essere ancora legati ad una logica della pena che è quella corporale, dove qualsiasi prossimità fisica viene inibita e snaturata, proprio perchè bisogna punire il corpo, svilirlo, umiliarlo.

Quelle che sono le conseguenze in termini di equilibrio psicofisico sono ben note a tutti quelli che abbiano studiato o si siano informati sull’argomento: l’astinenza sessuale e la mancanza di intimità, quando non sono praticate per scelta, deformano l’emotività, il rapporto col proprio corpo e con quello degli altri, alterano ai limiti della patologia le relazioni umane. Durante la giornata di studi “Carcere: salviamo gli affetti”, che si è tenuta presso la Casa di reclusione di Padova il 10 maggio 2002, organizzata proprio dalla nostra redazione, venne elaborata una proposta di legge, che oggi vogliamo rilanciare e porre all’attenzione del legislatore perché, nonostante sia stata sottoscritta da numerosi politici, non se ne è più sentito parlare.

La nostra redazione invece su questa strada ha continuato a lavorare cercando di raccontare attraverso la rivista, ma soprattutto i due libri – “Donne in Sospeso” e “L’amore a tempo di galera” – scritti rispettivamente dalle detenute della Giudecca di Venezia e dai detenuti della Casa di reclusione di Padova, cosa veramente significa vivere affetti e sesso in galera. Sono stati lavori faticosi, perchè non è facile esporsi su questioni così intime, ma abbiamo preferito rischiare e metterci in gioco, convinti che era necessario raccontare un po’ di verità. L’immaginario collettivo spesso trasforma la sofferenza con cui viene vissuta l’amputazione della vita sentimentale dei condannati in leggende, dove chi è recluso diventa necessariamente omosessuale, e la vita nelle sezioni dei penitenziari assomiglia a Sodoma e Gomorra.

Ma la realtà è ben diversa e più scomoda da accettare, perchè invece i sentimenti dei criminali detenuti sono gli stessi delle persone libere ed incensurate. Ognuno con la sua storia è marito, moglie, amante, genitore, figlio, o semplicemente amico, figura alla quale vengono spesso negati addirittura i colloqui, quasi l’affettività vera dovesse necessariamente essere confinata ai vincoli di parentela. Mantenere gli affetti in carcere oggi è veramente difficile, fare sesso è vietato. Tutto questo in realtà si scontra con la logica dove le pene devono tendere a “trattare” le persone in modo da renderle, a pena scontata, migliori e pronte a rientrare in modo nuovo nel vivere sociale, comprese le relazioni personali.

La realtà invece è fatta di famiglie devastate, coppie separate, figli che dimenticano di avere dei genitori, uomini e donne che relegano l’attività sessuale di coppia ai ricordi, fino ad alienarla o a renderla una triste ossessione fatta di masturbazione e basta, ma noi vogliamo continuare a scrivere e a raccontare, non abbiamo molti altri strumenti per farci ascoltare.

È vero che molto lavoro in Parlamento dovrebbe essere centrato sulla battaglia per modificare leggi come la Bossi-Fini, la ex-Cirielli contro i recidivi, la  Fini-Giovanardi sugli stupefacenti. Occorre però tentare di lavorare anche su proposte come quella sugli affetti, in realtà su questioni di questo genere è possibile trovare consensi più vasti di quello che la logica comune può far immaginare, spesso basta raccontare, far conoscere ed informare per ottenere consensi anche dove, per luogo comune, siamo ormai abituati ad immaginare solo ostilità ed incomprensione.

 

 

Genitori “dentro”

Nelle carceri di Bollate e Opera si può essere genitori in modo “quasi normale” incontrando i propri figli in uno spazio che assomiglia davvero a una casa

 

di Carmen Maturo

Responsabile Area Carcere

per la cooperativa sociale Spazio Aperto Servizi

 

Quando mi è stato chiesto dalla redazione di “Ristretti” di raccontare dei progetti presenti all’interno degli istituti penitenziari di Bollate e Opera, ho fatto fatica a mettere insieme tutto quello che avrei voluto scrivere, ma l’altra sera, come ogni fine giornata, sono entrata nel vostro sito e ho trovato questa lettera:

I familiari sono spesso vittime anche loro, e non è giusto che paghino proprio con la privazione degli affetti, che subiscano lo stesso trattamento di un recluso. Servirebbe almeno un po’ di tempo e di spazio in più per un contatto più diretto e intimo con i figli, le mogli, le madri, perché oggi il dialogo nelle sale colloqui è difficile, tante volte per pudore non si riesce a parlare, a “sciogliersi”, a trovare le parole e i gesti giusti. È proprio su questa riflessione scritta da voi, ed espressa in modo analogo da più detenuti del carcere di Bollate, che nascono i progetti “Io non ho paura” e “Cuore libera cuore”.

Mi presento, sono Carmen Maturo, responsabile Area Carcere per la cooperativa sociale Spazio Aperto Servizi. Una cooperativa presente sul territorio milanese dal 1993, che grazie al coinvolgimento di oltre 180 soci-lavoratori risponde ed interviene, sull’area minori e famiglie e sull’area handicap, con un’unica e vera preoccupazione: l’attenzione alla persona.

Nel 2002, all’interno del carcere di Bollate, seguivo un progetto che mi vedeva impegnata come tutor dell’accompagnamento nell’inserimento lavorativo dei detenuti. Anche se il mio mandato era quello di seguire i detenuti nel “percorso” al lavoro esterno, durante gli incontri individuali che svolgevo con loro il racconto sulla famiglia e sui figli era sempre prioritario. La sofferenza presente nei racconti mi portava a pensare a quanto fosse difficile, per le persone detenute, comprimere, congelare le emozioni.

Il vissuto di impotenza e di inadeguatezza verso la propria funzione genitoriale ed il profondo senso di colpa verso i figli e le mogli porta, il più delle volte, il padre detenuto a privarsi dei propri affetti, in alcuni casi non chiedendo colloqui con loro ed in altri mascherando ai figli la sua condizione carceraria

Tra i detenuti che avevo incontrato, alcuni avevano raccontato ai propri figli false verità rispetto alla loro condizione carceraria, le più gettonate erano: papà si trova qui per lavoro, questa è una base militare (ci poteva stare come bugia, il bambino incontrando gli agenti della Polizia Penitenziaria poteva scambiarli per soldati dell’esercito), altri raccontavano di lavorare in un aeroporto (qui però la cosa risultava un po’ più complessa da spiegare perché il bambino non vedeva aerei), qualcun altro invece raccontava che Bollate era una grossa banca con tante guardie, e tanti altri racconti.

Poveri bimbi, mi dicevo, entrano in un carcere ma non lo sanno! Possibile?

Ho lavorato per 15 anni con i bambini, in una comunità terapeutica, bambini vittime di maltrattamenti ed abusi sessuali. Conosco i bambini, a loro non si può mentire. I bambini ascoltano gli adulti, sentono quando gli adulti parlano tra di loro: dell’appello, del reato, dell’avvocato, del rigetto, dei permessi, della sintesi. I bambini ascoltano così bene gli adulti che qualche volta li imitano, riproponendone i modelli. La detenzione è sicuramente un evento traumatico, non solo per chi la vive, ma anche per tutte quelle persone vicine alla persona detenuta.

Le conseguenze della detenzione portano spesso i detenuti all’impossibilità di “mettersi in gioco” soprattutto nel ruolo che più sentono di non poter esercitare nella totalità, cioè quello di fare il padre o la madre. L’impossibilità di vivere il ruolo di genitore nella quotidianità, il non poter accompagnare i propri figli nel percorso della loro crescita, non essere presenti agli eventi che segnano il processo evolutivo dei loro figli, credo che sia l’esperienza più dolorosa che un genitore detenuto possa sperimentare durante la sua carcerazione.

I progetti di cui parlo si riferiscono ad un percorso di accurata osservazione, focalizzato in particolar modo nei confronti delle relazioni familiari nelle quali vengono a trovarsi i detenuti ospiti del carcere di Bollate e di Opera.

Tuttavia proprio a seguito delle riflessioni, valutazioni ed indicazioni raccolte, anche da parte di tutti coloro (i diversi referenti degli istituti, gli operatori della rete) che vivono e sentono da vicino i bisogni, le aspettative, le “strade possibili” per una vita di relazione dei detenuti con le famiglie di appartenenza, ed in particolare con i minori, ci si è voluti porre un ambizioso obiettivo: individuare dei modelli progettuali, delle sperimentazioni fattibili, che possano essere indirizzate verso un adeguato recupero di una “dignità affettiva sana” ed una “genitorialità consapevole” delle e dei detenuti degli istituti penitenziari di Bollate e di Opera.

L’intervento con il quale la cooperativa Spazio Aperto Servizi si propone è quello, non solo della definizione di spazi di recupero di benessere per le famiglie interessate, ma del lavoro di sostegno ed accompagnamento per i detenuti e per le loro famiglie; con l’obiettivo di creare esperienze, proposte e modelli operativi flessibili adeguati e di senso, che possano essere realmente proficui alla ricostruzione di tessuti relazionali significativamente positivi per l’intera comunità carceraria.

I progetti “Io non ho paura” (Bollate) e “Cuore libera cuore” (per la sezione femminile di Opera, esteso successivamente anche alla popolazione detenuta maschile), cercano di focalizzare le difficoltà delle singole persone attraverso una lettura accompagnata dei loro bisogni, dando dei supporti e mediando all’interno delle loro relazioni.

 

A Bollate, c’è una stanza per i colloqui a dimensione umana

 

La “stanza dell’Affettività” è uno spazio all’interno della sezione Staccata, di circa 30 mq. È stata realizzata con l’aiuto di alcuni detenuti. I mobili sono stati commissionati alla cooperativa di falegnameria Estia, presente all’interno dell’istituto e che dà lavoro ai detenuti, l’impianto elettrico è stato chiesto agli studenti del II° anno del corso di formazione per elettricisti, la M.O.F. ci ha aiutato nei lavori di muratura e ha portato all’interno del locale l’acqua.

La “stanza” è arredata come fosse una casa, non vuole sostituirla ma evocarla: c’è un divano, una televisione con lettore dvd, un tappeto, un tavolo, sedie, una libreria, un angolo ludico creativo, il pavimento e le porte sono di legno. Ci sono gli elettrodomestici: frigo, frullatore, sbattitore elettrico, forno a microonde, fornelli. Ci sono le posate: forchette, cucchiai, coltelli, cucchiaini (tutte in metallo). Ci sono bicchieri di vetro e piatti di ceramica, la moka per il caffè, pentole, tegami vassoi.

Adiacente alla stanza, c’è il bagno, piastrellato di colore azzurro e pareti rosa. Dentro c’è lo specchio, un fasciatoio per il cambio-pannolini (per alleviare le fatiche ed acrobazie alle mamme), una cassapanca, gli asciugamani, i tappeti, i sanitari sono nuovi.

Per ottemperare alla norma del controllo visivo da parte degli agenti della Polizia Penitenziaria e nello stesso tempo tutelare la necessaria riservatezza durante gli incontri, la stanza è provvista di un sistema, altamente sofisticato, di micro-telecamere a circuito chiuso, evitando così, da un lato, la presenza fisica, inevitabilmente invasiva, dell’agente, e dall’altro il vissuto del “controllo” che spesso non favorisce la possibilità di “scongelare” le proprie emozioni, pianto, riso, rabbia, gioia, malinconia il più delle volte taciute per vergogna, o inespresse per paura.

 

Gli obiettivi del progetto

Mantenere e migliorare il legame genitore-figlio

Favorire nel padre il recupero dell’identità e delle competenze genitoriali

Supportare il padre e la coppia genitoriale nello svolgimento dei compiti educativi

Garantire al bambino la possibilità di mantenere i suoi rapporti con il padre e accompagnarlo in tale percorso

Riflettere sull’evento traumatico del minore con il genitore detenuto (ansie, paure, rabbia, aggressività, bullismo, racconto della detenzione attraverso la verità narrabile)

Mantenere il padre in collegamento con tutti i soggetti coinvolti nella sua storia di genitore

Attivare, laddove è possibile, i canali e la rete esterna

 

A chi è rivolto il progetto

Essendo un progetto pilota, per il 2005 l’intervento è stato rivolto a 20 nuclei famigliari.

Si tratta di famiglie in difficoltà, di detenuti che sono impossibilitati a vedere i figli perché è presente un conflitto di coppia, si tratta di famiglie dove vi sono disposizioni precise da parte del Tribunale per i Minorenni, genitori che vogliono essere “accompagnati al racconto della detenzione”…

La persona detenuta viene segnalata esclusivamente dai referenti istituzionali (direzione, educatori, esperti ex articolo 80, operatori dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna) questo per evitare che si possano scatenare dinamiche interne che confondono i contenuti dell’intervento contemplati nel progetto.

Anche la persona detenuta può auto-candidarsi. In questo caso, gli operatori del progetto valuteranno in base ai criteri e al confronto con i referenti istituzionali la possibilità della presa in carico.

I nuclei vengono seguiti da personale qualificato e clinico: quattro psicologi, una criminologa per la consulenza tecnica, una coordinatrice, un supervisore scientifico

 

Modalità degli incontri

Gli operatori del progetto concordano con i famigliari le disponibilità degli incontri, informano la direzione, l’educatore di riferimento, l’area colloqui e i capi reparto.

Una volta stilato il calendario mensile, il genitore detenuto viene informato delle date d’ingresso, per consentire di organizzare al meglio due incontri.

I famigliari vengono accompagnati nella stanza dall’operatore del progetto (psicologo) che sarà il riferimento, per tutta la durata della presa in carico, per il sostegno e l’accompagnamento di tutti i componenti di quel nucleo.

Il genitore detenuto, al momento dell’incontro, è già presente nella stanza, perché accompagnato venti minuti prima, per accogliere i suoi famigliari.

I colloqui che si effettuano nella stanza sono quelli straordinari, autorizzati dalla direzione (4 ore al mese) e contemplati all’interno dell’Ordinamento penitenziario. Per i detenuti presenti all’interno del progetto le ore dei colloqui ordinari rimangono intatte.

Gli orari di accesso sono dalle ore 9.00 alle ore 16.30, gli incontri per i bambini in età scolare si effettuano prevalentemente nel pomeriggio per permettere loro di frequentare regolarmente l’orario scolastico.

Durante questi incontri non sono previsti “i rituali” dei colloqui ordinari: caricamento soldi, cambio di vestiario, ingresso di vivande o altro.

Il bambino può entrare con la cartella di scuola, può svolgere i compiti con il proprio genitore e portare il giorno dopo a scuola il compito svolto insieme.

L’incontro viene strutturato tenendo presente l’età del bambino, i suoi bisogni, la sua tenuta.

L’ingresso nella stanza è autorizzato ai bambini e ragazzi di età compresa tra 0 e 16 anni.

Durante gli incontri, il genitore detenuto cucina per il suo bambino (capita di farlo anche insieme): si può preparare una pasta, un dolce, una merenda, fare i compiti, disegnare, fare giochi da tavolo, stare abbracciati sul divano, ascoltare la musica o guardare un cartone animato…

Gli operatori del progetto seguono tutti i componenti del nucleo famigliare, supportando soprattutto le mogli e/o conviventi, che di solito si trovano a gestire la quotidianità dei loro figli in assoluta solitudine.

Dopo un anno di sperimentazione è stato possibile rilevare l’efficacia del progetto soprattutto sulle mogli e/o compagne delle persone detenute, alle quali è stato dato uno spazio di confronto e di elaborazione sull’evento traumatico della detenzione del loro congiunto.

Oltre agli incontri nella stanza vi sono infatti colloqui singoli di elaborazione, di riflessione e di sostegno con la persona detenuta, con la moglie e/o compagna, con la coppia insieme.

I due istituti penitenziari di riferimento, Milano-Bollate e Milano-Opera, molto diversi tra loro, per tipo di trattamento e per tipologia di utenza, hanno permesso di apportare modifiche e di elaborare considerazioni sugli interventi da farsi.

È stato possibile realizzare questo progetto grazie al lavoro di tutti coloro, che a diverso titolo ruotano attorno alla storia dei detenuti e operano ogni giorno a stretto contatto con loro.

Gli affetti sono di tutti! Non sono un privilegio, sono un diritto, fanno parte della natura umana, negarli significa vivere senza l’amore, senza un abbraccio, senza un bacio, senza il sorriso di un bambino, senza il caldo, senza il sole. Allora bisogna ricordare sempre che, quando si parla di affetti, e se ne parla in luoghi come il carcere, non possono esserci “criteri di accesso”, “numeri definiti” di fruitori per esercitare un diritto!

 

I progetti proposti dalla cooperativa Spazio Aperto Servizi, sono stati realizzati grazie a:

Francesca Corso, assessore all’integrazione sociale per le persone in carcere e ristrette nelle libertà della Provincia di Milano, pioniera per i diritti dei detenuti.

Le direzioni di Bollate e Opera, Lucia Castellano e Alberto Fragomeni, che hanno saputo “osare” e “non hanno avuto paura” di rischiare.

Il Provveditore regionale Luigi Pagano, sostenitore attento del “Trattamento”.

Gli agenti di Polizia Penitenziaria che “hanno voluto capire” e ogni giorno ci hanno sostenuto e ci sostengono perché questo tipo di intervento sia per i bambini il meno traumatico possibile.

I Magistrati di Sorveglianza di Milano Di Rosa, Fadda e Cossia che oltre al fascicolo e alle sentenze, hanno la capacità di vedere “oltre”: di vedere la persona.

I referenti del D.A.P., e in particolare la dottoressa Roscioli, che hanno riconosciuto il valore del progetto e ci stanno aiutando ad esportarlo in altri istituti di pena.

Gli operatori istituzionali e non (educatori, operatori U.E.P.E., volontari) con i quali ogni giorno lavoriamo in sinergia per tracciare le “strade possibili” per le persone recluse.

• Tutte le persone recluse che “NON HANNO AVUTO PAURA” di raccontarsi, che ci hanno fatto conoscere i loro bambini e ci hanno arricchito facendosi incontrare.

 

I progetti della cooperativa Spazio Aperto Servizi: “IO NON HO PAURA” presso la Casa di reclusione Milano-Bollate; “CUORE LIBERA CUORE” presso la sezione femminile della Casa di reclusione Milano-Opera

 

 

Precedente Home Su Successiva