Le prigioni degli altri

 

Quanto a detenuti, la Russia oggi è stata sorpassata dagli Stati Uniti

All’epoca dei gulag veniva imposto a tutti di dimenticare chi vi era rinchiuso, perché era prima di tutto un nemico del popolo ed andava eliminato anche dai ricordi. Oggi una persona che finisce nel circuito carcerario viene ancora considerata morta, e non ha nessuna possibilità di reinserirsi

 

a cura di Ornella Favero e Stefano Bentivogli

 

All’epoca dei gulag veniva imposto a tutti di dimenticare chi vi era rinchiuso, perché era prima di tutto un nemico del popolo ed andava eliminato anche dai ricordi. Oggi una persona che finisce nel circuito carcerario viene ancora considerata morta, e non ha nessuna possibilità di reinserirsi. Dopo il crollo del muro di Berlino sono avvenuti nei paesi dell’Est moltissimi cambiamenti, che hanno prodotto dentro le carceri della Russia situazioni completamente nuove, gestite però ancora secondo la cultura del vecchio regime sovietico. Ma i detenuti di oggi non sono più i nemici del popolo, bensì coloro che violano la proprietà privata che un tempo non esisteva, era essa stessa reato, come si diceva allora... un vero furto. Le nuove povertà, prodotte dalla liberalizzazione del mercato e dall’assenza di politiche sociali in grado di compensare gli squilibri, hanno stravolto le caratteristiche della popolazione carceraria.

Oggi la Russia divide con gli Stati Uniti il record del più alto tasso di carcerizzazione, dopo aver avuto per anni questo primato. Ma per quanto si cerchi di allentare il ricorso al carcere, le galere rimangono una realtà sempre più violenta e difficile da governare, per un personale ancora abituato alla gestione del vecchio regime, ma anche per una cultura, ancora dominante, dove la società abbandona e dimentica chi si macchia di un reato.

Ne abbiamo parlato con Ljudmila Alpern, membro dell’O.N.G. Moscow Center for Prison Reform, in visita in Italia per conoscere il nostro sistema penitenziario e quello di altri paesi europei. E abbiamo approfittato di questo incontro per capire qualcosa in più sul carcere russo, ma soprattutto su quale sia diventato il suo ruolo dopo il passaggio dal regime comunista a quello attuale, che si avvia a una rapida occidentalizzazione. E il paradigma che, dove l’economia nella distribuzione delle risorse allarga la forbice fra ricchi e poveri, il carcere si gonfia delle nuove povertà, si conferma nuovamente, in questo caso con un’aggravante, il vivere ancora l’influenza di una cultura che ha inventato il Gulag, il luogo dove si entra per essere dimenticati.

 

Come nasce la vostra O.N.G. e di cosa si occupa?

Il presidente di questa organizzazione non governativa, Valerij Abramkin, è uno che aveva fondato un giornale clandestino ai tempi di Breznev, e per questo è stato in prigione parecchi anni, poi con Gorbaciov è uscito e ha fondato la nostra O.N.G., dove lavorano circa dieci persone. Abbiamo diverse attività in corso: tra l’altro, una trasmissione radio per i detenuti, che è l’unica di questo genere ed è molto ascoltata. Sembra addirittura che il venticinque per cento della popolazione la segua, e questo perché, in realtà, la maggior parte delle famiglie ha o ha avuto qualcuno dei suoi membri detenuto in carcere. L’O.N.G. risponde a circa diecimila lettere di detenuti all’anno, lettere che arrivano da ogni parte della Russia. Oltre a queste attività realizziamo tutti quegli opuscoli informativi che possono servire ai detenuti per sapere come comportarsi, sia nella fase processuale, sia dopo, in carcere. In Russia oggi ci sono circa settecentomila detenuti, che in proporzione sono dieci volte di più che in Europa, siamo secondi solo agli Stati Uniti, ma fino a poco tempo fa eravamo i primi. Anche perché negli ultimi anni c’è stato un forte calo della popolazione detenuta: tre anni fa c’erano più di un milione di persone in carcere, poi con il varo di una serie di riforme, siamo scesi a settecentomila.

 

In che modo queste riforme e l’evoluzione del sistema politico hanno raggiunto l’obiettivo di una riduzione significativa del numero di detenuti?

La riforma che ha contribuito a questo calo coincide con l’inizio di una forte politica di depenalizzazione dei reati. Fino a tre-quattro anni fa, ad esempio, la maggior parte dei detenuti era in carcere per piccoli furti: grazie a queste nuove leggi, per questo tipo di reati sono state ridotte le pene. All’epoca di Gorbaciov e dei grandi rivolgimenti che la sua politica ha prodotto c’è stata una prima fase di aumento dei detenuti, a causa dell’instabilità economica, che ha fatto crescere molto la criminalità. Anche perché nel regime sovietico non esistevano i reati contro la proprietà, in quanto non esisteva la stessa proprietà privata. Quando è cambiato il regime politico ed è stato introdotto nel Codice penale questo tipo di reati, c’è stato naturalmente un grande incremento di condanne. All’inizio del duemila non si era pronti a questa crescita spaventosa, non si era in grado di sostenere né i costi né la gestione dal punto di vista politico, anche perché c’era già stata una forte pressione dell’Europa, che riteneva che il sistema penale, il numero dei detenuti e le condizioni di vita nelle carceri russe fossero veramente un disastro. A quel punto c’è stato un ripensamento da parte del governo, che si è reso conto che era necessario mettere mano ad una riforma.

Si può dire quindi che c’è stata una responsabilità diretta dei grandi cambiamenti del sistema economico sul fenomeno della diffusione dell’illegalità?

In Russia si è venuta a creare una situazione politica le cui conseguenze solo oggi iniziano ad essere visibili. Con la caduta del sistema comunista e con la liberalizzazione del mercato, quel meccanismo che garantiva un minimo di sostentamento a tutti all’improvviso non c’era più. A quel punto tantissime persone, che non erano dei criminali ma che non riuscivano a sopravvivere, si sono date all’illegalità. Un esempio è quello dei “senza fissa dimora”: l’impoverimento di molti e la perdita di alcune garanzie minime a livello economico ed abitativo ha creato anche da noi questo fenomeno che precedentemente era praticamente sconosciuto.

 

In che modo sono intervenute le prime riforme che hanno contribuito a un parziale “decongestionamento” delle carceri russe?

Quando è iniziata questa fase di riforma “in positivo”, ci si è trovati di fronte a tantissime contraddizioni, soprattutto perché il sistema processuale era rimasto molto legato al passato. È vero ad esempio che c’è stata questa depenalizzazione di diversi reati e che adesso ci sono meno persone con pene brevi in carcere, però in compenso ci sono molte persone con pene molto più lunghe di quello che dovrebbero essere. Il sistema processuale è ancora rigido, e ne è la prova il tempo medio di permanenza in carcere delle persone detenute, che è di sette anni. Il sistema giudiziario è veramente abbastanza complesso: si può stare in attesa di giudizio per sei mesi, però il periodo può essere prolungato. Ci sono poi due sistemi: uno dipende dal Ministero degli Interni, l’altro dal Ministero della Giustizia. Il più terribile è quello che dipende dal Ministero degli Interni, che corrisponde più o meno al vostro stato di “fermo di polizia”, solo che da noi possono tenere una persona “ferma” anche per un mese ed in questi casi neppure gli operatori della nostra Organizzazione possono entrare e visitare il “fermato”.

Da quello che si sa, lì avvengono pestaggi continui e spesso non viene neanche garantito un letto dove dormire. Praticamente le persone si trovano in condizioni disumane e senza alcun controllo: sono queste le situazioni per cui il “sistema carcere” russo è molto più criticato. Sarebbe una specie di carcere giudiziario italiano, le persone passano di là appena vengono arrestate, in attesa della valutazione da parte di un organo che sarebbe l’equivalente del GIP. Soltanto sette anni fa hanno incominciato a separare le competenze, prima dipendeva tutto dal Ministero degli Interni, e in tutte le carceri si vivevano situazioni disumane: pestaggi, violenze e altre cose del genere. Dal 1998 hanno dato il via a questa riforma separando le due situazioni, facendo così dipendere la reclusione dal Ministero della Giustizia, e da lì la situazione è cominciata a migliorare, per lo meno per quelli che sono già condannati ed hanno una pena da scontare.

 

Puoi spiegarci qualcosa di più su come sono organizzate le carceri russe?

Nella posizione che abbiamo equiparato allo stato di “fermo”, dove si può essere trattenuti anche per un mese, una persona ci si può ritrovare anche se è soltanto sospettata. Poi se invece viene condannata, non esistono le carceri come in Europa, cioè edifici con le celle, ma ci sono dei luoghi simili ai campi di concentramento, dei veri e propri lager, lontani dalla città, dove generalmente si svolgono dure attività lavorative. Queste colonie, come vengono chiamate, si dividono in quattro tipi: il primo è di regime comune, il secondo di regime duro, il terzo di regime particolarmente duro, il quarto è un sistema di galera con le persone sempre chiuse in cella, che in realtà sarebbe il posto per i condannati a morte. Ovviamente essendoci la moratoria sulla pena di morte, ci sono quelli condannati al carcere a vita. Quest’ultimo sistema, dove non c’è nessuna possibilità di contatto con il mondo esterno, è riservato alle persone considerate pericolose, come appunto i terroristi o coloro che hanno commesso più omicidi.

 

Nel caso ci si trovi di fronte a condannati ai quali viene riconosciuta una patologia psichiatrica, esistono trattamenti differenziati?

Per le persone afflitte da malattie mentali esistono degli ospedali psichiatrici dove una volta, al tempo del regime sovietico, erano rinchiusi prevalentemente i dissidenti, cioè i prigionieri politici. Se invece uno viene giudicato “non in grado di intendere e di volere”, viene portato in una struttura che non dipende più dal Ministero della Giustizia, ma dal Ministero della Sanità. Nel caso in cui una persona, rinchiusa in una colonia, dia segno di qualche squilibrio mentale, viene invece spostata in un Centro Clinico all’interno della colonia.

 

La pena, quando prevede la detenzione, viene scontata interamente in carcere o esistono possibilità di ridurla o di modificarne l’esecuzione con misure diverse dalla detenzione?

Dopo che ha scontato i due terzi della pena il detenuto può chiedere che il suo caso venga riesaminato e il tribunale potrebbe decidere di concedergli una specie di “scarcerazione anticipata”.

In questo nuovo giudizio viene preso in considerazione il comportamento del detenuto durante la permanenza in carcere. Parlare di buon comportamento del detenuto è comunque una questione molto complicata, per il fatto che si convive anche con cento persone in un unico ambiente. Quindi, da una parte ci sono le difficoltà che comporta una convivenza così numerosa, e dall’altra quello che è il complesso rapporto con la polizia penitenziaria. Rispetto a questo normalmente la “scarcerazione anticipata” si riesce ad ottenerla facendo la spia all’interno della struttura. Questo ha suscitato, specialmente nell’ultimo anno, delle grandi rivolte: a luglio c’è stata una rivolta in uno di questi lager dove circa quattrocento detenuti si sono tagliati e massacrati in vari modi, proprio per protestare contro questa situazione.

Una lotta, che l’organizzazione con la quale collaboro sta portando avanti, riguarda proprio questo aspetto della riforma, che è un retaggio del vecchio sistema sovietico, dove il collaborazionismo era uno degli elementi fondamentali per dividere i detenuti. Lì per lo meno c’era dietro un’ideologia, non che questo lo giustificasse, però l’idea era che tu facevi la spia per dimostrare che uno era nemico del popolo, mentre adesso il fare la spia è diventato puramente un veicolo per arrivare alla scarcerazione prima del fine pena.

Uno dei più grossi problemi è proprio quello di cercare di spezzare questo sistema. Dopo aver sentito parlare della mediazione penale, anche in Russia stanno pensando di portare avanti una sorta di mediazione all’interno di queste due realtà, cioè guardie carcerarie da una parte e detenuti dall’altra. Questo tipo di mediazione mira anche ad instaurare un confronto individuale tra detenuto ed istituzione, cosa che adesso risulta impossibile proprio a causa di questa convivenza fra centinaia di persone. L’idea è ormai quella di attuare una riforma che porterà ad un carcere più simile a quello europeo, cioè con celle di tre-quattro persone, solo che per arrivare a questo si dovrà prima trovare il sistema di ridurre la popolazione detenuta di dieci volte rispetto a quella attuale.

 

In che modo il lavoro fa parte del trattamento penitenziario nel vostro paese?

Il lavoro è obbligatorio, se ti rifiuti non puoi assolutamente aspirare alla scarcerazione prima del fine pena. Durante il regime sovietico, fino ad un terzo della produzione proveniva proprio dalle fabbriche all’interno delle carceri. Il lavoro resta comunque, dove c’è, obbligatorio e non ti puoi rifiutare di farlo, anche se è molto diminuito dopo la caduta del regime, ma rimane comunque rilevante l’attività delle donne che producono le divise per l’esercito. L’unica cosa che c’è dappertutto è la scuola, e se non hai la licenza media, sei anche obbligato a frequentarla.

 

Come è invece eseguita la pena nei confronti di condannati minorenni?

Dei settecentomila detenuti, cinquantamila sono donne e venticinquemila sono minorenni dai quattordici ai diciotto anni. Prima della riforma i minori erano quarantamila poi, con la depenalizzazione, il numero si è ridotto di molto. Di questi venticinquemila minori soltanto mille e cinquecento sono donne, il resto sono tutti maschi. In tutta la Russia ci sono sessantacinque istituti minorili, dei quali soltanto tre femminili. Il trenta per cento dei minori sono detenuti per reati lievi, il settanta per cento per reati gravi tipo omicidio. Una grossa percentuale di minori in Russia non viene seguita dai genitori, si tratta di ragazzi che vengono affidati, nella maggior parte dei casi, ad istituti che assomigliano più a dei lager che ad orfanatrofi. Ci sono un sacco di ragazzini cresciuti in questi istituti, conoscono ben poco della realtà sociale esterna, e di conseguenza i reati che commettono sono spesso molto gravi, proprio per questa incapacità di affrontare la realtà sociale normale essendo cresciuti al di fuori di questa.

 

E le istituzioni quali politiche sociali attuano per farsi carico di questi problemi?

Dopo la riforma non c’è stato alcun provvedimento per affrontare i problemi sociali, questo dipende anche dal fatto che al governo sono quasi tutti uomini che non si interessano di queste cose, non c’è un individualismo mitigato da politiche sociali, ognuno pensa per sé. Uno dei nodi irrisolti della politica rispetto alle carceri e al possibile reinserimento sociale ha origine nella nostra storia: prima della rivoluzione bolscevica, in Russia c’era una forte cultura di interesse ed attenzione, dettata anche dalla religione, verso le persone che avevano fatto del male. All’epoca dei gulag invece, con il regime sovietico, veniva imposto a tutti di dimenticare chi vi era rinchiuso, perché era prima di tutto un nemico del popolo ed andava eliminato anche dai ricordi.

Questa imposizione ha fatto arretrare di molto la cultura di riconoscimento della persona che ha commesso qualcosa di male e ha determinato una rottura di questo tipo di atteggiamento popolare, ed anche per questo ancora adesso è molto forte la politica di esclusione per chi ha commesso qualche reato. Oggi come oggi una persona che finisce nel circuito carcerario viene ancora considerata morta, e non ha nessuna possibilità di reinserirsi. Inoltre, nella situazione attuale, dove buona parte della popolazione ha problemi di sopravvivenza, fa proprio fatica ad arrivare a fine mese, si trovano ben poche persone disposte a fare qualcosa a livello di impegno nel sociale.

 

Attualmente su cosa si sta impegnando la vostra Organizzazione?

Noi abbiamo scelto due filoni da seguire: da una parte lavorare per portare avanti questa riforma del sistema penitenziario, dall’altra sensibilizzare la popolazione. Io poi mi occupo in particolare della condizione delle donne nelle carceri femminili, che è ancora più tragica, perché la struttura carceraria russa è concepita su un modello maschile e la maggior parte delle donne, durante la carcerazione, perde completamente l’identità femminile. Occorre sottolineare che l’unico finanziamento di cui disponiamo arriva da alcune Fondazioni private, lo Stato non stanzia assolutamente niente. Noi stiamo cercando di occuparci anche del reinserimento, specialmente delle persone che hanno problemi di tossicodipendenza, che è un fenomeno abbastanza nuovo rispetto a quello invece più tradizionale dell’alcolismo, ma il problema principale è proprio quello di reperire fondi. Un altro obiettivo che ci siamo posti è quello di tentare di avviare delle azioni di mediazione quando nascono conflitti tra detenuti e agenti, cosa che normalmente viene risolta con misure disciplinari. La conseguenza è però che il conflitto rimane, non viene risolto e, alla prima occasione, si riaccende, perché nelle condizioni in cui si trovano a vivere i detenuti, i conflitti sono molto frequenti, direi inevitabili.

 

In quale modo state provando a mediare i conflitti tra agenti e detenuti?

È stato fatto un primo esperimento abbastanza coraggioso, organizzando dei corsi per detenuti e agenti insieme, con il risultato che si è arrivati ad una reciproca accettazione dei diversi punti di vista dell’altro. Questo ha permesso di smuoversi da una certa situazione dove lo scontro diventava inevitabile e di riconoscere l’esistenza e la dignità gli uni degli altri. Dopo questi corsi si sono verificati dei grossi passi avanti nella convivenza e nel rapporto fra le due parti.

 

E gli affetti in carcere?

Nel nostro paese si può dire che da sempre sono permessi gli incontri intimi dei detenuti con i propri cari, anche se non così di frequente: praticamente ogni tre mesi le famiglie hanno diritto a ritrovarsi e a stare insieme senza i controlli visivi degli agenti.

 

 

La galera dei ragazzi russi

Sono venticinquemila i minori rinchiusi in carcere. E, adesso che anche in quei paesi c’è la ricchezza, tanti sono in galera per reati contro la proprietà

 

Dietro le testimonianze che pubblichiamo, raccontate da due adolescenti russi rinchiusi in carcere, ci sono storie di vita particolarmente dolorose: famiglie ridotte sotto i livelli della sopravvivenza, genitori che con la pensione non ce la fanno più, qualcuno che pensa che l’unica soluzione sia andarsi a cercare i soldi dove ci sono, cioè dai ricchi. Sono ragazzi giovanissimi, eppure nonostante l’età anche per loro in Russia c’è la galera, tanta galera.

 

Io mi trovo in carcere già da dieci mesi, e in tutto questo tempo non ho mai incontrato nessuno dei miei parenti o conoscenti. Per me la cosa più terribile è proprio quando sei privato della possibilità di vederti con i tuoi cari. Io non ho questa possibilità perché la situazione economica della mia famiglia non è affatto buona. Ed è proprio per questo che anch’io mi trovo qui. Io so che mio padre e mia madre darebbero tutto per farmi tornare a casa, o almeno per vedermi, ma è un problema di soldi. I mie genitori non sono alcolizzati, non sono ubriaconi, e tanto meno drogati. Sono semplicemente dei pensionati, vivono della sola pensione e non hanno modo di avere più soldi, e devono anche mantenere la nonna, me e mio fratello. La nostra è una famiglia grande, siamo in tredici, e poi ci sono anche i più piccoli, i miei nipotini, ed è per le condizioni di miseria in cui viviamo che sono andato a rubare.

Ed ecco che davvero la sofferenza più intollerabile per me è che, quando ti privano della libertà, ti separano anche dalle persone che ami, e che non puoi più neppure aiutare. Certo, la nostra legge è severa, ma io di questo non mi lamento. Quando uscirò di qui, non andrò più a rubare, ma cercherò di lavorare, e di dare una mano così alla mia famiglia. La cosa più tremenda è che io mi sono accorto da quando mi trovo qui rinchiuso che non posso stare senza i miei cari, e ho capito quanto li amo. Spero che almeno la metà dei ragazzi rinchiusi in carcere provino verso la famiglia questi stessi sentimenti.

Sergio

 

Ogni sera, mentre sto per addormentarmi, io prego: “Signore, fa in modo che io possa sognare la libertà”. Ma poi invece sogno e sogno la galera: le zone a grande sorveglianza, il filo spinato, le sbarre… Poco tempo fa mi sono sognato di mia madre. Ma di nuovo tutto avveniva in galera: ecco, lei viene a colloquio, mi chiamano, io corro e corro: chiavistelli, lucchetti, guardie… Poi queste zone controllate a vista finiscono, e io abbraccio mia madre e la mia sorellina. Mia madre sta per darmi una tavoletta di cioccolata, ma mia sorella la afferra, la scarta e se la mangia. Io mi arrabbio e la sgrido con parole forti... è terribile, perché io quando ero libero non ho mai alzato la voce con lei.

Qualche volta poi mi sogno mia madre che piange e mi dice: “Sono ammalata…”. “Mamma”, la scongiuro io, “non ammalarti. Mamma, non andartene”. Ma mia madre se ne va. Quando faccio questo sogno, poi mi sveglio in lacrime. Di sogni ne faccio tanti altri, ma prima di dormire ogni sera prego: “Signore, fa che a casa mia stiano tutti bene, fa che mia mamma non si ammali… Signore, fa che io non faccia più brutti sogni”.

Il’dar

 

 

Le carceri greche raccontate da un detenuto albanese

Telefonate più libere, colloqui autorizzati con qualsiasi persona, lavoro per tutti che ti regala anche sconti di pena: le galere di paesi più poveri del nostro forse hanno qualcosa da insegnarci

 

di Arqile Lalaj

 

Spesso accade che tra noi detenuti ci si scambi racconti di esperienze di vita per aiutarci a vicenda e rendere più vivibile la galera. Così ho pensato di fare una cosa utile raccogliendo la testimonianza di mio cugino, che è detenuto in un carcere della Grecia da quattro anni. Quando ci si trova a vivere in povertà, ogni luogo fuori del nostro paese diventa appetibile per andare in cerca di fortuna: noi albanesi almeno la pensavamo così dieci anni fa, e per questo adesso ci troviamo sparsi per tutta l’Europa. Tanti hanno fatto un po’ di fortuna e sono tornati a casa, altri si sono creati una nuova vita con un’altra famiglia, mentre altri ancora sono finiti in carcere, come me e come mio cugino. Essendo rimasto in contatto con lui, ho deciso di intervistarlo e, dato che in questi quattro anni ha girato diversi istituti, prima nel giudiziario di Atene, poi in un penale a Selanic e l’ultimo a Volasi, ho pensato potesse essere interessante conoscere qual è la situazione in quelle carceri. Gli ho spedito le mie domande e lui mi ha risposto con sollecitudine: devo confessare che quando ho letto la sua lettera ho avuto l’impressione che ci sia una grande differenza tra la Grecia e l’Italia, e per alcuni aspetti ho provato una certa invidia nei suoi confronti.

Lui può telefonare due volte la settimana, non solo ai suoi genitori, ma a chiunque desideri, e per tutto il tempo che vuole, mentre io per anni non ho potuto fare una telefonata. Al mio primo ingresso in carcere avevo provato più volte a chiedere di chiamare casa, ma non mi è stato concesso e questo mi è costato caro perché ero stato ferito ad una gamba dai carabinieri e, non potendo avvisare di persona i miei famigliari, loro hanno saputo la notizia del mio arresto e del ferimento tramite i giornali. In conseguenza di ciò mia madre ha avuto un attacco cardiaco ed è stata a lungo in ospedale. È chiaro che se, anziché in Italia, fossi stato in un carcere greco, forse a mia madre tutto questo non sarebbe successo.

Mio cugino mi ha raccontato dell’aiuto che danno i Pope (l’equivalente del cappellano in Italia) e i volontari a chi ha bisogno di qualcosa, mentre io, se non avessi i miei genitori che mi mandano i pacchi di vestiti da casa, a quest’ora probabilmente dovrei camminare scalzo. Dico questo perché, non so nemmeno io per quale motivo, dai volontari delle carceri in cui sono stato ho ricevuto pochi aiuti. Ho provato a fare delle “domandine” per parlare con loro, ma non mi ha mai chiamato nessuno, e in definitiva non ho proprio capito cosa si debba fare perché qualcuno ti dia retta.

Mi sembra poi incredibile, che in Grecia i detenuti possano avere in cella il frigorifero e acquistare lo stereo o il DVD, mentre a me invece hanno sequestrato il mangianastri solo perché il mio compagno, che è stato scarcerato in fretta, non ha fatto in tempo a scrivere la domandina per il passaggio di proprietà. Naturalmente quale detenuto italiano non vorrebbe scontare la pena in un carcere dove tutti possono avere un lavoro fisso, per il quale guadagnano anni di libertà? Per chi ha una pena lunga il lavoro può rappresentare un’ancòra di salvezza, perché, se uno ha una condanna a 10 anni e lavora, in Grecia non percepisce denaro è vero, ma alla fine sconterà meno di sei anni. Invece qui in Italia lavori per poco più di 200 euro al mese dai quali ti detraggono 52 euro per il mantenimento, e quasi 40 di fondo vincolato, e alla fine ti rimane ben poco.

Perciò, l’unica alternativa è quella di frequentare la scuola o qualche corso professionale, almeno così impari qualcosa. Forse invece il fatto che in Grecia gli ultimi due anni di carcerazione si possano pagare in denaro mi fa pensare un po’, perché per noi stranieri è difficile potersi permettere di pagare 13.200,00 euro per uscire prima, anche se in teoria non mi sembra una legge così brutta perché, oltre a non gravare sulle spese dei contribuenti, aggiunge ulteriori proventi alle casse dello Stato e, a chi ha sbagliato, fa risarcire il danno arrecato alla società.

 

Ecco la testimonianza arrivata dalla Grecia

 

Come avviene il fermo e qual è l’impatto con il carcere giudiziario in Grecia?

Dopo l’arresto si viene interrogati in presenza di un interprete. L’avvocato è fornito su richiesta. In caso di flagranza non è obbligatorio richiederlo perché te lo procurano per diritto. Entro 24 ore, il fermo è convalidato dal procuratore e si viene tradotti in carcere. Il trattamento riservato agli stranieri al momento dell’arresto è abbastanza corretto: è permesso avvertire i familiari o tramite il Consolato o con una telefonata. L’impatto con il carcere giudiziario è duro. All’ingresso, dopo essere stati sottoposti ad una visita medica approfondita, viene consegnata la fornitura di lenzuola, coperte e piatti in plastica. Poi si viene assegnati ad una cella molto piccola, dove non si sta tanto bene perché ci si trova a convivere anche con otto persone.

In Grecia in alcune carceri giudiziarie vi è un regime di apertura delle celle che dura quasi tutto il giorno, dalle 8 alle 11,30 e dalle 13,30 fino alle 18. Durante questo periodo di tempo si può andare al campo, in palestra, all’aria, oppure in sala giochi. Il problema è che nei giudiziari è difficile avere un lavoro, però si può frequentare la scuola oppure dei corsi professionali. Di solito, chi non ha un aiuto riceve visite dagli assistenti volontari oppure dal Pope del carcere che si incaricano di fornire vestiario e materiale di cancelleria.

 

Cosa avviene dopo la condanna definitiva?

Si è immediatamente trasferiti nel penale. Esiste una netta distinzione tra carceri giudiziari e penali. In questi ultimi le condizioni sono migliori, ed è tutta un’altra cosa. In cella si è in due e c’è il televisore, il frigorifero e, se vuoi, puoi acquistare a tue spese il DVD oppure lo stereo. In tutte le carceri penali vige un regime di apertura delle celle per tutto il giorno. Inoltre ci sono le scuole medie e superiori, i corsi professionali, corsi di lingue straniera. Chi non ha interessi per lo studio può sempre scegliere di andare a lavorare.

Nelle carceri greche possono lavorare quasi tutti, perché ci sono sempre imprese private che utilizzano la manodopera carceraria, soltanto che, invece di pagare il lavoro in denaro, lo fanno in sconto di pena, e per ogni anno di lavoro sottraggono nove mesi di detenzione. Sempre al penale, si possono richiedere colloqui con qualsiasi persona, basta fare la domandina tre giorni prima, inoltre si può telefonare dove e a chi si vuole e per tutto il tempo necessario. A ciascuno viene dato un codice segreto personale che si digita prima di comporre il numero che si desidera chiamare, il costo della telefonata viene poi addebitato nel proprio conto corrente e si possono ricevere chiamate anche dall’esterno. Durante il giorno c’è un numero del carcere da dove risponde un centralinista detenuto che avvisa l’interessato e gli passa la chiamata. Questa possibilità è stata creata apposta per favorire quei detenuti che non hanno fondi per telefonare, in questo modo sono i familiari a farsi carico del costo della chiamata.

Sempre nei penali, all’apertura dell’ora d’aria, tutti i detenuti hanno la possibilità di andare in un’apposita area dove c’è un bar che serve caffè, aranciata, cioccolata e generi vari. Il pagamento avviene tramite gettoni che si possono acquistare dall’amministrazione del carcere. Il vitto viene servito non in modo uniforme: in alcuni istituti il pasto viene consumato nelle mense, mentre in altri funziona come in Italia dove c’è il carrello col quale si distribuisce il cibo nelle celle.

 

Sono previsti benefici penitenziari?

Di solito non si fa differenza tra stranieri e cittadini greci. Appena si raggiungono i termini di legge, tutti possono accedere ad una serie di benefici: arresti domiciliari, permessi premio, semilibertà e detenzione in luoghi alternativi al carcere, come ad esempio nelle comunità. Il pericolo di fuga non è un elemento che viene preso in considerazione dai magistrati per valutare la concessione delle misure alternative, anche perché se lo straniero scappa, tanto meglio, pensano in molti. Chi si trova in carcere per la prima volta, qualsiasi reato abbia commesso e qualsiasi pena abbia preso, sconterà due terzi della pena, e poi uscirà automaticamente con la condizionale.

Per gli stranieri dell’Europa orientale, funziona anche l’estradizione, perciò se un albanese, rumeno, serbo o bulgaro vuole scontare la pena nel proprio paese, il governo greco ha firmato degli accordi che in pochi mesi permettono il trasferimento del condannato. Inoltre c’è anche un’altra forma di espiazione: esiste una legge che permette a chi ha scontato un periodo superiore ai due anni e ha un residuo pena inferiore ai due anni, di uscire dal carcere, convertendo la carcerazione in una multa corrispondente a 18,00 euro al giorno. Chi invece ha una condanna sotto i due anni, deve scontare almeno un terzo della pena per poi poter pagare il resto e uscire.

 

 

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