Parliamone

 

Una vita ibernata

Fuori gli amici, i famigliari, tutti sono andati avanti, noi invece siamo rimasti qui immobili. Uscire dalla galera e rientrare nel mondo, trovare faticosamente un posto di nuovo in famiglia, sapere che bisogna “accontentarsi” di poco e non avere troppe aspettative: questo è il “dopocarcere”

 

a cura della Redazione

 

“Castellare”: voce di uno strano verbo, che si usa forse unicamente in carcere, e che significa in pratica sognare, inventare, crearsi un futuro nella propria mente, che forse nella realtà non esisterà mai. Noi in redazione abbiamo provato a discutere di dopo carcere nel modo più lucido e franco possibile, evitando appunto di “castellare” e impegnandoci invece a restare con i piedi radicati profondamente a terra.

 

Ernesto Doni: Io i problemi li ho qui dentro, non fuori… fuori anche fra dieci anni problemi non ne avrò! Uno i problemi li ha all’uscita dal carcere, se fuori non aveva nessuno e non era seguito; i problemi ce li hanno quelli che fanno uno-due anni di galera, che vengono dentro e sono tossici. Ma se uno è seguito dai famigliari problemi non ne ha. N. per esempio è uscito dopo 27 anni di carcere, ha forse problemi di lavoro? Lui ha la famiglia, può andare da sua sorella, sua cognata, la sua donna…

Flavio Zaghi: Ma tu pensi che non sia un problema andare da tua sorella, tua cognata, tuo padre, a chiedere delle cose, mostrare che sei disagiato, che non ce la fai da solo?

Ernesto Doni: Ascolta, questo problema te lo stai creando tu, perché se hai una famiglia stai sicuro che dopo anni di carcere ti accoglierà senza farti pesare niente.

Elton Kalica: Io penso invece che se fai tanti anni di galera perdi un po’ le amicizie, perdi i contatti, perdi un po’ tutto, non è che poi esci e trovi gli amici nelle stesse condizioni in cui li hai lasciati prima, magari se ne hai uno o due buoni su quelli puoi contare, ma il resto è tutto cambiato. Poi un fattore importante è il contesto sociale in cui si era inseriti prima di entrare in carcere, perché uno che era magari sbandato, o chessò… figlio di alcolizzati o si bucava alla stazione, non è che poi dopo un “passaggio” in carcere trova un contesto accogliente; invece uno che viene da una famiglia “regolare”, nel senso che aveva moglie, figli, genitori, fratelli, tutti inseriti, con dei lavori decenti, se anche esce tra dieci anni ha comunque dove agganciarsi.

Marino Occhipinti: Ma se esci a cinquant’anni dopo vent’anni di galera, come fai a presentarti a casa dalla mamma e dal papà e dire: “Mantenetemi voi perché adesso mi ci vorrà molto tempo per riprendermi, per trovare lavoro?”.

Ernesto Doni: Se tuo padre e tua madre ti hanno voluto bene per vent’anni, ti hanno passato 50 euro alla settimana, ti hanno portato da mangiare, ti hanno lavato e stirato la roba… porteranno ancora pazienza per alcuni mesi…

Ornella Favero: La realtà secondo me è molto più complicata, mi viene in mente l’articolo sul nostro giornale, di una detenuta che a quarant’anni, dopo qualche anno di carcere, adesso torna a casa per i permessi, ma la vita in famiglia coi genitori è dura, sua madre le sta facendo pagare praticamente tutto, rinfacciandole le sofferenze che lei ha causato ai suoi famigliari. È vero, la famiglia certamente non ti abbandona, ti viene a trovare, ma paradossalmente molte difficoltà cominciano al momento delle prime uscite e poi delle misure alternative, perché un conto è assisterti con le tue piccole esigenze da carcerato, un altro conto è che la tua famiglia debba aiutarti mentre tu devi misurarti a 360 gradi con i problemi legati a un percorso di “ricostruzione” di una vita. E quando te la trovi a casa, la persona che era in galera prima, non è affatto facile accettarla. Io la sento nei parenti che mi telefonano, la preoccupazione del dopo. Perché la gioia del primo momento, quando una persona ritorna in libertà, è forte: che bello, è fuori, basta colloqui dentro in galera, basta sofferenza delle separazioni. È dopo che iniziano tutta una serie di preoccupazioni che mi pare qualcuno sottovaluti totalmente.

Il primo problema è che, se tu hai quaranta-cinquant’anni, non è che ti basta la sorella o la mamma. Allora se hai delle relazioni, una compagna che ti ha seguito, a volte iniziano lì i disastri, perché quando tu torni a casa le persone sono diverse, e io ho visto poi crollare delle storie che sembravano molto solide. Se invece non ce l’hai, una vita di relazione, se sei stato vent’anni in galera e poi ti trovi fuori, in un mondo di famiglie, gente con figli, gente “regolare”, alla fine non sai più cosa sei. Non sei né quello che va con gli sbandati, perché non ne hai più neanche l’età, né quello che riesce ad integrarsi. Ti cerchi una relazione, vorresti avere una donna, una compagna, allora ti trovi le ragazze di vent’anni che forse sono libere, e tu però di anni ne hai quaranta ma la testa, le esperienze, la vita vissuta sono di uno di venticinque: beh, non è per niente semplice.

Ernesto Doni: La preoccupazione dei famigliari è che uno ritorni sulla strada di prima, i famigliari hanno paura che magari anche dopo il lavoro tu vai a fare ancora il balordo. Ma se hai voglia di lavorare lo trovi anche fuori il lavoro.

Flavio Zaghi: Il lavoro lo trovi anche, ma fai un lavoro che te ne rimani zitto tutto il giorno e non riesci a rapportarti con nessuno e finisce che parli da solo. Avrai pur bisogno di qualche relazione, di amicizie, di affetti…

Ornella Favero: Ma che cosa trovi a cinquant’anni Ernesto, ma dove vivi? Manco le cooperative sociali ti danno lavoro…

Ernesto Doni: Io ho visto miei amici, vecchi che escono e lavorano, si sono adeguati… Magari vanno a fare il muratore. Perché, quelli che hanno sessant’anni non possono fare i muratori?

Marino Occhipinti: Ernesto, ammettiamo che tu esci e vuoi lavorare onestamente, ti presenti a fare il muratore, ma sai che risate si fanno?

Flavio Zaghi: Io sono uscito di qui dopo tre anni scarsi di galera. Da qui, da questo carcere, sono andato in affidamento fuori, ho trovato un monolocale… 750.000 lire al mese, non mi bastavano neanche i soldi che pigliavo in cooperativa. Andavo a lavorare alla Firema, dove fanno i treni qui a Padova, mi spappolavo il culo tutto il giorno per dieci ore al giorno. Ho smesso perché non mi dava alcuna soddisfazione, ho cambiato e sono andato a consegnare mobili, col camion tutto il giorno, arrivavo la sera distrutto: alle dieci di sera dovevo essere a casa, perché al mattino alle sei mi dovevo alzare per farmi di nuovo il culo tutto il giorno, e tu pensi che io vada di nuovo a lavorare così? Ma tu sei pazzo! Questi sono i problemi: che non parli con nessuno. C’erano i ragazzi che lavoravano là che mi guardavano come fossi un alieno, io lavoravo e basta. I loro problemi erano: il telefonino, la macchina e dove vai domenica e qua e là. Io non avevo discorsi da fare di questo genere, quindi non parlavo mai con nessuno, andavo vicino alla macchina del caffè e li ascoltavo, li guardavo e mi dicevo: questi son fuori di testa. E così non sono riuscito ad inserirmi… e infatti sono andato a rubare.

Ernesto Doni: Chi fa venti o trenta anni di galera, poi di solito se la sa cavare. Quelli che non sono capaci di arrangiarsi sono la maggior parte di questi disagiati che vanno fuori e trovano gli assistenti sociali che gli stanno dietro, ma poi son sempre dentro e fuori di galera lo stesso.

Sandro Calderoni: Io parlo della mia esperienza, se avessi avuto la possibilità di uscire, c’erano già delle persone che mi davano del lavoro da fare, si erano messe a disposizione per aiutarmi. Allora possibile che chi esce dal carcere non abbia degli amici che cercano di trovargli un lavoro? L’operaio normale cosa guadagna? Se tu vuoi uscire regolare, devi metterti a lavorare come un operaio e dimenticarti qualsiasi lusso.

Ornella Favero: Però le difficoltà di una persona che è stata abituata in altro modo sono tante. Io ne vedo fuori, di ragazzi che hanno fatto tanta galera proprio perché hanno commesso reati per mantenere un tenore di vita alto. I soldi che guadagni con un lavoro onesto non ti permettono di fare quasi niente. Se tu esci magari da solo, se non si è in due a lavorare, dove te la mantieni una casa quando un affitto minimo è di 500 euro?

Elton Kalica: C’è da tener conto di un fattore che è fondamentale. Con quale mentalità, con quale testa si esce fuori? Se uno esce con la testa di fare il regolare, tira la cinghia e ce la fa, se uno esce fuori con la testa di fare la vita di prima, andare nei locali notturni, volere la macchina di lusso, allora certo il lavoro non ti basta e vai a spacciare. Io ho avuto in cella con me un ragazzo che lavora in cucina, lui ha proprio una testa “da regolare”, quelli della cooperativa lo hanno visto, si sono attivati e nel giro di due giorni gli avrebbero trovato il lavoro come cuoco in un ristorante,  perché sanno che è uno che lavora, lo hanno visto in cucina a tagliare cipolle come un cinese e non si tira mai indietro quando c’è da lavorare.

Altin Demiri: Se uno prende coscienza che questa non è proprio vita, se ha sofferto veramente durante la carcerazione, per me poi fa di tutto per non rimetterci più piede, in carcere. Quello che conta è proprio la mentalità, è il riflettere su cosa tu vuoi fare della tua vita.

Ahmet Karaboga: Io sono stato in articolo 21 e in semilibertà, le cose che potevo avere erano molto ridotte e comunque ciò che avevo non mi bastava mai anche se mi sforzavo di farmelo bastare. Ho dovuto andare in giro con la bicicletta anche d’inverno, tu sai che questo devi fare per tre anni finché non finisci la tua galera, però una volta finito prendi la bicicletta e la butti nel primo fosso che trovi. Con questo sto dicendo che ciò che si accetta mentre si è in galera, ciò che si accetta per ottenere la libertà è un conto, ciò che si vuole dopo è un’altra questione. Adesso se tu mi dici: “Io esco e mi faccio sostenere per sei mesi, dopo sei mesi vado a fare il muratore”, mi sta anche bene, però dopo sei mesi che uno fa questo lavoro, si pone la domanda: ma chi sono? Io una volta che ho finito la mia galera torno in Turchia, là ho una casa, una macchina, e c’è mio padre che è commerciante, sono sistemato e non ho nessun problema, questo per dire che non sono un disperato, comunque mi pongo la domanda: che ci farò a casa mia dopo undici anni di galera, a trent’anni di età. Certo non avrò problemi di soldi, ma i problemi sono anche quelli dei rapporti che non sono più gli stessi, che andranno ripresi e rivisti, che forse non funzioneranno più.

Sandro Calderoni: Io penso che il punto è proprio quello che non ci accontentiamo della bicicletta. E invece bisogna entrare nell’ordine di idee che se mi metto a fare il regolare andando a lavorare, mi devo anche ridimensionare su quello che magari posso avere dalla vita.

Ornella Favero: A parole è stupendo, ma poi, quando sei fuori, tu non ti confronti più con la galera, dopo un po’ smetti di essere contento perché hai di più rispetto a quando stavi dentro e cominci a confrontarti con quello che vedi fuori.

 Altin Demiri: Ma allora non ti è servita a niente la galera, non sei maturato. Io invece dico che non ci torno più perché a me è servita… mi ha fatto cambiare.

Ornella Favero: Io ho capito la posizione di Altin, ma penso che spesso rischia di essere un discorso illusorio che ho sentito fare a tanti, quelli che dicono: io ho provato la galera e non voglio più tornarci dentro. Questo finché si è in galera è un discorso limpido e onesto, e secondo me la gente che lo fa lo fa perché ne è convinta. Quando poi però esci dalla galera, della galera ti dimentichi in un giorno, ti cominci a confrontare con il mondo fuori e lì sei sempre perdente, è questo il problema.

Ernesto Doni: Io però resto convinto che dopo trent’anni uno se vuole fare il bravo fa il bravo…

Flavio Zaghi: Se fossi una macchina, sì, ti prendo, ti metto lì, ti accendo e ti spengo quando voglio, ma sei un uomo, Ernesto, hai dei sentimenti, delle invidie, provi delle cose che non affronti così semplicemente.

Ernesto Doni: Ma se mi segue da vent’anni tutta la mia famiglia, vuol dire che vado fuori e ho una base, da quella base sono io che devo costruirmi qualcosa, se invece per vent’anni ho fatto il balordo e poi vado fuori e li prendo ancora per il culo, allora sono un disgraziato io. Però io con i miei sono sincero. Se voglio lavoro a 1200 euro, come fa un operaio della FIAT...

Marino Occhipinti: Adesso io non conosco la situazione tua, per amor del cielo, ma se tutte le persone ragionassero come te, direi che siamo un branco di illusi, perché le difficoltà quando si esce ci sono. Non lo so, io vorrei ragionare in positivo come te, purtroppo ho la sensazione che quando inizierò ad uscire le difficoltà saranno una marea. Già vedo che quando viene qui mia mamma mi tratta come quando ero un bambino: mangia, copriti… tutte le raccomandazioni che non mi faceva più quando ero fuori, ora me le fa, cioè son tornato indietro di una trentina d’anni, son tornato il bambino di dieci anni per lei, e questo sarà un problema. Tu Ernesto che dici che quando esci non avrai problemi, porca miseria speriamo che sia così ma non ci credo. Io preferisco forse aver paura per essere corazzato alle difficoltà, che non uscire con la mentalità di spaccare il mondo.

Flavio Zaghi: Sai che cosa mi sembra, Ernesto? Mi sembra che tu sei finito in galera per 20-30 anni, e poi esci e ritorni al bar, ritrovi i tre amici che erano con te al tavolino, e li ritrovi con le carte in mano, e loro ti dicono: dove eravamo rimasti? Ma non è così. Ti sei perso 20-30 anni, queste persone in questi anni hanno fatto strada, tu invece sei rimasto, noi siamo rimasti qui ibernati. Gli amici, tua madre, tuo padre, tua sorella, tua moglie, la tua amante, il vicino di casa, tutti hanno avuto la loro evoluzione, siamo noi che ci siamo fermati qui.

Ornella Favero: A parte che molto dipende anche dalla lunghezza della pena, però mi piacerebbe che la discussione che facciamo fosse soprattutto sul tempo, sull’illusione di recuperare il tempo perso, su come cioè si pone una persona che esce dopo un periodo più o meno lungo di galera rispetto agli anni persi in carcere. Mi sembra che l’aspetto più preoccupante dell’uscita sia proprio rappresentato dall’ansia di fare dei bilanci, come dire: “Ecco ho quarant’anni, ho cinquant’anni, non ho fatto niente mentre gli altri hanno figli, casa di proprietà, hanno costruito qualcosa. Quindi adesso devo cercare di recuperare”.

Ibrahim Hegab: Ma non puoi chiedere ad uno che è uscito da una tomba cosa farà dopo. L’ansia è di uscire e basta, poi si vedrà domani cosa facciamo.

Paolo Moresco: In quello che ha detto Ibrahim c’è una cosa interessante, se si esce da una tomba si ha una concezione statica del mondo esterno, mentre il mondo esterno mica ti aspetta, e questo indipendentemente dal fatto che tu abbia soldi o famiglia. Fuori tutto si evolve, cambia.

Gianfranco Gimona: E poi ci sono davvero delle mine vaganti che minacciano gli affetti, perché una famiglia che poteva essere quasi idilliaca precedentemente alla cattura o all’entrata in carcere, cresce senza di te. Tutte le esperienze delle mie figlie per esempio, il primo giorno di scuola, la prima delusione d’amore, io non c’ero e non c’entro nulla con le loro scelte. Entri in una casa che non è più tua, in una famiglia di cui non fai più parte, gli ingranaggi non combaciano più. Passa del tempo e non lo puoi recuperare.

 

Il piacere della libertà dura un mese. Poi ci si dimentica in fretta del carcere e di quanto sia bello essere fuori

 

Paolo Moresco: Paradossalmente uno ha una grande fretta di fare, mentre in realtà dovrebbe avere pazienza. È questa l’assoluta semplicità del problema. Mi viene in mente una vecchia canzone di Jimmy Fontana, “Il mondo non si è fermato mai un momento”: cioè, mentre tu sei dentro non è che fuori tutto si fermi per aspettarti, quindi sei tu che devi reinserirti in quel ritmo, non è il ritmo che si può adattare a te. È per questo che dovresti uscire con uno stato d’animo di pazienza, di accettazione delle difficoltà, e invece probabilmente uno esce con la fretta di rifarsi del tempo perso.

Marino Occhipinti: Anche qui ci sono situazioni abbastanza soggettive, come il discorso che riguarda l’atteggiamento degli amici quando uno finisce in carcere. Se esce dal carcere uno che è entrato giovane, è chiaro che non li troverà più, gli amici, ma forse li avrebbe persi anche stando fuori. E lo stesso vale per le persone care, che non saranno più come prima. Forse “simili” a com’erano, solamente un po’ più invecchiati, può trovare solo i genitori. Se io penso a me, ho lasciato le bambine piccole, adesso mi rendo conto che, quando scrivo loro, dovrei adeguarmi un po’ a una situazione diversa, loro sono grandi ormai, e invece io son rimasto fermo a dieci, dodici anni fa.

Paolo Moresco: Un caso meno estremo è il mio, che è avvenuto in una fase della vita in cui tutto è più stabilizzato: sono entrato infatti in carcere in un’età più matura, con una condanna più breve, però il mondo cambia ugualmente, un po’ di persone di riferimento tue fuori non esistono più non perché sono proprio sparite ma perché hanno ruoli diversi.

Marino Occhipinti: Io ho notato che nelle giornate in cui sono entrati qui dentro gli studenti, alla fine degli incontri salivo in sezione stanco morto, eppure non è che abbia fatto delle gran fatiche. Cioè, qui disimpari anche ad avere delle emozioni. Io quando vado a colloquio, per un giorno poi sono stravolto, invece nella vita fuori di cambi di umore, di emozioni, o di stress ce ne sono continuamente.

Graziano Scialpi: Fuori davvero ti ritrovi come un estraneo. Anche se fai colloqui regolari, i tuoi famigliari però li incontri sempre più o meno in un certo contesto, poi esci e li vedi parlare delle cose quotidiane, allora ti rendi conto che c’è tutta una parte della loro vita alla quale sei estraneo, i loro sono tutti discorsi da cui sei completamente fuori.

Paolo Moresco: Fate conto di avere una condanna di cinque anni, e che ogni anno sia un piano di scale: un fatto è andare al quinto piano con la scala mobile e con gli occhi bendati, che è la nostra vita in carcere, un altro è andare al quinto piano scalino per scalino, vivendo la vita vera, la vita esterna.

Elton Kalica: Questa ansia che ti prende, questa voglia di strafare, non è una cosa che riguarda tutti. Io ho visto che chi non ha niente non ha questa voglia di strafare, anzi, è preoccupato, non sa dove andare, la libertà lo spaventa in qualche modo. Chi invece ha qualcosa non prova le stesse paure di chi non ha niente, gli viene quasi istintiva questa voglia di recuperare il tempo perduto. Ho visto di recente che è arrivato un ordine di scarcerazione a uno che era dentro da dieci anni, lui non sapeva nemmeno di essere arrivato a fine pena e non voleva uscire. Io non credo che lui avesse voglia di strafare, di recuperare: la sua preoccupazione era dove andare, cosa fare, dove sbattere la testa.

Ornella Favero: Non è proprio un fatto di volere strafare, strafare non è proprio il verbo esatto. Ho visto persone molto diverse, con storie e pene completamente diverse, però quello che ti prende tante volte è un po’ lo stesso, cioè cominci a fare un bilancio e dici: “Io ho quarant’anni, le persone come me che hanno quest’età, cosa hanno di solito?”. Hanno figli, un lavoro, la casa, e allora bisogna che anche tu cominci ad avere qualcosa e ti prende l’ansia di mettere le cose a posto, che a volte, secondo me, diventa assurda, nel senso che le persone fuori non è che vivano tutte felici e contente, abbiano una vita tranquilla, sistemata, relazioni che funzionano, anzi, il mondo cosiddetto “normale” è sempre più pieno di gente che si separa.

Elton Kalica: Anche chi va in guerra e sta via tanti anni ha le stesse sensazioni. Tornano e hanno desiderio di costruirsi qualcosa, credo che la lontananza dai famigliari e dalla società per un lungo periodo faccia nascere in modo automatico queste sensazioni.

Marino Occhipinti: Il paragone della guerra, rispetto a chi esce dal carcere, in parte è vero perché ti trovi dopo anni catapultato in un mondo che è diverso, però chi tornava dalla guerra non credo che subisse l’esclusione di chi esce dal carcere. Quello che tornava dalla guerra, trovava il ragazzino che voleva conoscere le sue imprese; della galera invece, come diceva Flavio, uno è costretto a parlare con il televisore perché non ha nessuno con cui comunicare.

Graziano Scialpi: Credo però che molti escano dal carcere con atteggiamento rivendicativo, questo è il grosso problema. Mi è stata sottratta una parte di vita, si dice, e invece c’è poco da rivendicare, bisogna avere pazienza perché poi la strada più breve è finire nuovamente in carcere o nel crimine.

Sandro Calderoni: Nel mio caso, se e quando uscirò, non sarò più un ragazzino, quindi non aspiro neanche più ad una famiglia mia, e non vorrei però neanche più dipendere dalla famiglia di origine, solo avere una mia autonomia. È questo che a volte rischia di farti bruciare i tempi, l’ansia di non dipendere più da nessuno.

Ahmet Karaboga: Quando usciamo dal carcere penso che siamo tutti un po’ ansiosi di avere le cose. Uno esce e vede chi, come lui, ha quarant’anni e non riesce a pensare realmente a quello che gli manca senza guardare cosa ha l’altro. Io a venti anni avevo già delle cose che uno a trenta non aveva, avevo il mio BMW ma volevo il Porsche, qui dentro tanti magari avevano la possibilità di farsi una vita decente, invece vogliamo sempre di più.

Flavio Zaghi: È vero che i problemi sono soggettivi, però ci sono anche degli altri piccoli motivi di insoddisfazione che possono essere generalizzati per tutti, e sono appunto le difficoltà di rapportarsi con le persone in una certa maniera. Quello di avere delle cose da “rivendicare”, di recuperare il posto in famiglia, nella società… sono trappole, perché io le ho provate su di me e alla fine mi ero fatto le stesse paranoie e sono tornato un’altra volta qui. Bisogna saperle queste cose perché se uno esce impreparato e neanche se le immagina, ci sbatte il muso contro senza avere un minimo di senso critico.

Ornella Favero: Una persona quando esce pensa che godere della libertà è così importante, così bello che il resto viene tutto dopo, ma questa sensazione del piacere della libertà, dura un mese. Poi uno si dimentica in fretta del carcere che ha fatto prima, e di quanto sia bello essere fuori, e comincia a sentirsi insoddisfatto della sua vita presente e non si confronta più con la vita di galera, ma con la vita di chi sta fuori, che naturalmente ha sempre più di te, ed è li che cominciano le contraddizioni.

 

 

Tra la galera appena finita e la galera che verrà

Il tempo perso in carcere non si recupera e non c’è modo migliore di stare male che provare a farlo. E intanto si finisce per sentirsi un po’ senza età, mentre quelli della tua generazione fanno cose che tu non puoi fare perché non le hai costruite

 

di Stefano Bentivogli

 

Pensandoci bene, ancora prima di iniziare a scrivere sul “dopo carcere”, mi viene da dire che probabilmente sto passando un periodo difficile, e che forse in un altro momento avrei scritto tutt’altro. È come se mi stessi chiedendo se è il caso o meno di raccontare che le cose non vanno così bene, e che, quando si parla delle difficoltà che si incontrano all’uscita dalla galera, si rischia a volte di dare un taglio lamentoso e sofferente che alla fine infastidisce anche me che scrivo.

Ma forse ha senso farlo lo stesso, perché quando ho accettato di scrivere del dopo carcere sapevo benissimo che sarebbe stata una delle cose più complicate che mi apprestavo a fare. Una prima cosa però occorre sottolinearla, perché per me, ma anche per molti altri, e chi è detenuto lo sa bene, parlare del dopo carcere sembra sempre troppo presto, e non perché io non sia realmente fuori dal carcere, ma perché in realtà sono in una situazione che è nello stesso tempo “dopo e prima” del carcere, una specie di limbo nel quale vivono per anni migliaia di ex-detenuti come me. Ecco, dedico lo sforzo che mi costa, e non è poco, a tutti i mostri del crimine come me: i recidivi!

Lo dedico a loro e lo indirizzo a tutti quelli che si riempiono la bocca di ex-Cirielli partendo soprattutto da alcuni politici della sinistra che, nei confronti di quelli come me, sono disposti a sostenere la legge della destra, proprio nella parte che pesta duro sui recidivi. La mia carriera di “delinquente” è quella classica di chi ha avuto problemi di tossicodipendenza, con una valanga di piccoli reati, giusto quelli sufficienti a pagarmi la dipendenza da una sostanza illecita: una droga illegale. Sì, perché non mi sono mai arricchito, anzi, se qualche soldo avevo messo da parte, l’ho dilapidato senza scrupolo, contribuendo indirettamente a finanziare la criminalità, quella vera.

Ogni volta che sono stato catturato sono stato denunciato, in genere rilasciato a piede libero, in attesa di processo, altre volte sono stato un po’ in custodia cautelare finché mi è stato presentato un primo conto di quattro anni e mezzo di carcere, cumulo di diverse condanne divenute irrevocabili e delle quali era partito l’ordine di carcerazione. Come entro in carcere mi arrivano altri rinvii a giudizio, mediamente tre ogni anno, e man mano che sconto il primo conto di quattro anni e mezzo, altri da scontare se ne aggiungono. Quando mi sembra che il conto sia completo, a sette mesi dal fine pena chiedo un affidamento in prova e l’ottengo. Dopo tre mesi di affidamento mi arriva un altro rinvio a giudizio per reati commessi nel ‘97 a Reggio Emilia, ora so che tra poche settimane avrò un processo. Io di questi reati del ‘97 mi ero proprio dimenticato, di quanti altri mi sono dimenticato? Non sto a spiegare nel dettaglio come funziona, ma potrei rientrare in carcere da un giorno all’altro, non so più qual è il mio fine pena ed il mio dopo carcere inizia così.

Potrebbe addirittura succedere che fra qualche anno salta fuori qualcos’altro per il quale devo essere processato, sì perché di tutte le denunce che ho preso non ce n’è una che sia andata in prescrizione: magari dopo vari anni, ma è sempre arrivato tutto in tempo per essere scontato. Quando sento i dati su quanti processi vanno in prescrizione ogni anno e i commenti dell’italiano medio – almeno quelli che ci vende l’informazione ufficiale – provo una grande rabbia. A me i conti da pagare arrivano tutti e lo stesso vale per tutti i miei compagni che si trovano a fare avanti ed indietro dal carcere, anche se ormai avevano smesso qualsiasi attività illegale.

Eppure ci sono quelli che riescono a mandare sempre o quasi tutto in prescrizione e comunque in galera non li incontri mai. Verrebbe da pensare, quando si decide di chiudere tutti i conti con la giustizia e iniziare una vita diversa, che non si può più, che è troppo tardi: nonostante infatti abbia patteggiato il 99 per cento delle mie condanne, sto ancora aspettando chiusure di indagini e rinvii a giudizio. Questo è quello che capita a me per i tempi della giustizia, mentre per alcuni gli stessi tempi lunghi della giustizia significano l’impunità.

 

I veri professionisti del crimine sono quelli che anche quando li prendono riescono a non pagare mai

 

Per i recidivi come me, e sono tantissimi, iniziare a parlare del dopo carcere è davvero un azzardo. Ma è di questo che voglio parlare, perché sono comunque fuori dal carcere, anche se in alcuni momenti di depressione invece che nel dopo carcere mi sembra di essere in pre-carcere: è questa infatti la condizione di tanti recidivi, sui quali la ex-Cirielli si vuole abbattere, per aumentargli ancora le pene, per togliergli i benefici e per rendere impossibile la prescrizione dei reati. Altro che professionisti del crimine, i veri professionisti sono quelli che anche quando li prendono riescono a non pagare mai, i loro processi durano un’eternità, ed è tutto calcolato per ottenere la prescrizione.

La precarietà quindi è la grande regina di qualsiasi attività: precarietà che può riguardare il lavoro, una casa, una relazione affettiva. Tutto da un momento all’altro può saltare e le sbarre torneranno a frapporsi tra me, il mio presente ed i miei progetti.

Ma per vivere occorre far finta di niente, sperare, o semplicemente non pensarci, tanto non c’è molto da fare, l’obbligatorietà dell’azione penale in Italia è un rullo compressore che schiaccia lentamente soprattutto le vite di chi ha commesso tanti piccoli reati, non importa come e perché. Ricordo ora con tenerezza i miei primi arresti, il fatto di essere rilasciato a piede libero mi dava quasi la sensazione che mi venisse concesso del tempo per mettere a posto le cose e che magari alla fine su qualcosa sarebbero passati sopra: ma tutto, è tutto segnato ed in un lento ed inesorabile ingranaggio prima o poi arriverà l’ennesimo conticino da pagare.

E allora che senso ha stare fuori sapendo che qualche rientro in carcere è ancora possibile doverlo fare? Beh, una certezza però ce l’ho, che i miei problemi con gli stupefacenti in carcere, nella mi-gliore delle ipotesi, si congelano, pronti a scongelarsi non appena fuori ci si ritroverà a gestire le stesse situazioni che ho lasciato. E sono questioni che non si risolvono nelle statistiche viziate di San Patrignano, né esistono farmaci miracolosi. Si superano crescendo ed affrontando i problemi. Imparando innanzitutto ad usare bene tutte le risorse che ci sono, soprattutto i servizi pubblici, e i rapporti personali rimasti in piedi. In carcere tutto questo non si può fare, e non esiste custodia attenuata che tenga, niente riesce a rendere utile una dimensione, quella detentiva, che non aiuta a crescere nessuno, neanche i detenuti non tossici.

 

Usciti dal carcere si arriva presto a trovarsi soli… ed insoddisfatti

 

Comunque il trovarsi fuori è stato inizialmente fantastico, anni di astinenza da tante cose impagabili mi davano un senso di euforia incredibile, e poi continuare a collaborare con Ristretti Orizzonti era comunque una grande opportunità. Ma il resto? E mi riferisco a tutti quegli aspetti che hanno a che fare con il passaggio da una vita senza libertà personale ad una dove, pur con qualche restrizione, tante di queste libertà te le ritrovi tra le mani e devi decidere cosa farne.

È strano, ma dopo un primo impatto entusiastico si cominciano a fare i conti con la realtà. Dentro poteva sembrare che il solo essere fuori dal carcere fosse una soluzione alle difficoltà che comunque si percepivano. E invece piano piano si scopre che fuori la gente si dibatte quotidianamente in un mare di problemi, che l’insoddisfazione che arriva all’infelicità è la malattia di questo secolo, e soprattutto la solitudine uccide. Usciti dal carcere si arriva presto a trovarsi soli ed insoddisfatti, soprattutto quando si è sulla quarantina e quando ci si è creati un po’ l’illusione di essere pronti a riprendersi parte del tempo perduto tra eroina, programmi terapeutici falliti e carcere. Il tempo perso non si recupera e non c’è modo migliore di stare male che provare a farlo. Subito ci si accorge che qualcosa non funziona. Ci si sente un po’ senza età, quelli della tua generazione fanno cose che tu non puoi fare perché non le hai costruite, mettersi a giocare a fare i giovincelli che vivono di esperienze rischia di diventare patetico.

A me è capitato di trovarmi ad esempio fuoriposto ovunque fossi, ed ovviamente era una sensazione tutta mia, nessuno veniva a ricordarmelo. Il pensiero era: cosa racconto di me? Ed il problema non era tanto quello di raccontare che ero stato in carcere, ho sempre sostenuto che giocare a nascondino non paga, il problema è che i momenti e i luoghi di scambio vero sono talmente pochi, da far paura.

Per ora sto tirando avanti con una borsa lavoro del Comune, il minimo per sopravvivere, ma il problema viene dopo, a guardarsi attorno c’è solo da spaventarsi. Non si tratta di dire che lavoro non ce n’è, io credo che almeno qui nel Nord-Est qualcosa si trovi ancora, il problema è quale. Se si vuole rimanere nei lavori regolati a contratto lo spazio va dal lavoro interinale, che ti garantisce qualche mese e… poi vedremo, ai co.co.pro. che hanno lo stesso livello di precarietà dei primi. Se parti da zero sei fregato, perfino le cooperative sociali, in molti casi, limitano la loro disponibilità all’assunzione tanto quanto durano gli sgravi previsti dalle leggi sui lavoratori svantaggiati, cioè finché sei detenuto e sei mesi ancora dopo il fine pena. E poi?

Per il problema casa siamo peggio che per il lavoro, i prezzi degli affitti corrispondono ai salari percepiti o quasi, e poi trovarla, una casa! Al massimo, se si è fortunati ci si organizza in convivenze, difficilmente scegliendosele, come in galera.

Ma in realtà la questione seria a mio avviso è un’altra. C’è un abisso, nel quale secondo me si rischia di precipitare, che consiste in quello che i modelli di riferimento ti propongono e quello che umanamente e soprattutto legalmente uno riesce a realizzare. Abbiamo passato anni in branda a vedere in televisione un mondo che vive di cretinate, che identifica la realizzazione di sé negli standard di spesa che riesce a mantenere, un mondo cinico negli affari e nel lavoro, e smielatamene falso nelle relazioni, come nelle telenovelas. Fuori, a parte pochi privilegiati, si viaggia da sotto la soglia della povertà all’indigenza totale. Perché allora chi ha vissuto nell’illegalità dovrebbe cambiare stile di vita quando l’alternativa è la fame? O comunque perché spaccarsi la schiena sul lavoro quando chi ha successo sembra sia gente che sta tutto il giorno a grattarsi ed a pensare solo a come spendere i soldi?

Insomma, che fosse dura lo si sapeva, ma in questi termini quanti hanno una reale possibilità di farcela? E che fare poi se sei nel limbo di eventuali altre condanne, e questa fase di vita libera potrebbe essere un breve intervallo tra una detenzione e l’altra? E tutto ciò solo perché la giustizia ha tempi biblici, che rendono qualsiasi progetto una fantasia… Ma il dramma è nel non riuscire ad immaginare un mondo diverso e possibile, perché la prima cosa che ti salta agli occhi, appena ti trovi fuori, è che non interessa niente quasi a nessuno di quei pochissimi che, in un mare di reati impuniti e di gente che, nonostante le condanne, in carcere non ci finirà mai, il loro conto con la giustizia lo pagano fino in fondo.

Con il dilagare delle dipendenze e i tentativi dello stato di combatterle dando addosso ai consumatori, si è creata una nuova categoria di persone, e sono proprio quelli che tra il cercare di curarsi e l’affrontare la propria situazione giuridica passano parte della loro vita con il prima e dopo carcere che si sovrappongono e, al di là della lunghezza delle pene, si trovano nella condizione di non poter progettare niente, perché neanche dagli archivi del Ministero degli Interni è spesso possibile sapere quanti processi si dovranno ancora affrontare.

 

 

Parlavo solo col televisore

Ho fallito tutto in poco tempo. La routine è devastante per uno che ha aspettato come me la libertà

 

di Flavio Zaghi

 

Si parla di difficoltà del dopo carcere, in redazione, questo sarà infatti poi anche uno dei temi di discussione con i ragazzi che entreranno qui per il progetto scuole. Se ne discute e ci si confronta, ognuno dice la sua e porta la sua esperienza, altri lasciano uscire un po’ come uno sfogo quello che poi è il desiderio di misurarsi al più presto con questa cosa. La mia esperienza è stata negativa, nel senso che ho fallito tutto in poco tempo, ritrovandomi con altri guai da aggiungere alla già corposa lista di cazzate commesse in tutta una vita. Sono uscito da qui in affidamento e ho provato a ricostruirmi un’esistenza in questa città. A Torino, città da dove provengo, non restava più nulla che valesse la pena di essere ritentato. Mi sono cercato quindi un lavoro e un alloggio, il lavoro era presso una cooperativa che aveva diversi appalti in varie aziende del padovano, l’appartamento era un monolocale, con un affitto da rapina, dove comunque non facevo altro che dormire.

Stipendio da fame quindi e orario di lavoro più lungo, con gli straordinari imposti dalla cooperativa che comunque mi erano necessari per non restare senza una lira dopo sole due settimane dal giorno di paga. Lavoravo all’interno di un capannone senza fine, uno di quei posti con le luci sempre accese, dove si entrava al mattino presto col buio e se ne usciva a sera tardi di nuovo col buio. La domenica la dedicavo quasi esclusivamente al lavaggio degli indumenti che mi servivano poi durante la settimana per lavorare. Dopo poco tempo ho deciso che così non potevo andare avanti, non avevo rapporti, non scambiavo quattro chiacchiere con una persona da tempo, non avevo una relazione e vedevo il mio ritorno alla libertà non più come una conquista, ma come un sacrificio continuo.

Decisi allora di cambiare lavoro e trovai in poco tempo occupazione presso un noto mobilificio della zona; l’ambiente di lavoro era decisamente migliore, ma di fatto ero molto più impegnato di prima. Tornavo a casa la sera e mi accorgevo di non avere costruito nulla, distrutto dal lavoro e neanche più la voglia di farmi da mangiare. Così iniziai a servirmi in un ristorante da asporto cinese più che altro per comodità, non certo perché io fossi un cultore di quella cucina, anzi, la odiavo, però non potevo certo andare avanti a pizza. L’ambiente di lavoro era fatto di apparenza e null’altro e le poche donne mie colleghe sopravvissute al business matrimoniale guardavano esclusivamente proprio queste cose: io che andavo a lavorare col motorino ero quindi tagliato fuori dal loro interesse. I pochi discorsi che mi capitava di sentire, così di striscio, vicino alla macchinetta del caffè, comunque non è che mi stimolassero poi molto, anzi, non vedevo l’ora di caricare il camion e di andare a consegnare mobili per restare fuori anche solo dagli sguardi che mi sentivo addosso. Non mi piaceva quello che stavo facendo e iniziavo a stancarmi di quella libertà fatta solo di lavoro e nient’altro: la sera dovevo essere a casa entro le ventidue per i controlli e al mattino in piedi prima delle sei per andare a consegnare e montare mobili.

La routine è devastante per uno che ha aspettato come me la libertà e magari con aspettative diverse da quello che stavo vivendo. Ci mancava poco che parlassi col televisore e mi stavano quasi venendo gli occhi a mandorla a forza di mangiare cinese. Il problema che iniziavo a sentire ma che non ho valutato a dovere era proprio quello delle relazioni: se una persona non si relaziona non vive. Se una persona non vive dei sentimenti si inaridisce e il suo dolore può sfociare in comportamenti sbagliati, la solitudine ha un ruolo devastante e ti chiude gli spazi di vita semplici, in cui si può anche solo parlare con un amico di cui ti puoi fidare. Non potevo certo andare a confidare ciò che stavo provando e vivendo al mio capo, non potevo mettere a conoscenza quelle persone di una verità della quale provavo vergogna, persone nei confronti delle quali vivevo quasi un senso di inferiorità. Il patatrack era vicino e non me ne rendevo conto. Ho iniziato a frequentare qualche locale e conoscere persone alle quali del mio passato non poteva fregare di meno, da qui al fatto di tornare a commettere dei reati il passo è stato breve.

Tornarono quindi a girarmi i soldi in tasca e spesso avevo anche una donna che riempiva le mie serate, e che al mattino dopo spedivo giù dalle scale senza tante storie e spiegazioni. Una domenica mattina la sorpresa, vedo i carabinieri sotto casa mia, cercavano proprio me, ero finito in una vicenda poco piacevole che mi ha portato sotto processo e naturalmente mi ha fatto rientrare in carcere. Ho vissuto tutta questa storia come un totale fallimento e mi sono scontato tutta la condanna, più il resto, in assoluta apatia, fino all’ultimo giorno di galera. Avrei voluto costituirmi parte civile al processo, per tutta questa storia, altro che imputato, e spiegare queste cose, forse, chi lo sa, il giudice avrebbe capito e sarebbe stato un attimo più attento… almeno lui.

 

 

Il ritorno in carcere, un fallimento personale

Il senso di impotenza e di frustrazione che prova una persona alla quale è stato revocato, seppur a ragione, un beneficio

 

di Mauro Cester

 

Sono in carcere dal 1990 e ci sono entrato da incensurato. In questo istituto poi ci sono dal 1991 e circa un paio di anni fa, dopo un periodo in cui ho fruito dei permessi premio, sono stato ammesso al cosiddetto “trattamento extramurario”, che nel mio caso è consistito nella concessione della semilibertà, poi revocata. Parlo quindi con cognizione di causa perché, purtroppo, mi sono accorto, a mie spese, che la realtà tradisce le nostre aspettative, anche se non in tutti i casi, per fortuna. O forse noi non siamo in grado di affrontare adeguatamente le difficoltà che ci si presentano. Mi riferisco alla semilibertà o all’articolo 21, il lavoro all’esterno: in un solo anno, in questo istituto, sono state revocate tali misure ad almeno una ventina di detenuti, me compreso, per infrazioni alle “regole” del programma trattamentale al quale bisogna attenersi. Infrazioni che non porterebbero mai in carcere una persona libera, e bisogna tenere ben presente che solo pochissimi semiliberi rientrano per aver commesso veri e propri reati.

Solo nella sezione dove mi trovo io, nell’ultimo anno siamo stati “chiusi” in otto. Sia chiaro che la mia non è una testimonianza vittimistica, essendo io reo di ben due infrazioni al programma, ma se ci sono tante revoche significa che sicuramente qualcosa non va, a partire dalla nostra superficialità e dalle difficoltà che, personalmente, ho incontrato fin dal primo giorno in cui ho cominciato ad uscire. E se qualcosa non va, è meglio discuterne, e lo faccio parlando di me.

Dopo 13 anni di carcere, mi sono trovato in strada ad aspettare un autobus che quel giorno non passava, oppure mi è capitato di prendere quell’autobus in senso contrario, così, invece di andare a destinazione, mi sono ritrovato in stazione. Eppure non sono un imbranato: ho girato e guidato in mezza Europa, ma semplicemente non ho molta dimestichezza con i mezzi pubblici. Ed è difficile dover imparare tutto in fretta.

Sulla mia revoca è scritto che ho tradito la fiducia dei vari operatori. So benissimo che quando un detenuto viene “chiuso” dispiace un po’ a tutti, ma secondo me sarebbe importante conoscere anche come vive la revoca il detenuto stesso, che in fin dei conti, se non ha commesso reati ma “solo” un’infrazione alle regole di comportamento, ha fatto ben più male a se stesso ed a chi gli vuole bene che non alla società. Vi assicuro che il ritorno in carcere viene vissuto come un fallimento personale, per il quale si crea uno stato d’animo che rende tutto ancora più travagliato.

Mi è capitato che dopo 14 anni sono stato autorizzato ad andare un giorno al mare, e il pomeriggio seguente ero in una cella in isolamento. Dieci giorni in un buco infernale, senza niente, nemmeno il televisore. Vorrei che qualcuno mi spiegasse a cosa serve un tale trattamento, visto che, tra l’altro, un’accoglienza del genere non è mai stata riservata neppure a quelli che sono stati chiusi dalla semilibertà per aver commesso un reato. Parlando con gli altri ex semiliberi, mi sono reso conto che l’esperienza della revoca è vissuta ben peggio della fase dell’arresto, che dovrebbe invece essere la più traumatica.

Quando sono uscito ho fatto veramente il possibile per non fare ritorno in carcere, ma è stato inutile. A mio modo di vedere, i programmi risocializzativi spesso si rivelano scarsamente consoni a quelle che sono le vere esigenze dei detenuti, e quel poco che si è costruito attraverso anni di carcerazione può essere dissipato perché si viene trovati in possesso del cellulare o perché si è fuori percorso, solo per fare qualche esempio. Certo, non tutti i magistrati revocano una misura alternativa se capita che un detenuto non rispetti una prescrizione, ma succede che ci siano anche magistrati intransigenti e poco disposti a capire.

Durante la mia semilibertà, appena la mattina uscivo dal carcere per andare a lavorare, non mi era permesso neanche di passare da casa, casa che divido con la mia fidanzata che è una persona che non ha mai avuto a che dare con la giustizia. Eppure l’abitazione era inserita nel mio programma trattamentale come punto di riferimento, l’ho affittata appositamente vicino al carcere, con non poche difficoltà anche economiche, appunto per poterla utilizzare con meno problemi. Sono riuscito a trovare anche il lavoro nello stesso comune, ma non potevo rincasare neppure a mezzogiorno perché avevo il divieto di allontanarmi dal posto di lavoro per la pausa pranzo. Così, pur essendo a cinque minuti da casa, dovevo consumare un frugale pranzo “al sacco”, in uno stanzino-ripostiglio naturalmente non adibito a mensa, o il più delle volte standomene “comodamente” in piedi nel cortile dell’azienda. Quanti panini mi sono mangiato allungando l’occhio verso casa, pensando a chissà quale “tremendo” pericolo avrei potuto causare alla società nel percorrere quei pochi chilometri per andare a mangiarmi un piatto di pasta calda sul tavolo di casa mia…

A fine lavoro, invece, ero finalmente autorizzato ad andare nella mia abitazione. In quel momento, invece di provare serenità, finiva col montarmi l’insofferenza: “Perché ora sì e prima no?”, mi chiedevo sempre. I giorni festivi poi dovevo trascorrerli dentro. Per più di un anno sono andato avanti con questo sistema, poi ho acquistato o forse mi sono guadagnato una dose di libertà maggiore, ma sempre con canoni ben distanti da come noi detenuti immaginiamo le misure alternative prima di uscire, quando pensiamo che siano tutte rose e fiori. I benefici dovrebbero servire a farci tornare gradualmente alla libertà, quindi anche a farci ragionare come degli adulti veri e con un briciolo di autonomia, invece sembriamo degli automi che vanno a comando e che non sono in grado di gestirsi il benché minimo spazio.

Prima di uscire ero rimasto quasi stupito per le meravigliose qualità che gli operatori avevano scritto sulla mia sintesi, per il mio percorso meritevole di fiducia, per la responsabilità che avevo dimostrato in 12-13 anni di carcere. Mi ero impegnato ed avevo dato il meglio di me stesso per costruirmi quello straccio di “curriculum”. Non appena mi è stato revocato il beneficio… tutto azzerato, cancellato. Improvvisamente, e qui generalizzo, si rischia di essere considerati solo dei vigliacchi, degli ubriaconi, dei drogati, dei criminali, e la cosa peggiore sta nel fatto che, invece di cercare di capire quali possono essere state le difficoltà o i motivi della trasgressione, si viene ulteriormente penalizzati facendo venire meno qualsiasi fiducia.

Dunque mi viene da pensare che le informazioni sul detenuto non vengono stilate in base alle vere qualità di una persona, se poi succede che l’aver commesso un’infrazione alle prescrizioni viene percepito come una tragedia; eppure fuori, in libertà, senza con questo voler fare chissà quali paragoni, ho conosciuto ragazzini cosiddetti “modello” che, nella vita di tutti i giorni, avevano un comportamento da far rabbrividire anche il più sgamato degli operatori penitenziari… Un altro grosso problema deriva dalla lentezza con cui è possibile aggiornare o modificare un programma già stilato e oramai non più adeguato alle esigenze lavorative. Lavorando infatti per le cooperative che hanno appalti a Padova e provincia, o addirittura in altre città, accade che sia necessario recarsi in luoghi diversi. Questi luoghi devono essere comunicati tempestivamente al carcere dal datore di lavoro, ma le modifiche dell’orario e del posto di lavoro sono tutt’altro che tempestive.

Questo fa sì che possano nascere dei dissidi tra il carcere ed i responsabili delle aziende, che non hanno garanzie sulla disponibilità lavorativa della persona detenuta. Così iniziano a protestare con il carcere o il tribunale, magari fino al punto da pentirsi di aver assunto persone portatrici di tali problematiche. Alcune cooperative sono avvantaggiate perché collaborano con il carcere da anni, conoscono le dinamiche e presentano programmi standard che vengono accettati rapidamente, senza grosse difficoltà, ma se una persona detenuta si trova un lavoro per i fatti suoi, magari meglio retribuito o più adatto alle proprie capacità ed aspirazioni, può incorrere in questi problemi non facilmente gestibili né risolvibili.

Infine una riflessione tecnica: a chi viene revocata una misura alternativa per un’infrazione al programma trattamentale, non può essere concesso alcun beneficio per un minimo di tre anni, cinque se commette un reato. Naturalmente nella valutazione di una eventuale nuova concessione, che potrà avvenire solo una volta trascorsi tali termini, si andranno a ripescare sempre i lati negativi per i quali il beneficio era stato tolto. E sarà sempre più difficile ricostruirsi un percorso decente fuori dal carcere. La mia è solo una testimonianza di quali sono alcuni dei problemi e dei rischi di questa delicata fase tra carcere e libertà, con la speranza di non doverci incorrere più, e che ci siano sempre meno revoche o malcontenti.

 

 

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