Le prigioni degli altri

 

Affetti in carcere. Notizie dalla Catalogna

 

A Grazia Zuffa, inviata della rivista Fuoriluogo, che gli chiedeva se i colloqui intimi siano concessi anche a persone dello stesso sesso, il direttore generale delle carceri della Catalogna ha risposto senza nessun particolare imbarazzo: "Perché no, abbiamo uno stato laico, anche se siamo un paese cattolico". Straordinaria risposta per noi, che in Italia un approccio, appunto, laico a questi problemi non ce lo sogniamo neppure. L’idea che ai detenuti siano concessi degli spazi intimi per i colloqui con i loro famigliari non piace per niente nel nostro paese, quindi non se ne parla, e tantomeno si parla del fatto che questa cosa è considerata "normale" in gran parte dei paesi d’Europa e non solo. In Spagna è dal 1991 che sono autorizzati i Vis a Vis intimi, ce ne spiega le modalità un ragazzo italiano detenuto in un carcere della Catalogna.

 

Vi scrivo dal Centro Penitenziario Ponent, a Lurida

 

In tutte le carceri della Catalunya i detenuti hanno diritto ai colloqui "normali", ma hanno anche la possibilità di sfruttare un certo numero di ore mensili, che variano da carcere a carcere, per stare con la propria famiglia, o con la propria donna. Nel nostro caso, a Lèrida, abbiamo 4 ore al mese che possiamo dividere in 2 "Vis a Vis" ( è così che chiamano questo tipo di colloqui) di 2 ore ciascuno, mentre il "locutorio", che è poi la cosiddetta comunicazione ordinaria, è di un’ora per volta e può essere sfruttata tutti i fine settimana, fino a otto volte al mese, e cioè un’ora al sabato ed un’ora alla domenica. (preciso che questo carcere è quello che concede meno ore fra tutte le carceri della Catalunya).

 

Le strutture per i colloqui sono così collocate

 

Vis a Vis: a lato del "Modulo di ingresso", all’entrata del carcere, c’è una piccola struttura composta da alcune stanze, ognuna con porta di sicurezza, che sono adibite a "Vis a Vis familiare" o "Vis a Vis intimo"; nelle stanze per il Vis a Vis familiare ci sono i tavoli, sedie ed il bagno completamente arredato ed ovviamente separato dalla stanza, ma comunicante. Nel Vis a Vis intimo invece del tavolo c’è il letto matrimoniale.

La sala colloqui è dalla parte opposta ed è il classico "locutorio" che si vede nei film, separato da vetri e con l’ufficio dei funzionari disposto in modo che con solo un’occhiata si possa vedere, ma non sentire, tutto. Si comunica con un microfono e degli altoparlanti.

Tutti i detenuti hanno diritto ai Vis a Vis, ed è ammessa anche la possibilità di aumentare le ore. Non sono richiesti requisiti di ammissione proprio perché il Vis a Vis è un diritto per tutti, ci sono esclusioni solo in caso di sanzioni molto gravi per ordine del direttore del carcere o con approvazione del Giudice di Vigilanza.

In questo carcere c’è un regime interno regolato da tre fasi; la fase uno e due dà diritto ad un minimo di due ore mensili di vis a vis, mentre la fase tre dà diritto a quattro ore di vis a vis.

Non pensate però che sia tutto rose e fiori perché non è affatto così; in estate qui fa un caldo infernale, la temperatura arriva ai 40 gradi ed oltre, le stanze del vis a vis non sono ventilate, quindi vi lascio immaginare il caldo. Al piano terra il vis a vis familiare è per 4 famiglie, tutti nella stessa stanza, il che vuole dire che potendo entrare quattro persone per ogni singolo detenuto ci si riduce a 20 persone tutte in una stanza, con più di 40 gradi e senza un minimo di intimità. Converrebbe, se possibile, fare sempre il vis a vis intimo, però alcuni di noi non sono né sposati né fidanzati, per di più in molti siamo stranieri, e dunque le difficoltà raddoppiano.

 

I colloqui "intimi" nelle carceri della Catalogna

 

La regione della Catalogna gode di una notevole autonomia anche in materia penitenziaria, poiché l’amministrazione carceraria dipende dalla Generalitat di Catalogna e non dal governo centrale.

Ai detenuti sono concesse visite "riservate" dei familiari, che non costituiscono un premio, ma un diritto per tutti i reclusi, anche per chi è in regime "chiuso" o in custodia cautelare.

La legge autorizza due visite al mese senza sorveglianza, una con la famiglia o con amici, l’altra, definita "intima", col coniuge o il partner. Ma ne sono autorizzate anche di più, se il detenuto non crea problemi. È considerato partner colui o colei che si presenta regolarmente ai colloqui ordinari, che hanno luogo ogni fine settimana. I colloqui vis a vis sono stati introdotti nel ‘91, e ne usufruiscono quasi tutti i detenuti. I vis a vis sono permessi anche fra persone dello stesso sesso.

 

di Federico Statizzi

Separazione tra genitori detenuti e figli sono forti
i rischi di un disadattamento sociale

 

Di questa separazione, e di cosa fare per renderla meno traumatica, abbiamo parlato con Alain Bouregba, direttore della Federazione dei Relais Enfants Parents

 

Alain Bouregba è direttore della Federazione dei Relais Enfants Parents e psicoterapeuta di professione. La sua qualifica professionale spiega già in partenza come funziona, in Francia, questa rete di sostegno ai figli dei detenuti: è un volontariato fatto anche di professionisti, che mettono a disposizione le loro competenze per aiutare le famiglie ad affrontare l’angoscia del carcere.

 

Può dirci com’è nata l’associazione "Relais Enfants Parents", da chi è stata fondata e come siete giunti ad una diffusione così capillare delle vostre iniziative a livello nazionale?

L’associazione è nata nel 1985 grazie ad una pedagoga che si chiama Marie France Blanco, che dal 1984 aveva iniziato a far visita ai detenuti del carcere di Fleury Mérogis, dove nello stesso contesto incontrava anche le madri dei detenuti. Questa donna ha avuto grandi riconoscimenti a livello internazionale, per cui l’Amministrazione Penitenziaria, anche se inizialmente in qualche modo la ostacolava, o per lo meno non la incoraggiava, con il tempo ha accettato di aprirle le porte. Per quanto concerne il grande sviluppo della nostra attività, nei 17 anni dalla nascita dell’associazione ci siamo "allargati" grazie alla volontà, alla caparbietà e alla tenacia dei volontari dell’associazione stessa.

 

L’Amministrazione Penitenziaria vi viene in aiuto economicamente in qualche modo? E con quali proventi sopravvivete?

Sopravviviamo con finanze proprie, e grazie all’aiuto di alcuni mecenati. L’Amministrazione non ci aiuta economicamente in alcun modo. L’unico aiuto che ci dà è quello di darci la possibilità di accedere negli istituti senza problemi. Nei primi anni della nascita dell’associazione si era anzi dimostrata piuttosto ostile, poi, capendo l’importanza del nostro lavoro, è diventata sempre più favorevole, permettendoci di operare con una certa serenità e collaborando con noi. Questo perché si sono resi conto del fatto che un detenuto che mantiene i legami affettivi è meno irrequieto, più sereno, e anche il comportamento carcerario di tutti ne trae beneficio. Si è notato, inoltre, che i detenuti che hanno legami affettivi sono più facilmente reinseribili nella società. Tutte le personalità del settore contattate e interpellate si trovano perfettamente d’accordo nel dire che un detenuto che ha conservato i legami familiari rischia in percentuale tre volte meno la recidività rispetto ad un detenuto, i cui legami familiari si sono spezzati, o sono inesistenti. Detto tra noi, visto il contesto, l’Amministrazione francese non ha scelta, considerati i buoni risultati ottenuti in questi anni. Infatti, è una necessità per lei stessa permetterci di operare.

 

Quali sono esattamente le finalità della vostra associazione?

È una domanda per la quale, se dovessi rispondere in modo esauriente, mi occorrerebbero delle ore, però cercherò d’essere sintetico ed esauriente: i nostri punti d’intervento sostanzialmente sono quattro. Organizzare interventi di gruppo o individuali presso i genitori detenuti. Accompagnare i bambini ai colloqui in prigione. Dare sostegno alle famiglie perché siano sincere, dicano la verità ai bambini. Infine, nostre équipes collaborano con consulenti specializzati nel settore dell’infanzia, in modo che i bambini, se lo chiedono, possano mantenere rapporti costanti con il genitore carcerato. Noi lavoriamo, con tutti i nostri 15 centri, solo per il bene dei bambini che hanno uno dei genitori in prigione. Per prima cosa l’associazione cerca di dare con ogni mezzo a sua disposizione un sostegno psico-affettivo atto a mantenere il legame tra i bambini e i loro genitori detenuti, in modo che la separazione non venga vissuta come un abbandono. Perché, se invece la separazione è vissuta davvero come un abbandono, sono forti i rischi di un disadattamento sociale. Noi interveniamo in diversi modi, anche accompagnando i bambini a trovare i genitori, cosa non sempre facile ma importantissima, se si pensa che alcuni bimbi vengono presi dal panico al solo pensiero di entrare in carcere. Poi vi sono alcune madri che rifiutano che i bambini incontrino i padri, dunque ci sostituiamo a queste madri e accompagniamo i bimbi presso i padri detenuti. Altra nostra missione è rendere accettabili e piacevoli i locali adibiti ai colloqui tra i figli ed i padri o le madri detenute, in modo che i loro incontri si svolgano in un ambiente gradevole e non traumatizzante.

Altra finalità è quella di sostenere i genitori quando si sentono disorientati dalle riflessioni e domande dei loro figli. Ma capita anche che i figli rifiutino questa situazione e anzi dicano di non volere più entrare in carcere ad incontrare il genitore.

Il nostro lavoro è immenso, ci siamo talmente allargati ed abbiamo tanti partner da considerarci quasi una federazione. Non vi annoio dandovi i nomi di tutti i nostri partner, però posso accennarvene alcuni molto attivi e che ci favoriscono: oltre alla direzione dell’Amministrazione Penitenziaria, c’è la direzione dell’Azione sociale; il Servizio dei Diritti delle Donne; siamo in contatto con Eurochips come con la F.A.R.A.P.J. (Federazione delle Associazioni di Riflessioni, Azioni, Prigione e Giustizia), e molti altri ai quali ritengo superfluo accennare. Comunque voglio dirvi che oltre ai detenuti francesi, ci stiamo attivando anche nell’Unione Europea in concomitanza con altre associazioni europee, canadesi, americane, per fare qualcosa per i detenuti stranieri ristretti in territorio francese.

È molto importante che un’associazione come la nostra lavori a livello europeo, infatti, a Parigi come in tutta la Francia, vi sono detenuti italiani, spagnoli, portoghesi, africani, come di molte altre nazioni. Per questi detenuti, vista la lontananza dalle loro famiglie, non è certo possibile mantenere fisicamente nessun tipo di relazione, dunque, chiedendoci come fosse possibile sopperire a questa carenza, stiamo spingendo in qualche modo la Commissione europea ad autorizzare i detenuti, oltre che ai contatti telefonici, a un tipo di contatto e relazione diversa, attraverso Internet. Noi pensiamo sia una buona strada da seguire, nonché un punto importante e diverso nel rapporto affettivo.

 

Quanti centri ha attualmente la vostra associazione?

Abbiamo 15 centri sparsi nel territorio francese, raggruppiamo oltre 600 volontari diretti da circa 70 professionisti i quali, interscambiandosi, assicurano una presenza costante e attiva.

 

I 15 centri dell’associazione coprono tutto il territorio francese?

Purtroppo no, siamo totalmente assenti nell’est della Francia.

 

Come mai? L’est della Francia sembra sordo e disinteressato al problema delle famiglie dei detenuti?

No, il problema, dal mio punto di vista e dall’esperienza sul campo, è forse più semplice. Tutte le associazioni al loro inizio hanno bisogno di una persona dinamica che faccia un po’ da locomotiva, però, se succede che queste persone vengono a mancare, non si riesce a lavorare decentemente.

 

Ma questa carenza dell’associazione in tutto l’est della Francia non è che possa essere dovuta al fatto che in quelle regioni c’è una mentalità più rigida e meno capacità di associarsi in modo da sensibilizzare il mondo esterno su un tema così delicato?

No, non credo che questo problema sia legato al contesto culturale di queste regioni dell’est, infatti nella vicina Germania ci sono molte associazioni che operano in questo contesto, e l’Amministrazione Penitenziaria tedesca è molto favorevole e sensibile al contesto affettivo dei detenuti. Infatti sappiamo che hanno aperto in molte località detentive quelle che loro chiamano "case aperte" (sempre nell’ambito del territorio controllato dagli istituti penitenziari) per le coppie come per l’incontro tra genitori e figli, in modo che il rapporto affettivo rimanga integro.

 

Visto che lei parla delle case aperte dell’Amministrazione Penitenziaria tedesca, vorremmo capire che cosa succede a questo proposito in Francia. Abbiamo saputo che vi sono alcuni istituti di pena che permettono incontri intimi tra detenuti e famigliari: potrebbe spiegarci un po’ meglio come funziona questa sperimentazione?

Sì, la vostra informazione è esatta, infatti in tre case di pena, tra le quali una sarà sicuramente sita nell’Ile de Ré, sta iniziando un’esperienza di questo tipo: metteranno a disposizione degli appartamenti di tre stanze più servizi, dove il detenuto potrà ricevere la sua famiglia nella più completa intimità per la durata di 48 ore ininterrotte.

 

Per quel che riguarda la logistica e il vitto per le 48 ore in questione, se ne occupa la famiglia stessa del detenuto o se ne occupa l’Amministrazione Penitenziaria?

Da quanto mi è dato sapere è la famiglia che deve provvedere durante le 48 ore d’intimità.

 

Come ha fatto l’Amministrazione Penitenziaria francese a giungere alla concretizzazione di tale esperienza?

La Francia si è ispirata ad un’esperienza canadese!

 

Questa esperienza è in atto solo nel Canada francofono del Quebec o in tutto lo stato canadese?

Effettivamente le prime esperienze riguardanti l’affettività dei detenuti sono state fatte nel Quebec, poi, visti i buoni esiti ottenuti, si sono estese al resto del Canada. I detenuti incontrano le loro famiglie nella più completa intimità all’interno di prefabbricati, siti nel perimetro degli istituti di pena, per tre giorni consecutivi. Spero che presto anche l’Amministrazione Penitenziaria italiana giunga ad essere sufficientemente sensibilizzata, acquisendo un grado di civiltà tale, da concedere ai propri detenuti questo diritto. Dal mio modesto punto di vista, se una persona sbaglia è giusto che la società la punisca, ma la carcerazione dovrebbe essere solo la privazione della libertà e non anche la privazione degli affetti più intimi.

 

Lei è giunto da Parigi per partecipare a questa giornata sull’affettività, con un intervento molto importante sul ruolo dei padri detenuti. Per concludere vorrei allora chiederle di esprimere il suo pensiero su questa giornata.

 

È stato semplicemente favoloso. Sono rimasto piacevolmente sorpreso nel costatare che un simile evento, d’importanza e partecipazione nazionale, si sia tenuto all’interno di un istituto di pena. Dico questo perché, a quel che ne so, in Francia non sarebbe possibile attualmente neppure immaginarlo. Non è un fattore di regolamento, almeno credo, ma da quanto mi è dato conoscere sarebbe impensabile per la mentalità francese far partecipare un così alto numero di detenuti, come ho visto qui nel carcere "Due Palazzi" di Padova, a delle iniziative di carattere culturale, sociale, scientifico, addirittura dove si propone anche una proposta di legge da presentare al Parlamento, sulla base di una disponibilità a sostenerla già espressa da molti politici di più schieramenti. Tutto questo mi dà un sentimento molto positivo e di speranza per il futuro dell’affettività carceraria italiana. Con l’occasione voglio pubblicamente ringraziarvi non solo per avermi invitato a partecipare come relatore a questa Giornata di Studi sull’affettività, ma per l’impegno con cui è stato organizzato questo evento, e vorrei anche complimentarmi con tutti i detenuti interessati in più modi a questa giornata, per il lavoro, le proposte e la serietà e partecipazione dimostrati.

 

A cura di Renzo Pampalon

Un piccolo appartamento è il luogo dell’affettività
per i detenuti del Canton Ticino

 

Ne abbiamo parlato con Serafino Privitera, responsabile della formazione del personale nel carcere di Lugano

 

Nel Canton Ticino gli incontri "riservati" tra i detenuti e i loro famigliari sono consentiti fin dagli anni 80. Con l’introduzione di questa possibilità avete avuto un miglioramento della vita detentiva (meno conflittualità, meno disordini nelle sezioni, meno atti di autolesionismo)?

In Ticino c’è stata senz’altro un’evoluzione positiva da quando il carcere si è aperto verso l’esterno, con i "congedi ordinari", ma anche con possibilità dei "congedi interni", pensati soprattutto per gli stranieri che non hanno legami col territorio, mentre per gli svizzeri e i ticinesi è più facile ottenere i congedi ordinari e trascorrerli in famiglia.

Del resto, tutti i paesi firmatari della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo sono aperti a queste forme di affettività, anche se, per motivi legati alla sicurezza e all’ordine interno, è impossibile far accedere all’interno dei penitenziari, tutti i giorni, le mogli dei detenuti.

 

Questi "congedi ordinari" si possono ottenere con relativa facilità, da quanto ci dice…

 

Certo, perché la prassi è di concederli a tutti, eccetto che alle persone pericolose per la società. Nei penitenziari svizzeri gli stranieri sono l’80% anche perché gli svizzeri ed i ticinesi sono facilitati dalla legge e raramente vengono incarcerati. Uno svizzero, se commette un reato, può anche scontare la pena a casa propria, sempre che non sia pericoloso per la società.

 

Restituire alla società una persona migliore è un "investimento" che porta benefici per tutti: nel vostro sistema penale e penitenziario quanta importanza viene data alla cura degli affetti dei detenuti, anche mediante il sostegno alle loro famiglie (gruppi di auto - aiuto, associazioni, riunioni nelle quali vengono coinvolti i familiari, sussidi economici)?

Nell’ambito dei Servizi sociali abbiamo i Servizi cantonali di aiuto familiare, che aiutano veramente la famiglia, la aiutano molto concretamente. Non so, per farle un esempio, una madre il cui marito si trova in penitenziario può fare la richiesta al Dipartimento delle opere sociali (adesso è chiamato Dipartimento della socialità e della sanità), e riceve un sussidio che può arrivare fino a 3.400 franchi, che sono circa quattro milioni delle vecchie lire, quindi 2.000 euro.

 

La maggiore attenzione dedicata al mantenimento dei rapporti affettivi avrà certamente fatto sì che le famiglie si disgreghino più difficilmente, ma avete riscontrato dei risultati positivi anche in termini di diminuzione delle recidive?

Sì, questo lo abbiamo notato soprattutto negli ultimi dieci anni, da quando abbiamo dato queste possibilità ulteriori di contatto con le famiglie. Ripeto, i congedi interni sono pensati soprattutto per gli stranieri espulsi, abbiamo già superato il problema di dover agevolare i detenuti svizzeri perché questi hanno la possibilità di ottenere i congedi ordinari, quindi escono dal carcere e vanno a casa loro.

 

Se la famiglia rimane più unita, così da sostenere meglio il detenuto, lo responsabilizza anche, in un certo senso…

 

Certo. In questo senso il Consiglio federale ci ha dato la possibilità (non solo nel Ticino ma anche in altri quattro cantoni) di sperimentare la carcerazione domiciliare con l’utilizzo del braccialetto elettronico e, finora, questa è un’operazione riuscitissima. I condannati che hanno una pena massima di sei mesi la scontano con questo braccialetto elettronico, che è della grandezza di un orologio. Poi abbiamo una pena che i francesi chiamano la semi-detenzione e le pene fino ad un anno possono essere scontate in questa forma: il condannato di giorno va a lavorare, mentre di sera rientra in strutture di detenzione aperte, che si trovano all’esterno del corpo principale del penitenziario.

 

In Italia l’ipotesi di permettere l’affettività in carcere è per lo più trattata con ironia dai mezzi di comunicazione: la definizione di "stanze del sesso" viene spesso utilizzata per suscitare scandalo e non si pensa alle reali intenzioni di una misura che dovrebbe veramente rendere rieducativa la pena. In Svizzera, cosa succede, Qual è l’atteggiamento dei "media" di fronte al tema dell’affettività per i detenuti?

È pienamente accettata, è una cosa normale e se ne parla senza alcuna ironia, o malizia. Noi abbiamo, di solito, una comunità detenuta che oscilla tra le cento e le centotrenta presenze, anche se attualmente c’è stato un calo e abbiamo circa novanta persone recluse. È quasi una famiglia, ci si conosce tutti e l’affettività è accettata da tutti senza problemi, non ho mai riscontrato nessuna ironia su di essa.

 

E il personale di custodia che atteggiamento ha? È stato adeguatamente formato e sensibilizzato su questo argomento?

Questa questione è accettata anche da parte del personale. Il personale lo formiamo direttamente nell’istituto, con un corso della durata di un anno: sei mesi di teoria e sei mesi di pratica. Durante i sei mesi di teoria vengono impartite lezioni sulla cultura carceraria in generale, quindi anche sulla conoscenza e accettazione di queste forme di recupero sociale ed anche affettivo; ma il personale deve accettarle anche perché sono previste, da una legge e da un regolamento interno. All’inizio, è chiaro, si era un po’ titubanti ma poi, col passare degli anni, è diventata normalità.

 

Quanta discrezionalità ha, il direttore, nell’autorizzare o meno i congedi interni, visto che nel vostro regolamento si dice che vengono concessi "nei limiti del possibile"?

"Nei limiti del possibile", appunto, i congedi interni vengono concessi a tutti i detenuti che ne hanno diritto. Di regola si svolgono in una casetta, situata all’esterno del perimetro di alta sicurezza ma comunque annessa al penitenziario.

 

Come sono fatte queste "casette"? Si tiene conto del rispetto della privacy, soprattutto per i familiari che vi accedono?

Certo, per forza! Il detenuto viene accompagnato, con una macchina dello stato, all’esterno del perimetro di alta sicurezza e, quindi, alla casetta. Se vuole può consumare il pasto del penitenziario, oppure la moglie può portare dall’esterno i cibi e cucinarli all’interno della casetta. C’è un camino, una cucina, una camera da letto, una doccia: è un piccolo appartamento.

Naturalmente c’è un agente, addetto alla sorveglianza, ma deve stare ad almeno quindici metri dalla struttura, quindi non vede all’interno, loro sono completamente soli. Però questi incontri non sono pensati soltanto per avere dei rapporti intimi, ma più in generale per tenere saldi gli affetti. Possono arrivare i figli e, quindi, mangiare insieme al papà: in particolare questa è un’esperienza estremamente positiva, tanto è vero che è molto richiesta.

 

Le richieste dei detenuti (che ne hanno diritto) possono essere sempre soddisfatte o esistono problemi di accesso alla casetta per l’eccessivo numero di richiedenti?

Non abbiamo mai avuto degli accavallamenti tra l’uno e l’altro nucleo famigliare, perché solo ogni due mesi viene considerata una nuova richiesta, quindi c’è una rotazione: nell’arco di un anno vengono autorizzati circa 140 incontri, tra colloqui gastronomici e congedi interni.

Inoltre chi fa la richiesta deve aver scontato almeno due anni, oppure, a discrezione del direttore, almeno diciotto mesi. È chiaro che il direttore esercita questa discrezionalità, per il periodo di carcerazione dei sei mesi, e solo in questo arco di tempo l’ottenimento dei congedi è legato al comportamento del detenuto.

 

Le istituzioni del Canton Ticino promuovono interventi sul territorio per favorire il reinserimento dei detenuti? Dopo la remissione in libertà, che ruolo hanno i servizi sociali? Esiste un’interazione tra "pubblico" e "privato", ad esempio con la creazione ed il coinvolgimento delle cooperative sociali?

Provvede principalmente lo Stato, attraverso l’Ufficio di patronato, che si incarica anche di aprire strutture e servizi al di fuori del penitenziario per dare lavoro agli ex detenuti. Però ci sono anche altri servizi, di tipo privato o promossi dal volontariato.

 

A cura di Marino Occhipinti

 

 

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