Parliamone

 

Gli incontri con i familiari che non permettono nessuna intimità

 

I colloqui, i banconi coi divisori che sopravvivono. Ne abbiamo parlato con Alessandro Margara, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze

 

Nel 1998, da direttore del DAP, lei collaborò alla preparazione del nuovo Regolamento Penitenziario. Nella prima stesura erano previste importanti innovazioni anche per quel che riguarda il rapporto dei detenuti con le famiglie, novità quasi scomparse nel testo definitivo. È rimasto soltanto l’ordine di togliere i banconi dalle sale – colloqui e, oltre tutto, in diverse carceri i divisori ci sono ancora. Com’è possibile che ogni istituto applichi il Regolamento alla propria maniera?
Il fatto è che mezzi divisori sono ancora previsti, quando esistano ragioni sanitarie o di sicurezza: ne parla il quinto comma dell’articolo 37. Tutte queste "prudenze" in tema di sicurezza nascevano in un sistema nel quale dovevamo tener conto che questo Regolamento riguardava anche l’Alta Sorveglianza, quindi lo stabilire che tutti i colloqui dovessero essere fatti senza mezzi divisori rendeva poi difficile passare lo stesso tipo di regime a tutte le situazioni di Alta Sorveglianza.

Questo non vuol dire che in tutte le sezioni di Alta Sorveglianza i colloqui si svolgano con i divisori, ma solo quando vi siano ragioni di perplessità sull’uso che la persona potrebbe fare di certe agevolazioni. Tra l’altro ci fu un periodo in cui successero degli episodi, nel 41 bis, come l’uso di un telefonino e, in Alta Sorveglianza, ci fu il caso del detenuto che aveva suggerito alla moglie il modo per farlo evadere. Effettivamente, l’escludere totalmente che per ragioni di sicurezza ci dovesse essere di nuovo un mezzo di separazione era veramente un po’ difficile.

 

Ma nell’articolo 37 si dice pure che, nelle sale colloqui, i mezzi divisori devono essere utilizzati soltanto in casi eccezionali. Invece sembra che in diversi istituti questa sia la norma e non l’eccezione… mi hanno appena raccontato che a Rebibbia hanno sostituito il bancone con dei tavolacci di uguale larghezza, che non possono essere superati…

 

In molte sale colloqui, in effetti, hanno rimosso solo il vetro che c’era sopra il bancone ma la separazione di fatto rimane. La regola vorrebbe che i banconi fossero levati, non si può tenere il parlatorio com’era prima giustificandosi con il fatto che il Regolamento preveda questa eccezione. Va attrezzato per dei colloqui che si devono svolgere con modalità diverse. Per quando c’è davvero bisogno dell’eccezione si stabilirà qualcosa: ora, se questo "qualcosa" debba essere un tavolaccio, o qualcosa d’altro, rientra nella flessibilità e nella sensibilità che hanno gli operatori.

 

Secondo lei com’è possibile conciliare l’esigenza di avere dei colloqui più "umani" con quella di garantire il rispetto delle regole del carcere?

Che i colloqui possano essere transiti di cose che non dovrebbero entrare, è abbastanza chiaro e realistico; che siano un alibi perché entrino, per altre vie, le stesse cose, è pure chiaro e risaputo. Certamente si potrebbe ribadire quello che già mi sembra chiaro, almeno da un punto di vista logico: che in riferimento alla sanità (il che è pacifico) e alla sicurezza (che è già meno pacifico) debba essere richiamata l’eccezionalità di questi interventi.

Poi, un’amministrazione che voglia evitare problemi è bene chiarisca anche quelle che sono le modalità eccezionali del colloquio, cioè che dica chiaramente "se" e "quando" debba esserci una separazione netta, che impedisca il compiersi di quello che è sospettato… perché se si procede in modo eccezionale vuol dire che ci sono dei sospetti verso quel determinato soggetto. E, allora, l’amministrazione deve essere chiara su questo, facendo una circolare, sennò tutto è rimesso all’iniziativa del singolo e… tanti saluti.

 

Quello che crea maggiore disagio ai detenuti non è la sorveglianza sul possibile passaggio di oggetti proibiti, quanto piuttosto gli impedimenti allo scambio dei più naturali gesti di affetto. Poco ci manca che venga proibito l’abbraccio con i famigliari…

In certe situazioni, effettivamente, si arriva a fare delle valutazioni del gesto affettivo, se superi o meno certi limiti d’opportunità, o di decenza. Anche questa è una valutazione che, rimessa a un singolo che guarda e che ha, in quel momento, il compito di controllare, può tradursi in tutti i risultati immaginabili. Mettere una mano sulla spalla, fare una carezza, dare un bacio, per qualcuno può essere un normale gesto affettivo e, per qualcun altro diventa chissà che cosa…

Per evitare queste diverse interpretazioni andrebbe detto chiaramente che certe cose non sono irregolari, ad esempio che toccarsi è permesso, ma poi sarebbe anche da definire in quali zone ci si può toccare e in quali non si può (risata… divertita).

 

Con l’iniziativa di questa Giornata di Studi sul tema "Carcere: Salviamo gli affetti" vogliamo rilanciare il dibattito sull’affettività per le persone detenute. Secondo lei riusciremo a ottenere il riconoscimento di questo diritto?

Io sono ancora dell’idea che questo si poteva fare, a suo tempo, con il nuovo Regolamento di Esecuzione. Probabilmente quel progetto è stato scartato per una scelta politica, perché se fosse stata una scelta giuridica inoppugnabile l’avrebbe sollevata l’Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia. Invece l’ha sollevata il Consiglio di Stato, con una valutazione un po’ politica e un po’ giuridica… insomma, non avevano il coraggio di adottare quella soluzione in concreto e subito.

Perché è vero che ci sono dei grossi problemi per rendere possibili gli incontri affettivi, che mancano le strutture, la preparazione culturale del personale, etc., ma queste sono cose sempre fattibili, una volta che c’è una norma a cui doversi adeguare. Insisto a pensare che il riconoscimento del diritto all’affettività per i detenuti dovrebbe risultare abbastanza semplice da un punto di vista culturale e, quindi, anche sotto il profilo politico.

Ne sono convinto perché quando si studiò questa possibilità si vide che era già prevista da anni in regimi culturalmente anche molto lontani da noi: dall’Iraq, all’Armenia, all’Albania e, in Europa Occidentale, dall’Olanda alla Spagna. Possibile che noi si debba sempre essere in ritardo? sempre nella situazione di dover recuperare un distacco in termini di civiltà?

Il filone giusto, però, è sempre quello di riuscire a pensare che un carcere in cui si riconoscono spazi di vivibilità più ampi sia migliore, più gestibile, rispetto a quello in cui s’impone l’autorità e il controllo asfissiante.

 

Qui subentra un altro problema, perché se l’esercizio dell’affettività diventa una misura premiale, anziché essere un diritto riconosciuto a tutti, creiamo un ulteriore strumento di controllo e un elemento di discriminazione in più…

 

Il progetto del nuovo Regolamento, così com’era impostato, superava questa obiezione, almeno dal punto di vista logico, se non da un punto di vista reale. Nel primo progetto di riforma era prevista la cosiddetta progressione nel trattamento, quindi la possibilità di avere degli incontri affettivi dipendeva da come si sviluppava il trattamento, questa cosa che in qualche modo la struttura deve all’interessato, al detenuto, che poi è il destinatario di tutta l’attività della struttura.

Una selezione in base alla correttezza del comportamento non era prevista anche se poi, nei fatti, è probabile che ci sarebbe stata ugualmente.

Bisogna anche dire che sarebbe stato molto più difficile presentare un diritto all’affettività che fosse al di fuori del trattamento, mentre mettendolo all’interno di un "intervento scientifico" sulla persona si presenta meglio, è più ascoltabile anche per chi non conosce bene il carcere come lo conosciamo noi.

 

In questa ipotesi che cosa succederebbe ai detenuti giudicabili, per i quali non è previsto alcun "trattamento"? Quasi la metà dei detenuti presenti nelle carceri italiane è rappresentata da persone in attesa di giudizio… e non sarebbero contente se fossero escluse dal riconoscimento del diritto all’affettività!

 

Per i giudicabili si prevedeva, come accade per l’accesso al lavoro e ad altre cose, che vi fosse l’autorizzazione del magistrato e (richiamandosi all’articolo 15 dell’Ordinamento Penitenziario) che poi potessero avere un trattamento facendone loro stessi la richiesta. Quindi non ci sarebbe stata nessuna esclusione automatica dall’affettività, soltanto una prassi diversa per accedervi.

 

Riconoscere ai detenuti il diritto all’affettività rappresenta, in ogni caso, un passaggio culturale molto difficile. Che cosa si potrebbe fare per renderlo meno "indigesto" all’opinione pubblica e, di riflesso, al mondo politico?

Si potrebbe partire con una sperimentazione e prevedere una relazione annuale al Parlamento sull’attuazione della legge, in modo da capire se ci sono dei problemi e studiare le possibili messe a punto.

Poi bisogna impostare bene le caratteristiche dello strumento perché, ad esempio, se prevediamo degli incontri di tre ore probabilmente la scelta è quella della sessualità, non è quella dell’affettività. Che via scegliamo, allora? Quella dei colloqui intimi, oppure quella dell’affettività? La seconda si presenta meglio, anche considerando l’ambiente con cui abbiamo a che fare. Seguendo questa strada è possibile affrontare anche la discussione se l’affettività debba essere un diritto, oppure una possibile parte del trattamento. Nel progetto del nuovo Regolamento Penitenziario, fatto a suo tempo, il permesso era di 24 ore, prevedeva un’intera giornata trascorsa in queste unità abitative, dentro il carcere e accessibili anche ai familiari.

Un altro aspetto importante è di riuscire a prevenire i contrasti dentro il carcere, perché sappiamo che il discorso dell’affettività non è molto ben visto dagli agenti, ai quali dà fastidio di dover fare comunque un controllo su queste situazioni. Ricordo che qualcuno disse: "Dobbiamo anche entrare a cambiare le lenzuola!?".

Allora facemmo l’ipotesi che queste unità abitative fossero gestite dal volontariato. Il personale di polizia penitenziaria non entrava; poteva entrare solo se veniva chiamato… Però anche dal volontariato arrivarono delle forti obiezioni, sicché si fece un po’ di riflessione e, alla fine, decidemmo di togliere tutte queste specificazioni, semplificando al massimo la normativa. In questi casi bisogna lasciare che i problemi emergano, quindi intervenire per cercare di risolverli. Sennò stiamo sempre a misurare le cose con il bilancino e non si fa un passo avanti.

 

A cura di Francesco Morelli 

Dal momento in cui entra in carcere un detenuto
sparisce completamente dalla società come genitore

 

Noi cerchiamo di fargli recuperare il proprio ruolo genitoriale. Ce ne parla Lia Sacerdote, responsabile dell’Associazione "Bambini senza sbarre"

 

Lia Sacerdote è la responsabile dell’Associazione "Bambini senza Sbarre". L’impegno di "Bambini senza Sbarre" è di individuare un percorso d’accompagnamento del minore e dei genitori detenuti nella loro esperienza di separazione e nella necessità di mantenere viva la relazione tra di loro. Per questo è indispensabile trovare un tempo e uno spazio adeguato che rendano possibile questo percorso. Ed è di questo che abbiamo parlato con Lia Sacerdote.

 

Quando nasce l’associazione "Bambini senza Sbarre" e con quali finalità?

Dunque, "Bambini senza Sbarre" in realtà non è ancora nata come associazione autonoma, ma la sua data di nascita è prevista entro le prossime settimane. In questo momento è ancora un gruppo all’interno dell’Associazione Mario Cuminetti, però già da tempo svolge una sua attività autonoma. Sono due interventi che vanno avanti parallelamente: il Cuminetti si occupa principalmente di attività culturali, da cui comunque sono emerse le esigenze dei detenuti rispetto al problema dei figli, "Bambini senza Sbarre" si occupa del rapporto genitore detenuto e figlio con le finalità del mantenimento della relazione nonostante la detenzione, del legame del figlio con il proprio genitore detenuto, un diritto del figlio e un diritto – dovere del genitore detenuto.

 

Ma com’è iniziata quest’attività, chi ha avvertito questa necessità, ci sarà stato un promotore ad indirizzarsi proprio nell’ambito del disagio minorile connesso ai figli dei detenuti?

La necessità di occuparsi di questo problema è emersa proprio durante il lavoro culturale in biblioteca, l’attività storica che il "Cuminetti" svolge dall’85 a San Vittore. Ci siamo resi conto che uno dei problemi centrali della persona detenuta è proprio la separazione dagli affetti e dalla famiglia e dai figli in particolare. Il dolore per la separazione dai figli e tutti i problemi collegati si manifestavano con costante drammaticità. Io insieme ad altri del gruppo ci siamo sentiti fortemente motivati a rispondere a questa richiesta d’aiuto, richiesta che, secondo noi, non può avere una risposta generica di "vicinanza" ma di un intervento qualificato e di grande responsabilità.

Personalmente ha significato la possibilità di coniugare un mio interesse professionale psicopedagogico all’intervento volontario nel carcere, la decisione di dedicarmi a questo in modo totale è stata per me una conseguenza irrinunciabile. Da lì è partito un impegno preciso che ci ha portato a "Bambini senza Sbarre".

 

L’impegno della vostra associazione, proprio perché operate in un contesto di notevole disagio sociale, assorbirà certamente non indifferenti risorse economiche: come riuscite a far fronte alla questione legata ai finanziamenti, dai quali dipende la sopravvivenza delle vostre iniziative?

Ecco, questo è un punto importante. Finora siamo riusciti a conciliare la gratuità del lavoro volontario con l’intervento specialistico e professionale. "Bambini senza Sbarre" ha avuto diverse fasi di sviluppo, attualmente stiamo entrando in una fase più strutturata e abbiamo cercato finanziamenti: la Fondazione Bernard van Leer, una fondazione olandese di La Haye che ha come obiettivo quello di finanziare attività che si occupano di bambini in difficoltà in tutto il mondo, dovrebbe offrirci il sostegno economico necessario per assicurare la continuità all’iniziativa e un compenso economico per gli operatori. Alcuni di noi infatti oramai si dedicano a tempo pieno all’attività, ma continuerà ad essere determinante il contributo dei volontari che dovranno comunque rispondere agli stessi criteri di qualità e competenza degli operatori, un "volontariato professionale".

 

Lei parlava appunto di personale volontario ma estremamente qualificato. Operate in un contesto sociale variegato e difficile proprio perché si toccano i sentimenti e le sofferenze altrui, sia dei genitori che dei figli: vi avvalete di figure professionali, come psicologi, assistenti sociali, medici?

Si, questo è sempre stato il nostro orientamento. È necessario chiarire che il nostro comunque è un lavoro di mediazione e di sostegno psicopedagogico e non terapeutico, l’eventuale intervento psicologico specialistico entra in gioco se necessario.

 

Insomma, è un campo dove non si può improvvisare…

 

No, non si può improvvisare, è un campo molto delicato e di grande responsabilità. Spesso succede che il volontariato sia più una questione di buon cuore che di preparazione. Invece bisogna appunto essere preparati in quest’attività e anzi uno dei capitoli che noi riteniamo più importanti è quello di una formazione continua, una supervisione costante del nostro lavoro.

 

Quali sentimenti riescono ad esprimere i genitori detenuti e che stimoli hanno a cambiare vita, proprio per l’amore che vogliono ai figli e quindi per consentire loro un futuro più sereno?

Questa potrebbe essere una risposta quasi ovvia, quale stimolo maggiore di un figlio? In realtà il più delle volte è proprio così e io posso confermarlo come testimone. Effettivamente un figlio è uno stimolo per avviare un processo di presa di coscienza personale e di assunzione di responsabilità a cui si arriva gradualmente. È uno degli aspetti del nostro lavoro, il carcere è un momento, questo è un po’ incredibile a dirsi, ma io l’ho visto diverse volte, è uno spazio temporale che può essere usato per un recupero di una genitorialità che spesso aveva dei problemi anche prima del carcere e deve ricostruirsi. Il carcere poi aggiunge a questa assunzione di responsabilità, che è un dovere, il valore forte di essere un diritto e questo rappresenta una molla in più per utilizzare questo tempo, viverlo, progettando un futuro con i propri figli.

 

Ecco, a proposito di questo, cercate di intervenire anche sulla progettualità futura dei detenuti e dei loro familiari, o lasciate questo compito esclusivamente a chi vi è naturalmente preposto, come educatori, psicologi, assistenti sociali?

Il detenuto sparisce completamente come genitore dal momento in cui entra in carcere, il nostro intervento, quando ci viene chiesto, è proprio quello di tentare di fare "riapparire" questo genitore e metterlo in collegamento con tutti i soggetti coinvolti nella sua storia di genitore, scuola, assistente sociale del figlio, eventuale psicologo del figlio, comunità in cui è ospitato o famiglia affidataria e spesso lo stesso tribunale. Tutto questo perché sia in prima persona il detenuto ad assumersi la responsabilità della propria progettualità futura.

 

Una statistica ci dice che il 30% dei figli dei detenuti finisce a sua volta in carcere: emulazione, ribellione, disagio, emarginazione o cos’altro ancora? Alla luce della vostra esperienza, cosa proponete per ridimensionare il fenomeno?

Ecco, è difficile rispondere a questa domanda perché rappresenta per noi anche un’ipotesi di lavoro. Certamente il figlio di un genitore detenuto ha più probabilità di seguire la stessa strada perché rispetto allo stesso coetaneo a rischio ha opportunità in meno, ma soprattutto diverse difficoltà in più da affrontare, fosse solo il superamento dell’emarginazione sociale legata alla carcerazione del proprio genitore. La nostra è indubbiamente una meta ambiziosa, ma pensiamo che attraverso l’intervento che proponiamo ci sia come finalità ultima proprio quella di un lavoro di prevenzione sociale.

 

Anche per il futuro, quindi, il lavoro che fate non è finalizzato solo all’adesso, ad un’ora passata più dignitosamente o con maggior spensieratezza, ma cercate di porre anche le basi per un futuro migliore in seno alla famiglia.

 

Questa sarebbe la nostra speranza più grande, insomma. Quindi, voglio dire sostegno, un sostegno fuori e dentro può forse interrompere il destino di carcere che le statistiche ci offrono come spesso l’unico possibile…

 

Un argomento che forse esce un po’ dal tema principale delle relazioni genitori detenuti - figli, ma sempre di minori si tratta: come giudica il progetto di riforma della giustizia minorile, che prevede l’inasprimento delle pene e il trasferimento nelle carceri per adulti già dal diciottesimo anno di età, anziché i ventuno attuali?

Noi siamo assolutamente contrari, spaventati, e speriamo di poter unirci ad altre forze, che si possa fare qualcosa perché questo non avvenga. Il carcere è una condizione estrema che può solo peggiorare la situazione di questo giovane adulto.

 

Infatti ci sono anche carceri per adulti, come del resto questo di Padova, che dispongono di un’apposita sezione, chiamata proprio giovani adulti, per ragazzi fino a 25 anni di età. È un po’ la conferma di quanto lei sostiene, e penso che l’amministrazione penitenziaria abbia operato questa scelta a ragion veduta, forte delle esperienze, appunto.

 

Si, il motivo è reale, concreto, davanti agli occhi di tutti.

 

A cura di Marino Occhipinti

"Più cura e meno custodia"

 

La famiglia, gli affetti, la sessualità negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Ne abbiamo parlato con Massimiliano De Somma, psicologo, volontario nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa

 

Una delle maggiori difficoltà, per il reinserimento delle persone internate, è costituita dal rifiuto dei familiari a riaccoglierle, in caso di dimissione dall’istituto. Ma esistono delle iniziative che coinvolgano le famiglie in un percorso di "nuova conoscenza", di riavvicinamento al loro congiunto internato? Esistono altre soluzioni, a parte il ritorno in famiglia, che possono permettere agli internati di lasciare l’istituto e di essere accolte in un ambiente "protetto"?

Sarebbe davvero auspicabile poter operare in una direzione terapeutico-trattamentale di stampo sistemico-relazionale che coinvolgesse in primo piano le famiglie, il paese di appartenenza e, in senso allargato, la società tutta. L’attuale regolamento penitenziario non permette una interazione familiare che vada oltre i classici colloqui, da attuare secondo le classiche modalità dettate, in primis, dal bisogno della sicurezza.

Con la dicitura di "terapeutiche" sono permesse, rispetto alle normali case di reclusione, solamente alcune telefonate in più, ma riguardo a progetti terapeutici di risocializzazione e di reinserimento in famiglia molto si dovrebbe attuare. Ecco perché sarebbe auspicabile una trasformazione ad hoc del regolamento penitenziario applicato agli O.P.G..

La sanitarizzazione di questi luoghi dovrebbe necessariamente passare attraverso uno slogan proponente "Più cura e meno custodia". Diverso è il caso di quelle famiglie che non vogliono più accettare il proprio congiunto ricoverato, una volta dimesso dall’istituto.

A volte proprio perché il reato è stato commesso in famiglia (ma anche qui le ricerche nel campo della vittimologia, ed in particolare sulla relazione e mediazione vittima-carnefice, potrebbero aiutare), altre volte perché, per la famiglia, il congiunto recluso è fonte di guadagno e sostentamento, lì dove la sua infermità mentale totale produca una pensione di invalidità al 100% con accompagnamento, percepita dai familiari, gli stessi che, magari proprio per questo motivo, avevano pensato di denunciare il congiunto (forse realmente "matterello", ma in fondo pacifico) per molestie ed aggressioni in famiglia.

 

Da quel che si comprende leggendo "La storia di Nabuc", il giornale degli internati di Aversa, molti di loro hanno commesso dei reati a sfondo sessuale e tutto ciò che riguarda la sessualità ritorna in maniera un po’ ossessiva nei racconti di queste persone. Per loro ci sono dei trattamenti terapeutici specifici (sul tipo del Progetto WOLF per i pedofili)?

La risposta è NO! I soggetti che commettono reati a sfondo sessuale (pedofilia, stupro, atti osceni in luogo pubblico ecc), vengono internati in O.P.G. solo se riconosciuti incapaci di intendere e di volere al momento della commissione del reato stesso, quindi, evidentemente affetti da disturbi mentali più o meno gravi. I trattamenti, soprattutto di tipo psicofarmacologico, vengono quindi realizzati, come per gli altri internati, in funzione della cura della patologia sottostante e non del reato commesso.

Per quanto riguarda, invece, trattamenti di tipo psico-terapeutico, riabilitativi e risocializzanti, sicuramente di tipo più strettamente specialistico, devo riconoscere la impossibilità, allo stato attuale, della loro programmazione e realizzazione. Ribadisco che il mandato sociale dell’O.P.G. è quello della sicurezza sociale. Tutto quello che viene fatto in più per quanto riguarda la cura e la guarigione degli ospiti coatti non è richiesto, ed è possibile solo grazie all’apporto di singoli operatori volontari e all’impegno di una direzione sanitaria, prima che amministrativa o custodialistica, che vede, fortunatamente, un direttore medico psichiatra anziché burocrate.

 

"La storia di Nabuc" parla esplicitamente delle pratiche omosessuali che avvengono tra gli internati. Nelle carceri c’è molto più imbarazzo ad ammettere che esistano e, probabilmente, sono meno frequenti, tuttavia il fenomeno esiste e su di esso sarebbe necessario soffermarsi, quando trattiamo temi come la tutela della salute o la negazione degli affetti. Operando in un O.P.G., lei può confrontarsi con situazioni di disagio estreme (anche rispetto al carcere), sul piano della mancanza delle relazioni affettive e sessuali: che conseguenze provocano, a livello psichico e anche fisico?

L’incidenza dell’affettività è fondamentale soprattutto nei processi di sviluppo e di crescita dell’individuo, fin dalla prima infanzia. Fin da questo periodo, la relazione affettiva madre-bambino risulta fondamentale per un sano accrescimento maturativo. Lì dove è carente o addirittura inesistente, lo sviluppo dell’emotività, della psicomotricità e del linguaggio e quindi del comportamento sociale e dell’identità, nonché della salute mentale dell’individuo, sono compromessi. Ne portano evidenti esempi le ricerche di noti studiosi nel campo della psicologia animale e comparata, nonché umana e sociale.

Il rapporto di Spitz sulla sindrome presentata da bambini ricoverati in brefotrofio, in una condizione di vita carente di relazioni affettive, sostiene che, a lungo andare, lo sviluppo psicoaffettivo, motorio e comunicativo-sociale può essere seriamente compromesso se non vengono rapidamente stabilite o ripristinate profonde relazioni affettive fra il bambino e la madre (o altra figura significativa). Questo rapporto è solo uno dei tanti che tendono a dimostrare quanto, nello sviluppo della personalità, il passaggio dalla struttura organica anatomo-funzionale alla struttura psichica (cioè l’edificazione della persona) è determinato dall’organizzatore affettivo, ma soprattutto come nelle situazione di crescita in cui manchi o sia precaria una significativa relazione affettiva, vi sia uno sviluppo della personalità abnorme, patologico soprattutto in direzione antisociale.

In questa ottica, dunque, secondo la quale la privazione, soprattutto per ciò che riguarda il campo delle relazioni affettive e sessuali (e in questo secondo caso basterebbe citare Freud per riempire pagine intere sugli effetti psicofisiologici conseguenti), porta verso il disagio e la malattia mentale, qualsiasi progetto terapeutico prima, e riabilitativo poi, non può e non deve assolutamente non prendere in considerazione la necessità di lavorare sulle relazioni affettive.

Lì dove, poi, in particolare negli O.P.G., una terribile malattia mentale, quale la schizofrenia, depaupera principalmente l’affettività del soggetto colpito, che manifesta fra i sintomi principali proprio una anaffettività paralizzante e paradossale, in particolare nell’incongruenza tra situazione reale e manifestazione affettiva stessa, non si può prescindere dall’idea di incominciare a lavorare proprio da qui per innescare un efficace processo terapeutico di guarigione.

E ancora, non si può negare l’affettività, lì dove si parla di "psicosi affettive" (quali la depressione, la mania e l’alternanza di queste due forme nella ciclotimia) per indicare gravi disturbi dell’umore, cui conseguono disturbi secondari del pensiero e del comportamento in consonanza dell’affetto.

Alcuni fra i principali ricercatori, soprattutto nel campo della psicologia sistemico-relazionale, hanno da tempo ipotizzato nelle alterazioni comunicative e relazionali affettive la causa stessa della patologia schizofrenica. (…)

Ciò non caratterizza esclusivamente la popolazione internata, bensì anche quella detenuta, lì dove, ad esempio, sindromi quali quella di "prisonizzazione" (termine coniato da Clemmer nel 1940) sono talora presenti con forme di modificazione della personalità e con sintomi di impoverimento intellettivo, emotivo, sensoriale e dell’identità, fra le cui cause sicuramente sono da annoverare una deprivazione psichica e fisiologica, ed anche affettiva e sessuale.

 

La giornata di studi "Carcere: salviamo gli affetti" ha avuto lo scopo di rilanciare il dibattito sul diritto all’affettività per le persone detenute (e internate). Quali altre iniziative si potrebbero proporre? Secondo lei, chi è più necessario "convincere" perché questo diritto sia riconosciuto: gli operatori penitenziari, i politici, i magistrati, i giornalisti?

La conoscenza e la comunicazione. Credo che la conoscenza e la comunicazione possano fare molto, in tutti i campi. Bisognerebbe divulgare e far conoscere all’esterno quanto più possibile della realtà del mondo circoscritto delle istituzioni totali. La "convinzione", con tutte le accezioni da attribuire a questa parola, passa necessariamente attraverso questi processi. Un buon inizio potrebbe essere la divulgazione del film "Fine amore: mai" proiettato durante la giornata di studi. L’ho trovato geniale e di forte impatto emotivo, ed una comunicazione che passa attraverso l’emozione è sicuramente una comunicazione efficace e di facile comprensione, oltre che trasformativa. È encomiabile lo sforzo che stanno facendo, inoltre, i molteplici giornali penitenziari, ma la loro divulgazione è limitata, spesso, agli addetti ai lavori.

La società teme di conoscere una realtà di cui ha paura perché vi ha gettato la parte oscura di se stessa. Le istituzioni totali (e con questo termine intendo indicare carceri, O.P.G., manicomi, ecc.), secondo un processo psicologico di tipo scissivo-proiettivo, sono contenitori di aggressività e follia terrificante, seno cattivo gonfio del male della società. Un processo di rimozione e repressione porta al disinteresse ed alla disinformazione per la loro realtà. Finché il male starà tutto rinchiuso lì, il resto della società sarà buono e salvo. L’apertura delle istituzioni totali all’esterno, in una permeabilità direzionale fuori-dentro, mi sembra un’altra ottima occasione di conoscenza e di trasformazione, nonostante le grosse difficoltà per attuarla, soprattutto a causa di quella solita parola d’ordine che inneggia prima di tutto alla sicurezza.

 

Che cosa significa parlare di "affettività" rispetto agli internati negli OPG? Che tipo di relazioni familiari riescono a mantenere oggi e che cosa si potrebbe auspicare per migliorare le loro condizioni da questo punto di vista?

Le relazioni affettive degli internati in O.P.G., proprio a causa della loro malattia debilitante principalmente la sfera affettiva, vanno stimolate. Mi ripeto quando sottolineo che la cura e la guarigione devono, in un’ottica che non può non essere sistemica, passare attraverso le relazioni affettive, soprattutto primarie quali quelle della famiglia. Attualmente le relazioni familiari di alcuni sono limitate a semplici colloqui, spesso deliranti e deludenti a causa delle condizioni psichiche dell’internato. Per altri sono totalmente inesistenti, essendo stati abbandonati da tutti, o a causa della lontananza dal proprio luogo di residenza.

Non dimentichiamo che, al contrario degli istituti di pena, gli O.P.G. in Italia sono solo 6 e mal distribuiti. Soprattutto i pazienti sardi sono maggiormente penalizzati, dovendo affrontare viaggi insostenibili per far visita ad un proprio congiunto internato a Napoli, ad Aversa o peggio ancora a Reggio Emilia o a Castiglione, e per di più solo per poche ore.

Anche per questo bisognerebbe pensare ad una regionalizzazione di questo tipo di istituti, così da permettere una migliore distribuzione sul territorio. La realizzazione di un O.P.G. per regione porterebbe ad una migliore distribuzione sul territorio del totale complessivo di folli-rei, con un vantaggio anche dal punto di vista sanitario e di presa in carico delle rispettive ASL di appartenenza. Inoltre, il basso numero di internati per O.P.G. che si verrebbe a creare, permetterebbe un maggiore sviluppo delle potenzialità terapeutico-trattamentali. Infine, le relazioni affettive, fondamentali nel progetto terapeutico, verrebbero favorite e potenziate e tutto ciò permetterebbe agli O.P.G. di diventare veramente alti centri di specializzazione psichiatrica, da utilizzare anche come luoghi di studi e di ricerca, così come da tempo, con innumerevoli sforzi, cerca di fare l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa.

 

Lei parla di "decentrare" gli O.P.G. nelle regioni. C’è chi, però, chiede invece la loro chiusura. Che ne pensa di questa ipotesi?

Non sono d’accordo con la proposta di chiusura degli O.P.G. Se l’alternativa, poi, è quella di sbattere tutti in carcere, eliminando il principio della "incapacità di intendere e di volere", allora lo sono ancora meno. Bisogna imparare a distinguere la malattia mentale dai malati di mente, e i malati vanno curati (e forse anche i delinquenti comuni). Il loro gesto criminoso è conseguenza di un disequilibrio mentale grave, che va, per quanto possibile, riequilibrato.

Io trascorro 4 giorni su 7 in una realtà di cui, mi rendo conto, fuori non si ha neanche una vaga idea, e dove la realtà supera la più fervida fantasia, e credetemi, è difficilissimo anche solo pensare ad un progetto per i malati cronici e gravi. Come si pensa di riuscire a gestirli se non in un luogo specializzato di cura e di ricerca? È difficile avvicinarli, comunicare con loro, è difficile, a volte, addirittura dare loro cure adeguate ed efficaci. Alcuni sono immuni agli psicofarmaci, assuefatti a tal punto che nulla più riesce a calmarli o ad attenuare i loro sintomi più bizzarri. Allora bisogna programmare periodi di "washout", durante i quali non viene somministrato alcun farmaco. Chiedete agli agenti di Polizia penitenziaria, che tra l’altro avrebbero bisogno di una formazione mirata per operare in questi luoghi (ma questa è un’altra storia), come fanno a far ingerire una pillola ad un cronico "indemoniato" e con il vizio di "cavar occhi" e in quanti devono intervenire per evitare che, in stato di agitazione, faccia danni irreversibili a cose, a persone e a se stesso.

L’unica proposta di legge che ho trovato abbastanza valida è stata quella del Senatore Milio, che fra l’altro ipotizza l’applicazione di una misura di sicurezza minima programmata in base al tempo previsto per la guarigione del "folle-reo" e non sulla base del reato commesso (attualmente si applica un minimo di Misura di Sicurezza di 2, 5 o 10 anni, sulla base della gravità del reato e non sulla valutazione del disturbo mentale o sulla previsione di durata della pericolosità sociale del soggetto o ancora sulla previsione dei tempi necessari alla sua cura e alla guarigione). Ma di questo potremmo tornare a parlare prossimamente.

Il discorso della sanitarizzazione e della regionalizzazione degli O.P.G. viene, purtroppo, recepito come una trasformazione degli O.P.G. in quelli che sono stati i vecchi manicomi, con la paura di tornare a fare un passo indietro. Non credo si intenda questo quando si parla di "sanitarizzazione". Anche i vecchi manicomi avrebbero avuto bisogno di una grossa e radicale trasformazione sanitaria: tutto sono stati, fuorché luoghi di cura e guarigione. Mi ripeto quando affermo che l’O.P.G. deve trasformarsi per affrontare con grossa specializzazione i casi limite della malattia mentale. La maggior parte dei casi attuali, quelli dei reati bagatellari e delle disfunzioni mentali acute e temporanee o comunque leggere, potrebbero benissimo essere gestiti sul territorio o domiciliarmente, ma la doppia etichetta che costoro portano appiccicata sulla fronte, quella di matti e di criminali, ne farà per sempre degli emarginati, matti, cattivi e pericolosi.

 

A cura di Francesco Morelli

Come si può discutere, con donne ed uomini reclusi ed esclusi,
di un diritto sostanzialmente negato?

 di Angela Pianca, Psicologa presso il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste

 

Da ventotto anni lavoro come psicologa presso il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste. Ci sono arrivata come volontaria per lavorare con Franco Basaglia. Volevo partecipare al suo progetto di de-istituzionalizzazione del manicomio. Un’utopia qui realizzata nella pratica con la famosa Legge 180 del 1978.

Anche per questo, e cioè per scelta, formazione e radici, lavoro nella Casa Circondariale di Trieste da diciotto anni. Ma ci entro con un altro dei miei mestieri: come teatrante, insieme a Claudio Misculin, attore e regista, anima geniale e fondante di questa esperienza, ed insieme ad altri dell’Accademia della follia.

Dopo aver letto il programma della Giornata di Studi "Carcere: Salviamo gli affetti" e la lista degli interventi, la prima cosa che ho pensato è: "Certo hanno fegato". La forza di porsi, il coraggio di continuare a proporre il problema del carcere, la dignità di pretendere una scena per promuovere un confronto a più voci. Mi è tornato in mente quanto scriveva Franco Rotelli: "È essenziale che della voce degli internati si riempia la quotidianità del sociale". Anche perché questo popolarsi di voci può diventare motore di presa in carico dell’istituzione. Allora diventa importante continuare a creare le condizioni perché di tutto il carcere si ricominci a parlare e, forse, agire su di esso.

Tuttavia mi sembra impossibile parlare di affettività in carcere. Come si può discutere con donne ed uomini reclusi ed esclusi, di un diritto sostanzialmente negato, se non per dire e fare in modo che diventi un diritto sostanziale? E in che modo? Eppure anche in carcere esistono affetto, fragili possibilità di esprimersi, disincantate speranze, possibilità di relazionarsi. Nascono amicizie mediate da progetti condivisi, espressioni creative, artistiche; ricevo lettere straordinarie... I reclusi nelle istituzioni totali hanno sempre tentato di fissare i momenti della loro prigionia in scritti che testimoniassero i fatti, anche oltre la loro esistenza. È così che i detenuti creano prodotti di inconsueta bellezza. È il segno di un ottimismo dell’uomo che non riesce mai a morire. Dietro c’è l’orrore, la violenza, la penuria di sempre. Ma forse anche la riconquista di un’espressione che assume dignità.

Allora ciò che facciamo, i percorsi che proponiamo, gli interventi e i prodotti culturali, artistici, artigianali che collaboriamo a realizzare, sono quello che sono: denuncia di una vita impossibile ed allusione ad un’altra vita, radicalmente diversa. Da che si deve pur vivere, anche le illusioni servono per tirare avanti.

Di fronte a queste situazioni, quello che provo è imbarazzo, quasi vergogna. Cosa vado a dirgli, di che cosa parliamo quando si discute di "affettività" in carcere? Ma cosa posso mai raccontargli che non sia l’intima vergogna di appartenere a "qualcosa" che li obbliga a comunicare quasi di soppiatto? Di essere anche io parte di quell’universo che offre loro solo la possibilità di sfuggirgli? E comunque l’incontro rimane necessario per non arrendersi, per esistere, per capire, per cambiare, per attribuire finalmente dignità culturale allo scacco, alla diversità.

 

Cerchiamo di leggere i bisogni e di rendere possibile l’espressione negata

 

Perché ci si possa opporre a quella violenza materiale, culturale e politica che ancora nega i diritti fondamentali, noi, come uomini, cittadini, operatori culturali, attraverso i nostri specifici strumenti, dovremmo cercare di rendere possibile l’espressione negata. Noi, insieme ad altri, dovremmo caricarci della responsabilità di leggere i bisogni, di rappresentarli, di decodificare le domande e costruire risposte altre. Dovremmo agire un ruolo nella ricostruzione della persona, offrendo possibilità concrete per indossare altre "maschere", per provare altre identità, diverse da quella unica del deviante, del delinquente. Inventare altri ruoli che contemplino la complessità dei vari piani dell’esistenza, opportunità per giocare di nuovo la storia che si ha a disposizione. Tentativi di riuscire, se pure parzialmente, a ritagliare spazi per dar valore a quelle voci altrimenti perdute nel silenzio.

Noi che conosciamo la fatica di scontrarsi con l’apparato, con la burocrazia, con i regolamenti. Noi che corriamo quotidianamente il rischio di essere cancellati, resi inutili da qualche intoppo, dalle assenze, dalla mancanza di risorse: umane ed economiche. In balia delle emergenze, delle restrizioni, delle ispezioni, dei piantonamenti, dei progetti dilazionati, mai partiti, o senza possibilità di radicarsi. Cosa mai potremmo fare e dire di serio ed onesto? Noi non possiamo che fare questo: rappresentare per agire. Ma Rappresentare una cosa significa rappresentare i suoi rapporti con mille altre cose. E anche se queste mille cose fossero a loro volta oscene e morbose, i rapporti con esse non lo sono, e la scoperta dei rapporti non lo è mai.

La domanda che pongo è: se e quanto diventiamo complici dell’immobilità di quella stessa istituzione che dovremmo contribuire a trasformare?

A volte mi chiedo che senso abbia la nostra caparbietà nel continuare comunque a costruire e proporre progetti, opportunità, confronti, se il rapporto tra la società e gli elementi che ne vengono esclusi rimane immutato. Ormai tutti riconoscono la necessità di riformare il carcere. Se la dichiarata finalità riabilitativa dell’istituzione fosse reale, ci sarebbero detenuti riabilitati e reinseriti nel contesto sociale. Ma ciò succede di rado. Ma come riformare, se non riconosciamo che le forme di controllo sociale possono essere altro dalle pene? E cioè terreni concreti di emancipazione, di ricostruzione di rapporti vivi e tesi, in cui le discipline e le indiscipline abbiano la possibilità di confronti, di scontri, anche di coazioni, ma non di rimozioni.

In parte, certo, le nostre proposte e noi stessi veniamo usati a sostegno dello status quo. Ma non bisogna avere l’ossessione del recupero delle innovazioni da parte del "potere"‘. Se qualcosa viene recuperato significa che ha un valore, che possiamo proporre ancora altro. Piuttosto è preoccupante il mero uso di facciata, quello che tende ad omologare tutti i tipi di interventi sotto categorie predeterminate e vuote di significato, che finiscono per cancellarli tutti nell’opacità, nella routine, nel silenzio e nell’isolamento. Il contrario del mettersi in gioco, di avere la possibilità di rimettersi in gioco nei rapporti, nella relazione, nel commercio umano, nello scambio. Ma dove sta la possibilità del recupero se non nella reimmissione nel corpo sociale, se non nel processo di restituzione dei diritti di cittadinanza? Percorsi che non possono limitarsi al rapporto interpersonale, ma che devono essere dotati di senso, di sostegni, di tramiti e risorse. E non parliamo di risorse aggiuntive, ma di uno sforzo per ripensare ad un investimento diverso di risorse impiegate altrove. Una ricerca di risorse da utilizzare per emancipare la persona, piuttosto che per identificare diversità da collocare altrove.

E allora quando annaspo sconfortata e mi chiedo quale sia il senso del mio intervento e di quello di molti altri all’interno del carcere, mi rispondo che ha ancora un significato di testimonianza, di partecipazione, un contributo alla trasparenza. Ha il senso di non abbandonare al silenzio ed alla cancellazione questa parte di territorio, della comunità che viene rimossa, disconosciuta fino a diventare tabù.

Se si riconosce che il carcere non si riformerà dal suo interno, allora tanto meno potrà cambiare se dietro quelle mura tornerà a calare il silenzio: questo è il senso del nostro lavoro. Perciò non è accettabile rassegnarsi all’autarchia del carcere. Solo il controllo sociale sul carcere, la sua trasparenza e la rottura della sua separatezza, possono interrompere il circolo vizioso attraverso cui il carcere produce il suo territorio.

 

Esercitare l’affettività e la sessualità è terreno di sviluppo e di crescita

 

Tornando all’affettività, quando, nel 1997, fu presentata in Parlamento la proposta di legge che prevedeva la possibilità di incontrare i famigliari in ambienti riservati, a Trieste, nel laboratorio teatrale del carcere, stavamo elaborando alcuni radiodrammi per la Rai regionale. La proposta "affettività" divenne argomento di un radiodramma in cui i detenuti espressero molte perplessità, che qui riassumo: Dove esistono le strutture, gli ambienti riservati? Vi immaginate le condizioni e gli stati d’animo di mariti, mogli, fidanzate/i? Le perquisizioni, l’imbarazzo di essere in qualche modo controllati, i tempi da rispettare, i viaggi, le sospensioni. Che possa diventare un ulteriore strumento di "‘ricatto"? E chi non ha nessuno? Anche se alcuni riconoscevano che: "Xè mejo che niente...", la maggior parte chiedeva che questa possibilità fosse data attraverso permessi per andare a casa, in un ambiente conosciuto, rispettando tempi, consuetudini, privacy... senza umiliazioni.

Ammesso che esista ancora la possibilità di avanzare una proposta di legge in questo senso, credo che dobbiamo interrogarci ed interrogare i detenuti sulle loro istanze, senza dimenticare: i permessi, i pacchi, le apparentemente piccole lotte quotidiane, le garanzie, le libertà affettive e sessuali, i fascicoli, i fatti quotidiani dell’universo carcere.

Esercitare l’affettività e la sessualità, oltre che un diritto fondamentale, è imprescindibile condizione per vivere, nonché possibilità di riabilitazione, terreno di sviluppo e di crescita. Dal momento in cui l’internato entra in carcere, o poco tempo dopo, non ha più importanza il suo reato, tanto meno la sua storia. Assume l’abito dell’istituzione e da quel momento l’identità di carcerato. In ordine a questa nuova identità sarà giorno per giorno visto, osservato, giudicato. Perché quel che conta è che egli sia appiattito e riconvertito in una scheggia seriale di un’istituzione normativa. A nessuno interesserà più la sua storia, il suo reato. A noi sì.

Molto cammino culturale e scientifico deve essere fatto per rifondare psicologie, trattamenti di riabilitazione sui percorsi di vita. Sono le storie della vita, le biografie arricchite che ci consentono di capire per cambiare, invece di definire per negare ed invalidare.

A fondare il carcere, alla fine, resta una logica semplice e fondamentale che divide la nozione di bene e di male, di innocenza e di colpa, stabilendo tra i due poli la fisica frontiera del muro delle prigioni. A memoria e monito per tutti. Ci pare allora che il nostro lavoro debba consistere nel produrre nessi, scambi, varchi, reti per impedire che si lavori, da ambo i lati, per murare vivi gli uni e gli altri. Mi pare che il vostro impegno, il vostro giornale, l’organizzazione di questa Giornata di Studi siano pratiche che si muovono in queste direzioni. 

Restituire al detenuto le relazioni e gli spazi affettivi che lo motivino, lo responsabilizzino, lo sostengano in un percorso di reinserimento

 

Le proposte di Sergio Segio e Sergio Cusani alla Giornata di Studi sull’affettività

 

In questi giorni abbiamo aderito a un’iniziativa, che ci sembra decisamente utile richiamare, rilanciare e proporvi in questa sede. L’iniziativa si chiama "Adottiamo la Costituzione" ed è promossa da un gruppo di cittadini impegnati professionalmente in vari settori, nella ricerca, nella comunicazione, nello spettacolo, nell’istruzione, nella sanità, nel diritto.

L’appello dei promotori è questo: «Ciascuno di noi adotti un articolo: leggiamolo, impariamolo a memoria, parliamone con gli amici, difendiamolo nel nostro quotidiano, viviamolo e amiamolo come fosse individualmente nostro».

Noi abbiamo scelto e adottato, questo forse va da sé, l’articolo 27. Uno dei suoi commi specifica: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Tutti noi sappiamo, anche per esperienza personale, che, diversamente, la pena reclusiva in Italia è molto spesso oggettivamente contraria al senso di umanità, poiché si svolge in luoghi e condizioni incivili e, di conseguenza, lungi dal riuscire a promuovere reinserimento e maggiore responsabilità sociale da parte del condannato, produce invece disperazione crescente, sofferenza ed emarginazione aggiuntive.

Questo avviene anche, se non soprattutto, perché alla persona reclusa viene negato, dalle norme scritte ma più spesso da quelle non scritte, quel complesso di relazioni, spazi, luoghi, opportunità che garantiscono il diritto all’affettività. Un diritto che, contemporaneamente, viene negato alla famiglia del condannato (e, giova ricordarlo, del non condannato, ovvero di quel quasi 50% di reclusi che sono in carcere in attesa di giudizio definitivo) e a ogni sua altra relazione affettiva.

La solitudine, la lontananza e quindi l’impossibilità di avere continui e regolari contatti con i propri cari sono spesso l’origine di un crollo psicofisico per tutta la famiglia, con la conseguenza di una inevitabile frantumazione del rapporto emotivo-sentimentale che colpisce inevitabilmente tutti i componenti del nucleo familiare.

Di nuovo, dunque, l’effetto indiretto e sia pure non voluto (ma neppure minimamente evitato) della pena detentiva è esattamente rovesciato rispetto al principio affermato nell’articolo 27. Al termine della pena, il detenuto troverà ancora meno risorse e sostegni per compiere un percorso sociale, affettivo e lavorativo di reinserimento di quanti non ne avesse lasciati al momento dell’ingresso in carcere.

Basta poco per capire quanto sia angosciante, specialmente per un bambino, per dei genitori anziani, per una compagna o un compagno affrontare una visita nella sala colloqui di un carcere.

La carcerazione porta, nella maggior parte dei casi, uno sfilacciamento, quando non una drammatica rottura, dei legami affettivi: alimentando nel detenuto nuove solitudini e sentimenti di abbandono che, in un conseguente meccanismo di reazione, facilmente sviluppano risentimento verso il mondo esterno; il quale, a sua volta, certo non distoglie da nuovi percorsi di attività illecite, una volta libero. Non a caso la recidiva viene stimata addirittura del 79%.

Insomma: un classico circolo vizioso.

Sicuramente non è semplice rompere l’anello principale e più robusto della catena reato-carcere-reato: quello legato alle condizioni di esclusione sociale, di povertà economica e culturale (il 90% della popolazione detenuta è costituito da persone povere, se non direttamente emarginate). Condizioni che sono preesistenti all’ingresso in carcere e raddoppiate al momento dell’uscita (tranne i meritori, ma percentualmente scarsamente incidenti, casi di abilità professionali e formative acquisite nel periodo di carcerazione).

Per rompere la spirale della recidiva su questo specifico e centrale punto occorrerebbe un complessivo sforzo e investimento da parte della società nelle sue varie componenti (volontariato e terzo settore, mondo del lavoro e delle imprese, agenzie formative, enti locali), una lungimirante scelta politica e una strategia coerente.

In sostanza, quell’insieme di misure, risorse e disponibilità che chiamammo "Piccolo piano Marshall" per le carceri, che proponemmo due anni fa e che riscosse l’adesione e disponibilità di un vasto cartello sociale di associazioni, sindacati e volontariato, ma non l’indispensabile e fattivo intervento delle forze politiche e del legislatore che si limitò – al solito, su questi temi scomodi – a promesse poi non mantenute.

Ma quella stessa spirale reato-carcere-reato è aggredibile in un altro punto: quello, appunto, capace di restituire al detenuto le relazioni e gli spazi affettivi che lo motivino, lo responsabilizzino, lo sostengano in un percorso di reinserimento. Percorso che non può che fondarsi sul riconoscimento di dignità della persona e della inalienabilità dei suoi diritti, posto che il carcere non deve essere afflizione aggiuntiva alla perdita della libertà.

Gli spazi di mantenimento, crescita ed espressione delle relazioni sociali, degli affetti e anche della sessualità sono un fattore potente e imprescindibile dell’identità personale di ciascuno. Dunque hanno a che fare con la dignità umana, dunque devono essere intesi e rispettati quali diritti incomprimibili delle persona. Anche di quella reclusa.

Garantire quei diritti è dunque rispettare la Costituzione. Ma anche dare attuazione alle normative. A partire dal "nuovo" regolamento penitenziario in materia di colloqui, di spazi verdi, di trattamento. Seppure il Consiglio di Stato, con il proprio parere dell’aprile 2000, ritenne di espungere dal nuovo regolamento la previsione di spazi specifici per l’affettività, ovvero unità abitative senza controllo visivo e auditivo da utilizzarsi come momento reale e intimo da parte dei detenuti per mantenere rapporti affettivi. Una proposta, questa, fortemente e tenacemente sostenuta da Michele Coiro e Sandro Margara, già direttori del DAP, e dall’allora sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone.

Il Consiglio di Stato ritenne di stralciare questa materia con la motivazione che essa abbisogna di un passaggio legislativo.

Da qui, allora, ci sembra necessario ripartire ed è questa la nostra proposta:

Usciamo da questa giornata di lavoro e confronto con la delega a un agile gruppo di lavoro ad hoc (misto: ovvero composto sia da persone recluse di entrambi i sessi, ed eventualmente da persone transessuali, sia da volontari e da tecnici) che si incarichi di discutere e redigere un articolato di legge che recepisca, ed eventualmente innovi, la proposta di garantire spazi adeguati e civili nelle carceri per l’affettività (nella sua accezione ampia e non meramente sessuale, e soprattutto non in alternativa ma a fianco di strumenti già esistenti, a partire dai permessi di uscita dal carcere), a modello di quanto già esiste in numerosi paesi, europei e non.

Una volta stesa la proposta di legge, su di essa andremo a raccogliere le adesioni del maggior numero possibile di parlamentari di tutti gli schieramenti e chiederemo ai partiti di impegnarsi per la sua rapida messa in calendario dei lavori delle Camere.

Ci sembra un modo possibile per cominciare a incrinare quella spirale di cui si diceva. Ci sembra un modo necessario per ribadire che la persona detenuta, pur se condannata, è comunque un cittadino cui devono essere riconosciuti alcuni diritti inalienabili e un essere umano di cui va salvaguardata la dignità, così come quella dei suoi famigliari e delle sue relazioni affettive. Ci sembra un modo concreto e un contributo di noi tutti per cercare di non ritrovarci la prossima legislatura in un altro convegno a rimarcare l’assenza di spazi per l’affettività nelle prigioni.

 

Associazione SocietàINformazione ONLUS (societainformazione@noprofit.org)

 

 

 

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