Sprigionare gli affetti

 

Incontrare il padre in carcere?

Può essere la cosa più naturale del mondo per un bambino

Purché ci siano spazi a misura di infanzia. Lo sostiene - e lo argomenta dal punto di vista psicoanalitico - Alain Bouregba, direttore della Federazione francese Relais Enfants-Parents e fondatore della rete europea Eurochips

 

di Emanuela Zuccalà

Nella vecchia Europa a quindici, più di ottocentomila persone hanno almeno un genitore in carcere, e diecimila fra loro sono bambini minori di due anni. In Italia, sono oltre quarantatremila i figli grandi e piccoli di detenuti. Numeri imponenti, che però ancora non convincono nessun governo a impegnarsi per migliorare le condizioni di incontro tra figli e genitori detenuti, affinché a disagio non si aggiunga altro disagio. Fa anche questa riflessione Alain Bouregba, psicoanalista francese di origine algerina e autore del libro Les liens familiaux à l’épreuve du pénal (Edizioni Érès, 2002, purtroppo non tradotto in italiano). Ha fondato la rete europea Eurochips e da tempo dirige la Federazione Relais Enfants-Parents, un "ombrello" di associazioni presente in Francia da vent’anni, che oggi coinvolge 500 volontari e quaranta psicologi. Il loro impegno si snoda in sessanta penitenziari tra i 187 d’Oltralpe: accompagnano ai colloqui tremila figli di detenuti, li ascoltano per coglierne i segnali di malessere, gestiscono gli incontri dietro le sbarre perché siano meno dolorosi e permettano di costruire, al di là della reclusione, un’autentica relazione familiare.

In settembre Bouregba è stato a Milano, dove ha tenuto un seminario per l’associazione Bambini senza sbarre. Lo abbiamo incontrato cercando di capire, attraverso la sua esperienza e i suoi studi, in che modo il carcere condizioni lo sviluppo di un bambino e che tipo di rapporto si instaura tra un figlio e un genitore detenuto.

 

Partiamo da chi si ritrova dietro le sbarre da neonato, detenuto insieme alla madre. Che impronta lascia su un bambino un orizzonte tanto asettico e limitato?

Il bambino detenuto accanto alla madre subisce certamente un danno, ma il danno che gli provocherebbe vivere lontano da lei credo che sarebbe molto più drammatico. Ecco perché la maggior parte dei Paesi europei ha scelto di permettere al figlio di restare con la madre. Trascorrere i primi mesi di vita in prigione porta con sé inevitabili conseguenze, a livello psicologico, e in larga parte influiscono le condizioni di detenzione: più queste sono degradate, più le conseguenze possono essere enormi sul neonato. Dunque la prima cosa da fare è migliorare tali condizioni. Ma c’è un’altra carenza che danneggia il bambino in carcere con la madre: stare lontano da suo padre. Tutti gli studi contemporanei di psichiatria e di psicoanalisi dimostrano che il padre è un attore importante per il figlio fin dai primi mesi di vita, e dunque, accanto agli sforzi per migliorare le condizioni detentive delle madri e dei loro figli, si deve lavorare affinché la triade padre-madre-bambino possa riunirsi con la maggiore frequenza possibile.

 

Come funziona in Francia la legge per le madri detenute? È simile a quella italiana?

No: in Francia i bambini possono vivere con la madre detenuta solo fino a diciotto mesi. Su questo punto la legislazione italiana è più avanzata della nostra, poiché la gestione della pena è una preoccupazione che in Italia ha una tradizione più antica. Gli arresti domiciliari, per esempio, in Francia non esistono. I giudici di sorveglianza in Italia ci sono da più tempo, mentre in Francia le figure equivalenti per l’applicazione delle pene sono state introdotte solo negli anni Settanta. In Francia contano solo il processo e la condanna: quello che accade all’interno delle prigioni non interessa.

 

In Francia, più di cinquantamila minorenni hanno un genitore detenuto: fra loro, uno su cinque ha meno di sei anni. Cosa significa per un bambino varcare la porta di un carcere per incontrare suo padre o sua madre?

È difficile crederlo, ma può essere la cosa più naturale del mondo. È vero, spesso è doloroso e complicato, magari il figlio non sa cosa dire ai genitori e loro sono turbati e non sanno come prenderlo. L’incontro può rivelarsi difficile, ma non incontrarsi provoca un danno ancora più grave al bambino: l’assenza, paradossalmente, rischia di alterare la sua capacità di separarsi psichicamente dai genitori. E questa separazione rappresenta il presupposto della sua crescita. Il bambino si separa psichicamente dai genitori solo se ha avuto abbastanza occasioni per incontrarli e condividere con loro dei momenti della sua vita. Quando invece si allontana fisicamente dal padre e non lo incontra mai, non si distaccherà da lui psichicamente: finirà per idealizzarlo o per demonizzarlo, ma comunque se ne formerà un’immagine diversa dalla realtà. Affinché il bambino che deve crescere possa provare a separarsi dal genitore, bisogna per forza metterlo in contatto con lui.

 

Anche quando è molto piccolo?

Soprattutto quando è molto piccolo. Al contrario di ciò che si immagina, quando i genitori vengono cancellati dalla vita del bambino e non c’è mai un incontro faccia a faccia, non si spazza via il suo malessere. Bisogna invece esasperare nel bambino la presenza del genitore, altrimenti quando crescerà si convincerà che è lui che è stato allontanato, è lui che è stato dimenticato, è lui che è stato cancellato dalla vita del padre o della madre: cercherà di colmare un vuoto immaginario nella sua testa. E arriverà a un punto che non riuscirà a separarsi dall’immagine che lui stesso si è creata. È una necessità che si fatica a comprendere, e invece è fondamentale: tutti gli sforzi – spesso criticati sia in Francia che in Italia - per aiutare il bambino a conservare delle relazioni con il genitore detenuto, sono orientati proprio a permettergli di crescere.

 

Quali sono le parole giuste per spiegare a un bambino una verità tanto difficile: che suo padre o sua madre sono in carcere perché hanno commesso un crimine?

La detenzione può essere come la malattia: si può lavorare con un bambino che ha i genitori in carcere come si lavora con chi ha genitori malati, è esattamente la stessa cosa. E gli adulti sbagliano a pensare che il problema sia «come dirlo al bambino». La vera questione è piuttosto: «come ascoltare il bambino». Lui comprende perfettamente tutto ciò che gli accade intorno, ne ha la percezione, si rappresenta quello che è accaduto ai genitori. Quindi, prima di prepararsi un discorso per spiegare al figlio la situazione, bisogna mettersi alla sua portata e chiedergli: «Cos’hai percepito di questa situazione? Cosa mi puoi raccontare?». Non ho mai incontrato un bambino – e da vent’anni mi occupo di queste questioni - che non sapesse che il suo genitore era detenuto. Ho incontrato bambini che non avevano gli strumenti per parlarne, che non erano autorizzati a dirlo. Invece è importante dar loro gli strumenti per raccontare, a modo loro, quello che sta succedendo in famiglia.

 

C’è stata una storia individuale, in questi anni di ascolto, che l’ha colpita più di altre?

Sì, ce n’è una che mi ha sorpreso e che illustra bene come sia inutile nascondere la verità al bambino. Una madre mi telefonò, presa dal panico perché suo marito era stato appena incarcerato: «È terribile», mi disse, «non so come dirlo alla mia bimba di cinque anni». Sono venute da me. Erano state per ore in commissariato, insieme, eppure la madre continuava a coprire la verità alla figlia. Allora ho cominciato a fare qualche domanda alla piccola: «Come ti chiami? Che scuola fai?»… A un certo punto mi ha parlato di suo padre, dicendo che era gentile, che le regalava giocattoli. E io le ho chiesto: «Dov’è lui adesso?». E lei: «Papà è all’ospedale». «Davvero? E cosa gli è successo?». «Era con me. Ho mangiato troppo cioccolato e ho fatto la cacca bianca. Così lui mi ha portata all’ospedale, dove mi hanno visitata». Mi ha raccontato questa giornata immaginaria all’ospedale e alla fine ha detto: «Siccome ho mangiato troppo cioccolato sono stata punita». E io: «Punita? Ma allora anche tuo padre, che era con te, è stato punito». «Sì», mi ha risposto, «infatti adesso è in prigione». Mi ha colpito molto il percorso che ha fatto per dirmelo, questo passaggio dal mal-essere al mal-fare. E questo episodio dimostra che bisogna ascoltare un bambino, cercare di capire come si rappresenta le cose, cosa significano le sue parole e le sue storie inventate. Un bambino ha una grande capacità di analisi: è inutile cercare di rasserenarlo con finte verità.

 

Alcuni detenuti non riescono a parlare con i figli del loro reato, qualcuno si proclama innocente per vergogna. In questo modo proteggono davvero il bambino dalla realtà del carcere?

No, è l’esatto contrario. Ho incontrato molte situazioni del genere. Quando il padre dice al figlio di essere innocente, quindi incarcerato ingiustamente, non fa che coinvolgerlo nel danno: lo mette nella sua stessa situazione. È come se gli dicesse: «Vedi il male che mi fanno? È un male che ci fanno». E questo il bambino non lo vuole: gli fa già male crescere. Dunque tenderà a rifiutare il genitore. Quando invece il padre è davvero innocente, non deve aver paura di dire al figlio: «Io sono in prigione per delle cose che mi sono accadute, questioni fra adulti. Cercherò di risolverle, ma intanto fra me e te queste cose non devono entrare». Un genitore deve tener fuori il bambino dal suo problema, perché il bambino non è in grado di capirlo.

 

In che modo si può "insegnare" a un bambino ad affrontare gli spazi e le regole di un penitenziario per traumatizzarlo il meno possibile?

Innanzitutto, parlando di tutto ciò che fa parte dell’ingresso al carcere e della sicurezza: non bisogna lasciarlo estraniare da ciò che attraversa. Bisogna spiegargli che passerà per porte blindate, che lo controlleranno, che qualche volta non potrà incontrare suo padre o sua madre, o che li troverà stanchi. Insomma, farlo confrontare con qualcosa che è sì complicato e doloroso, ma va verbalizzato. L’altro punto fondamentale è gestire gli spazi: un bambino deve poter incontrare i genitori detenuti in luoghi adatti alla sua dimensione, con i mobili che gli sono familiari, con meno persone possibile intorno. È necessario sforzarsi ancora molto, in Francia come altrove, per creare negli istituti penitenziari degli spazi adeguati per l’infanzia.

 

Torniamo al rapporto genitore-figlio. In una società come la nostra, dove il successo è un valore assoluto, come si fa a dire a un bambino: «Tuo padre è in carcere, dunque ha sbagliato, ma resta tuo padre e puoi ancora dargli fiducia»?

Un padre detenuto è come un padre disoccupato: mette a disagio il figlio, perché questi realizza che suo padre non è come lui desiderava che fosse. Inoltre il bambino nutre un senso di colpa, per il fatto di sognare un genitore diverso da quello reale. Spesso lo si deve aiutare proprio a superare questo senso di colpa. Dal punto di vista del padre, invece, è importante che cerchi di trasmettere al bambino non quello che il bambino avrebbe desiderato ricevere, ma semplicemente ciò che lui avrebbe desiderato dargli. Solo in questo modo farà capire al figlio che ha fiducia in lui, come se gli dicesse: «Io non posso darti tutto ciò che vorrei, ma so che non è grave perché tu hai la forza sufficiente per crescere ed essere felice». Quando si dà al proprio bambino la rassicurazione che lui sarà in grado di crescere nonostante la situazione di diversità che sta vivendo, gli si dà effettivamente la forza per farlo. Chi invece sommerge i figli di beni materiali, spesso finisce per non dare nulla, perché è intimamente convinto che il figlio non abbia la capacità di confrontarsi con il mondo. Quindi, alla fine, non gli trasmette che la certezza della sua inadeguatezza.

 

Alcune ricerche sostengono che chi ha un genitore in carcere ha più probabilità rispetto agli altri di diventare un criminale.

Lo dicono alcuni studi americani, che però vanno presi con molta circospezione per una semplice ragione: la popolazione penale non è rappresentativa della popolazione generale. In carcere troviamo soprattutto persone che provengono da contesti di precarietà e marginalità sociale. E naturalmente i loro figli si confrontano con situazioni analoghe, ritrovandosi più esposti degli altri alla delinquenza. Io non sono d’accordo con chi dice che il carcere è una conseguenza di certi contesti sociali: non tutte le persone che vivono nella precarietà diventano delinquenti. Ma è un fatto che la marginalità espone maggiormente alla delinquenza.

 

Dal punto di vista della persona detenuta, perché può giovarle conservare un rapporto sereno con i propri figli?

Nell’esperienza umana, i legami con i nostri figli sono quelli che sentiamo di più. Se si rinuncia a questi, si finisce per rappresentare se stessi in maniera totalmente squalificata. Sono certo che quando un detenuto rinuncia al rapporto con i figli, rinuncerà a riabilitarsi, reagendo alla pena in modo impulsivo. Avrà un’immagine di sé degradata, perché nulla avrà più importanza per lui. Questa è una delle cause della recidiva, non ci sono più dubbi su questo: i genitori detenuti che hanno rinunciato a essere genitori, rischiano tre volte più degli altri di tornare a delinquere. Un padre e una madre vanno aiutati a confrontarsi con i propri figli affinché si sentano ancora qualificati nel loro ruolo e riconfermati nella loro capacità di esercitare la funzione genitoriale.

 

A che punto sono i Paesi europei nella comprensione di questi concetti?

Resta molto da fare: per nessuna delle amministrazioni penitenziarie dell’Unione europea, la relazione tra genitori detenuti e figli è una priorità. Eppure tutti inseriscono questo tema nelle loro agende di lavoro. Tutti sostengono che la questione dell’infanzia debba essere affrontata. E questo è un bene, è un progresso. Ma tra il fare di questo problema un tema di riflessione, e farne una priorità nelle scelte di politica penitenziaria, c’è una grande differenza. E nessun Paese europeo può vantarsi di essere più avanti degli altri: perfino la Francia che si occupa di questo problema da più tempo, in realtà non fa nulla. Tutti i Paesi europei sono sulla stessa barca: hanno unanimemente riconosciuto che è importante questo tipo di prevenzione del disagio sociale e della marginalità. Tutti hanno ammesso che le relazioni familiari in carcere sono un mezzo per ridurre la recidiva e per facilitare la gestione della pena: chi mantiene i contatti con i propri figli, riceve richiami disciplinari tre volte meno degli altri. Insomma, tutti in Europa sanno che non si può ignorare tale problema. Ma, ripeto, tra il non ignorare e promuovere azioni efficaci, c’è un vuoto che per ora solo le associazioni cercano di colmare.

 

Davvero nessuno Stato in Europa ha fatto più degli altri su questo versante?

No. Diciamo che ogni Paese ha tentato di aggiustare e costruire delle esperienze, e certi Paesi sono molto avanti in determinati campi. Per le condizioni di visita l’Olanda è la migliore; la Spagna permette delle visite "private" in carcere per i familiari; la Francia è avanti per l’accompagnamento in carcere dei bambini che non possono essere accompagnati dalla famiglia; nel campo degli arresti domiciliari è esemplare l’Italia; la Germania, invece, per la co-detenzione madri e bambini. Abbiamo una grande opportunità con l’Europa: potremmo unire tutto ciò che funziona bene nei vari Paesi.

 

 

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