Attenti ai libri

 

Una profonda, spietata analisi dell’animo

umano nel ventunesimo secolo

“Il sopravvissuto”: un romanzo dove c’è un professore di storia e filosofia, e poi il suo studente preferito che compie una strage a scuola e risparmia solo lui, costringendolo a rimettere in discussione la sua vita, il lavoro, il rapporto con i ragazzi, tutto

 

recensione di Elton Kalica

 

È una mattina calda di giugno. In un tranquillo liceo lombardo sono in corso gli esami di Stato. I risultati delle prove scritte sono già stati esposti nella bacheca, e la prova orale è appena iniziata nella palestra della scuola, dove i professori sono seduti dietro una fila di banchi ricoperti di formica verde e disposti a ferro di cavallo. È il turno di Vitaliano Caccia, un ragazzo ripetente, che è in ritardo, ancora non è arrivato. Il suo esame scritto è andato male e perciò i professori hanno già concordato di bocciarlo anche per quest’anno – e intanto si rilassano dedicandosi alla lettura dei giornali finché lo studente compare sulla soglia della palestra e si avvia verso il centro dove era stata piazzata la sedia dell’esaminando. Ma invece di sedersi estrae una pistola e comincia a sparare. Uccide tutti i suoi professori, eccetto Andrea Marescalchi, il professore di storia e filosofia. Poi lo studente ritorna al centro della palestra, da cui aveva dato inizio alla strage, e questa volta si siede, e per il professore, l’unica figura in piedi in tutta la palestra, il mondo non sarà più lo stesso. La sua vita non è più la stessa. Vive i giorni che seguono in una dimensione surreale. Si sveglia e dorme con mille interrogativi che gli rimbombano nella testa, sprofonda in una desolazione esistenziale, impermeabile alle domande dei poliziotti che, lanciati alla ricerca del “ragazzo mostro”, cercano di arrivarci attraverso di lui.

La strage in una scuola, cha dà inizio al romanzo, è un atto che fa inorridire tutta la piccola comunità di cui la scuola è parte. Gli abitanti del luogo rimangono scioccati, l’atto è inconcepibile e chi lo ha commesso non può essere altro che un demonio arrivato lì da un altro mondo, come una entità sconosciuta che tutti disconoscono, come una cosa che non appartiene a nessuno. Vitaliano diventa “quello della strage” e quindi non ha più una identità, un passato, una storia come tutte le persone “normali”: dal momento che ha fatto del male non è più una persona, è un mostro. Ma non la pensa così il professore di filosofia, l’unico che va a cercare le responsabilità, che interroga la sua coscienza, che si domanda perché. I curiosi credono che almeno lui, vittima di una strage e parallelamente sopravvissuto, dovrebbe saperlo, come se essere stati vittima di una violenza conducesse alla scoperta del perché, come se vi fosse una rivelazione in fondo alla ferocia. Dal canto suo il professore si sente chiamato in causa, collegato alla segreta radice degli eventi, egli sa che l’assassino, lasciandolo in vita, lo ha incaricato di trovare le ragioni del suo gesto, e la ricerca svolta dal professore fa di questo libro una profonda, spietata analisi dell’animo umano nel ventunesimo secolo.

Come spesso succede nelle storie di sangue, la scena lasciata vuota dal protagonista viene occupata dai soliti attori che vorrebbero qualcosa da te, il mostro: i parenti della vittima che ti vorrebbero morto per il male che gli hai causato; i tuoi parenti che vorrebbero non averti mai conosciuto; le forze dell’ordine che vorrebbero riempirti di botte e metterti in galera; la folla infuriata che “prepara la forca”; tua madre che spera di vederti vivo ancora per una volta. In questa situazione questa volta però c’è anche il professore di filosofia, che si separa dalla folla inferocita e guarda la scena da attento osservatore. Scruta con interesse le questioni più difficili, quelle che riguardano la complessità dell’esistenza, e le studia per scavare i motivi che hanno spinto il suo studente a questa violenza, e per scoprire il perchè della propria vita, o della propria morte.

 

A un grande orrore corrisponde un grandioso spettacolo

 

Intanto tutta la comunità, in subbuglio, si avvia verso la chiesa. Il prete, dall’alto della sua sacra cattedra, si rivolge ai fedeli invitandoli a riflettere sulla grandezza del dolore che si ritrovano ad affrontare, sull’impossibilità di dimenticare e di recidere il cordone ombelicale che lega la comunità ai suoi morti. Poi, al cimitero, mentre lui svolge i suoi riti religiosi, entra in scena bruscamente Filippo Sangiacomo, l’industriale che oltre ad aver portato il lavoro a decine di famiglie, ha però anche intossicato l’intero paese con i veleni del cromo. Ma, per la gente del posto, quel vecchio avvelenatore impenitente continua a rimanere un grande uomo, il capitano d’industria che viaggia in elicottero e ha finanziato le colonie estive per la prole malsana dei suoi operai. E quindi può permettersi di interrompere l’epitaffio e gridare che in quella strage anche la sua unica figlia è stata uccisa… che lui è un uomo ricco… che non sa più a chi lasciare in eredita la sua ricchezza… e che offre quindi tanto denaro a chi ucciderà il ragazzo autore della strage.

Immancabilmente anche il criminologo fa la sua comparsa e incontra il professore e gli illustra i principi del suo metodo di lavoro, ma non riceve alcun aiuto dal sopravvissuto nella ricostruzione della scena del delitto. Per il criminologo l’autore della strage è un nuovo tipo di criminale che non ha moventi razionali e dunque non ha freni, non si ferma finché non verrà catturato o ucciso

Non può mancare il pubblico ministero perennemente alla ricerca di complici. Per lui la scena del crimine va allargata all’intera scuola, anzi a tutta una generazione. Per lui si è di fronte ad un crimine di gruppo. Il ragazzo ha agito in esecuzione di una sorta di mandato collettivo proveniente dai compagni di classe, o comunque da un gruppo di cui è difficile stabilire con esattezza l’estensione. L’unico elemento certo di comunanza è l’età, e il delitto è diventato un salto di qualità, un’emergenza che gli adulti affrontano approntando gli strumenti pratici e teorici per combattere l’intera adolescenza come un gruppo criminale, l’intera giovinezza come un’associazione a delinquere.

E la televisione, onnipresente, non può perdere l’occasione. A un grande orrore corrisponde un grandioso spettacolo e quindi una gigantesco audience. I cittadini che tornano stanchi dal lavoro, dopo aver sgridato i figli che si chiudono in camera ascoltando la musica a manetta, dopo aver fatto i conti dei mutui ancora da pagare, hanno bisogno di sentirsi ricordare che c’è un pericolo che costantemente li attende dietro l’angolo, e che lo Stato combatte tutti i giorni per garantire loro la sicurezza, la vita. E quale miglior testimone, se non l’uomo che ha visto la morte con i propri occhi: il sopravvissuto? Ma il professore rimane muto di fronte alle telecamere. Sa di essere lì per fare spettacolo del suo dolore e si vergogna.

Per il professore è giunto ormai il momento di iniziare realmente la ricerca del vero motivo della strage, e l’unico modo per farlo è ricostruire la storia del ragazzo intrecciandola con la sua. Decide così di dire di no agli psicologi, ai sociologi, ai criminologi, ai magistrati e ai giornalisti. Il campo della ricerca sarà il tremendo mistero dell’educazione, la sua analisi si deve basare soltanto sulla sua esperienza, sul suo ricordo, sul suo rimorso. Rilegge così il suo diario confrontandolo con tutti i fatti che hanno lasciato tracce della condotta di Vitaliano Caccia: le bocciature, le assenze, i drammi sentimentali, i problemi in famiglia, le sanzioni disciplinari, le sospensioni dalla scuola e quelle dei suoi amici. Contemporaneamente a ciò, il professore scopre che, giunto a quel punto della sua solitaria esistenza, la strage che il suo miglior studente ha fatto gli ha comunque dato la possibilità di aprire gli occhi e ripercorrere la propria vita, il proprio modo di vivere il ruolo di insegnante, il rapporto con i ragazzi, “l’insondabile mistero dell’educazione”, il suo fastidio per “la recente trasformazione della scuola in azienda erogatrice di servizi formativi, delle famiglie in clienti, ottusi ed esigenti, e dei ragazzi in prodotto, prodotto scadente e senza mercato”. E alla fine arriva a pensare alla necessità di abbandonare questa vita e questo pesante ruolo di “sopravvissuto” con l’aiuto di una forte dose di sonniferi. Ma poi qualcosa lo fermerà e lo “riattaccherà” alla vita, e comunque bisogna leggere questo libro per capire la difficile conclusione a cui giunge il professore.

Carcere e viaggio

La scrittura come “luogo di libertà” dove le persone si ritrovano nel raccontare, che è prima di tutto raccontarsi, ascoltarsi, visitare quel mondo interiore, che rischia di annichilirsi per l’isolamento e la mancanza di stimoli della galera

 

recensione di Stefano Bentivogli

 

Dieci detenuti del carcere romano di Rebibbia si iscrivono ad un laboratorio di scrittura organizzato da Luciana Scarcia, insegnante da metà degli anni settanta, donna che si mostra nell’approccio col carcere carica della voglia di capire, di partecipare, di dare un senso anche a tante attività intramurarie. Un senso che a volte rischia di rimanere quello di passare un po’ di tempo fuori dalla cella, per gli utenti, e l’aver fatto comunque una buona azione, per il volontario.

Sembrerebbe che scrivere in carcere sia una cosa che viene da sé, naturalmente, bastano carta e penna e tempo a disposizione. Ma, se anche per molti rimane l’unico mezzo di contatto “libero” con l’esterno, in realtà poi prendere carta e penna e mettere una parte di sé sul foglio è una cosa difficile, molti usano ancora “l’amico che ha studiato”, molti provano e rinunciano, altri invece la trasformano in un’attività al limite del patologico: non sono pochi i grafomani che si scoprono in carcere, ma il livello è quasi da “malati della scrittura”, e difficilmente ha sbocchi di una qualsiasi utilità o interesse. Un laboratorio di scrittura invece è un’altra cosa, è imparare, sperimentare e produrre con lo strumento della lingua scritta, e non è una operazione semplice, occorre studiare, e come tutte le materie scrivere può diventare interessante e coinvolgente oppure no.

“Carcere e viaggio”, a cura di Luciana Scarcia, è la produzione di un anno di laboratorio che sembra quasi voler essere una provocazione a chi legge. Il carcere non è certo il luogo per antonomasia del viaggio, piuttosto è quello dell’immobilità, o rischia di esserlo se, tra il tempo che non passa e le privazioni, non si riesce a trovare un senso nello svegliarsi tutte le mattine ed arrivare a sera in quelle condizioni. Ma l’immobilità non è solo quella fisica, che è pesante, dannosa, deformante e patogena, l’immobilità grave è quella mentale, compresa quella emotiva ed affettiva. Così quella materia studiata a scuola per comunicare scrivendo, piena di regole, diversa dalla lingua parlata, diventa, perché proposta in maniera intelligente, l’apprendimento di uno strumento molto potente.

È un libro che testimonia proprio come la scrittura può diventare “il luogo di libertà” dove le persone si ritrovano nel raccontare, che è prima di tutto raccontarsi, ascoltarsi, visitare, con metodo ed attenzione, quel mondo interiore che rischia di annichilirsi per l’isolamento e la mancanza di stimoli. Farsi aiutare dall’idea del viaggio poi, oltre ad essere provocatoria, esalta il risultato di un lavoro individuale che mostra come siano diversi i percorsi, i luoghi, le mete, ma che insegna a condividere un metodo, ossia trovare delle regole che permettano di mettere in comunicazione le diversità che oggi in carcere convivono a volte in maniera problematica.

È importante che in carcere la lingua scritta possa avere uno spazio, soprattutto se organizzata in laboratori, perché la sensazione in generale è oggi che la scrittura venga sepolta e dimenticata, quasi che la lingua parlata possa sostituirla del tutto. Ma la scrittura è ben altro, ed il fatto che possa andare persa o che diventi una capacità d’élite significa che ne sarebbe facilmente privata una fascia di persone più deboli e povere interiormente, con meno strumenti di conoscenza di sé e, a volte, più facilmente vittime della cultura dell’omologazione, e quindi dell’alienazione. Allora, tanto più significativo diventa lavorarci, con la scrittura, accanitamente e testardamente proprio in galera.

 

Carcere e viaggio” è il titolo del volume di racconti scritti da un gruppo di detenuti del carcere romano di Rebibbia che hanno frequentato un laboratorio di scrittura, condotto da Luciana Scarcia.

Il filo conduttore di tale esperienza è stato il viaggio: costruire una sorta di dizionario ragionato intorno al tema del viaggio proprio da parte di chi, separato dal mondo, cerca di usare la scrittura come luogo di libertà e metodo di ricerca. A partire dell’alfabeto del viaggio, sono stati così elaborati alcuni scritti di diversa tipologia: racconti autobiografici, descrizioni del carcere, lettere, riflessioni e scherzi.

 

 

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