Numero ottobre 2012

 

Alla ricerca della ricetta della rieducazione

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Ristretti Orizzonti

(anno 14, numero 5 Settembre - Ottobre 2012)

 

Editoriale

C’è anche un giornalismo maleducato, al quale serve una seria rieducazione di Ornella Favero

Capitolo quinto: Mala e buona educazione

Una società nella quale retribuire il male con il male è considerato un valore di Gherardo Colombo

La rieducazione è un cammino di apertura di Claudia Mazzucato

Capitolo sesto: La rieducazione sentimentale

Noi, per essere un po’ più detenuti, diciamo sempre di non avere paura! di Dritan Iberisha

Il coraggio di non isolarsi, di non nascondersi, di non vergognarsi di Marina, madre di un detenuto

La vita emotiva è ciò che rende le persone degne di questo nome di Alessandra Augeli

Capitolo settima: Il racconto di sé per ritrovare il bandolo della matassa della vita

La mia “revisione critica” negli incontri con le scuole di Ulderico Galassini

Le parole che hanno segnato la nostra vita di Fatjon Cana

Sguardi sopra le mura di Peppe Pasini, docente all’Università di Milano Bocconi

Un’occasione per “pensare pensieri non pensati” sul tema della rieducazione di Adolfo Ceretti

Che autorevolezza ha chi rieduca in queste condizioni di illegalità diffusa di Rita Bernardini

Riflessioni e contributi dopo la Giornata di Studi

Quelle circolari che quasi nessuno riesce a rispettare
Educazione significa tirar fuori da ciascuno la propria unicità
Chi educa chi. Parlare di rieducazione significa parlare di democrazia
“Apprendimento” ed “educazione” non hanno luogo solo nelle aule scolastiche
Il prezioso lavoro di educarci ad uscire dalla violenza
I ragazzi delle scuole sono come uno specchio dove riesco a vedere il mio passato
Elogio degli appunti nella prevenzione dei reati
I punti e le virgole della vita

Redazione

Editoriale

 

C’e’ anche un giornalismo maleducato, al quale serve una seria rieducazione

di Ornella Favero

 

può sembrare strano, in un numero di Ristretti che continua l’approfondimento sul tema della rieducazione, iniziare con la pubblicità di un canale televisivo, ma voglio farlo, e invitare a guardare tante serie americane riproposte da GIALLO, per verificare una amara verità: che queste serie raccontano la giustizia e le carceri in modo molto più preciso, efficace, attento di quanto fanno i programmi di informazione e di approfondimento nel nostro Paese.

Qualche giorno fa ho rivisto una puntata di Shark, dove l’avvocato Sebastian Stark, un pubblico ministero brillante e sicuro di sé, entra in crisi quando scopre che la figlia quindicenne si fa le canne e decide, come forma di prevenzione, di portarla in carcere a sentire la testimonianza di un suo ex assistito, il suo calvario di tossicodipendente, la sua vita deragliata fino alla galera senza ritorno. Quello che ha capito Stark da noi stentano a capirlo le istituzioni, e più in generale tutta la società: che dal carcere si può fare davvero prevenzione, e il racconto di sé delle persone detenute può diventare un momento fondamentale sia della rieducazione che, appunto, di una autentica prevenzione. Ma questo presuppone che invece di tante campagne di stampa, e campagne elettorali all’insegna della “certezza della galera” e del “buttare via la chiave”, si debba ripensare la pena ritornando al senso che hanno voluto darle i padri costituenti.

E allora, quale rieducazione può essere più sensata di quella che vede la persona detenuta mettere a disposizione dei ragazzi delle scuole la sua vita, ripercorrerla insieme a loro, scavare sull’inizio dello “scivolamento” nell’illegalità, cercare di capire di più di sé per riuscire a rispondere alle domande di quegli studenti, nei quali tanti detenuti vedono i loro figli? E quale prevenzione può essere più efficace di quella che permette a tanti giovani di imparare a vedere i rischi di certi comportamenti “sul filo” della legalità, di misurarsi con il male che può anche toccare le nostre vite, di capire quanto è importante avere l’umiltà di chiedere aiuto?

Ma se la rieducazione è un percorso di scambio, di confronto, di cambiamento che investe tutti i soggetti coinvolti, noi che ci occupiamo di informazione dal carcere vorremmo che questo percorso toccasse anche i professionisti dell’informazione, e il caso Sallusti ci sembra da questo punto di vista perfetto: perché i quattrodici mesi di pena comminati al direttore del Giornale per diffamazione non sono affatto un caso di libertà di opinione messa a rischio, sono piuttosto un caso di giornalismo “maleducato”, pieno di falsità e cialtrone, di cui è responsabile sia chi ha scritto l’articolo incriminato, sia anche chi l’ha ospitato, e non ha avuto neppure il coraggio di chiedere scusa.

Ma si sa, uno il coraggio non se lo può dare, nonostante quello che vorrebbe far credere la fiera esibizione di Sallusti, che si sente uno “con le palle” perché non ha paura di andare in carcere. E invece ha ragione un detenuto di Ristretti, quando ha ribattuto che del carcere BISOGNA AVERE PAURA. E però per averne paura bisogna anche conoscerlo da vicino, e allora l’invito che facciamo ad Alessandro Sallusti è di “assaggiare” il carcere venendo a farun lavoro di pubblica utilità, o un affidamento nella redazione di Ristretti Orizzonti: un serio percorso di rieducazione non si dovrebbe negare a nessuno.

 

Capitolo quinto: Mala e buona educazione

 

Può sembrare fuori moda parlare della bellezza del concetto di rieducazione, ma basta infilarsi nel traffico delle strade delle nostre città o chiedere la ricevuta fiscale in un ristorante per capire che, se il senso della legalità è spesso così basso anche fra i cittadini “onesti”, forse tornare a discutere di educazione e rieducazione degli adulti ha un significato, forte e chiaro. Magari all’interno di un dibattito che faccia ritornare al centro dell’attenzione dell’intera società l’idea della buona educazione, e il senso di una pena che la Costituzione ci chiede che sia “rieducativa”. Quella Costituzione da cui ci piace ripartire, rileggendo uno dei padri costituenti, Piero Calamandrei, le sue parole sul carcere, la sua aspirazione a fondare una “religione civile” capace di trovare nel senso dello Stato il suo valore più alto.

 

Adolfo Ceretti presenta Gherardo Colombo

 

Gherardo Colombo, ex Magistrato, Presidente della Casa Editrice Garzanti. Autore, tra gli altri, dei saggi “Sulle regole”, “Democrazia” e “Il perdono responsabile”. Desidero richiamare, anche oggi, questo suo appellativo: “Apostolo della Costituzione”. Da anni, da quando ha lasciato la magistratura, Colombo entra infatti quotidianamente nelle scuole di tutta Italia per dialogare con studenti di tutte le età sui temi della Giustizia e della Costituzione, e lo fa in qualità di Presidente della Associazione Sulle Regole, associazione della quale sono onorato di essere un componente.

Condivido con Gherardo un’amicizia sempre più profonda e vera da ormai 20 anni, e ho scelto, anche per lui, qualche pensiero introduttivo. Sono parole che Gherardo ha pronunciato nel corso di un’intervista ai margini di un Convegno - I crimini dell’obbedienza. Giustizia penale internazionale: riconoscere l’altro, ricostruire l’umano – che si è svolto qualche anno addietro. In quell’occasione Gherardo aveva dichiarato: “Come potremo essere giudicati, noi, tra cinquanta, cento anni? Guardando a quello che è successo in passato, noi giudichiamo sulla base dei nostri metri di oggi, guardando le cose con un certo distacco. Cosa accadrà quando i nostri comportamenti di oggi – per esempio il fatto che fabbrichiamo armi – verranno messi in relazione con le conseguenze che producono e che produrranno? Sono tante le domande che dobbiamo farci sull’espressione giustizia: è davvero questo lo strumento che può, almeno in parte, correggere quelle storture delle quali noi ci accorgiamo quando guardiamo indietro e quando guardiamo gli altri, ma che spesso non vediamo quando guardiamo noi stessi? Venendo più vicino a noi, consideriamo la strettissima relazione che esiste oggi tra la deviazione e la sanzione che viene applicata come conseguenza di tale deviazione, e l’altrettanto stretta relazione sussistente tra sanzione e affettività: come potranno essere valutate queste relazioni domani, quando (forse) il concetto di retribuzione sarà superato?”.

Ecco, è proprio questa la questione stringente, perché Gherardo Colombo sta impostando tutto il suo pensiero sulla possibilità di andare oltre il concetto di retribuzione comunemente inteso…

 

Una società nella quale retribuire il male con il male  è considerato un valore

Pena significa necessariamente punizione e sofferenza. Io credo invece che la strada per educare alla libertà  non implichi sofferenza, implichi invece fatica

 

Di Gherardo Colombo, ex magistrato, presidente della casa Editrice Garzanti

 

E’ un’impresa riuscire a parlare in modo comprensibile di questo argomento in solo un quarto d’ora, o venti minuti. Temo da una parte di non riuscire ad essere comprensibile, dall’altra di non riuscire ad evitare di ripetere cose già dette, perché questa mattina ne abbiamo sentite tante molto interessanti e molto importanti, e quindi il rischio è forte. Detto questo, cerco di dare l’idea del percorso che secondo me porta a escludere (non a ridimensionare, ma a escludere) il “valore” della retribuzione. Metto la parola tra virgolette, perché secondo me, contrariamente a quel che pensano in tanti, la retribuzione costituisce non un valore ma un disvalore.

Io ha fatto il magistrato penale per 33 anni. Quando sono entrato in magistratura, con l’intenzione di fare il giudice penale, alla efficacia della pena evidentemente credevo; l’esperienza pratica della amministrazione della giustizia penale mi ha portato a convinzioni che hanno influito, insieme ad altre, sulla decisione di dimettermi e dedicarmi soprattutto alle scuole, pur potendo continuare a fare il magistrato per altri 14 anni. Mi riferisco al tema delle conseguenze della trasgressione, tema cruciale, essenziale, che secondo me costituisce la cartina di tornasole per verificare la differenza, anche sotto il profilo delle convinzioni personali, tra una società di tipo gerarchico discriminatorio, e una società delle opportunità pari.

La mia opinione è che la società delle opportunità pari, la società non discriminante è in antitesi, è veramente in antitesi rispetto a una società nella quale il retribuire il male con il male è considerato un valore. Cerco di spiegarmi: perché è un punto cruciale? Perché riguarda quella parola, il senso, il concetto della “rieducazione” (per usare il termine della Costituzione, termine che personalmente abbandonerei perché ora evoca contesti e situazioni che in altri Paesi hanno celato la omologazione violenta del pensiero: preferirei parlare di re-inclusione o meglio di riconciliazione).

La convinzione generale, nel corso dei secoli, è stata che la pena serve per educare. Serve per educare, a cominciare dai bambini per finire a coloro che hanno sbagliato e quindi evidentemente vanno ri-educati, bisogna educare di nuovo perché la prima educazione si è persa. Il principio, in questa ottica, è che la pena serve a educare comunque, tant’è che si tratta di un principio applicato regolarmente anche fuori dal carcere: i bambini sono normalmente educati attraverso il sistema del premio e della punizione. Perché questo sistema è così radicato nella nostra cultura? Credo che questo dipenda dal fatto che noi, noi intesi come umanità, siamo sempre vissuti facendo riferimento, avendo come modello sociale una società della discriminazione.

La società è sempre stata modellata come una piramide: chi sta in alto può, chi sta in basso invece deve. Per far funzionare una società del genere è necessario educare all’obbedienza. Perché questa serve a mantenere la discriminazione: devi fare questo, perché te lo dico io, perché te lo comando (il premio provoca lo stesso effetto). La società della discriminazione, la società verticale è la società di sempre, è così radicata nel nostro modo di essere che quando pensiamo a educazione evidentemente pensiamo ad educare a obbedire.

Se però continuiamo a praticare quel modello dopo che è entrata in vigore la Costituzione, vuol dire che non ci siamo accorti che la Costituzione è entrata in vigore. La Costituzione ha trasformato, sotto il profilo formale, la società da verticale a orizzontale. La Costituzione ha come principio fondamentale l’affermazione, contenuta nel primo comma dell’art. 3, che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale. E’ l’esatto contrario di quel che accadeva prima, quando il principio era la discriminazione (la discriminazione di genere, per esempio, è stata solo parzialmente superata il 2 giugno 1946 con la pratica applicazione del suffragio universale).

Ebbene la Costituzione parte da lì, tutti i cittadini, possiamo usare parole più semplici, tutti i cittadini sono importanti allo stesso modo, i cittadini non sono la massa di persone di cui parla il Grande Inquisitore di Dostoevskij, incapaci, ignare, ribelli, pusillanimi e via dicendo, no! i cittadini hanno tutti un valore. Questo è il principio che informa tutto il resto: perché si può scrivere che l’Italia è una Repubblica democratica (articolo 1) soltanto se si premette che tutti i cittadini sono importanti, che tutti i cittadini hanno la stessa dignità. Ma che senso avrebbe, infatti, il governo del popolo, se qualcuno fosse degno e qualcun altro no? La forma di governo dovrebbe essere l’oligarchia, la monarchia, ma sicuramente non la democrazia. E che senso avrebbe affermare che la sovranità appartiene al popolo, se il popolo fosse composto di alcune persone degne e di alcune indegne; e riconoscere i diritti fondamentali a chiunque (la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, articolo 2)? Ora se il punto di partenza è la dignità, e democrazia vuol dire governo del popolo, è necessario, perché la democrazia funzioni, che il popolo, le persone, ciascuna delle persone, invece di essere educata all’obbedienza sia educata alla libertà, che vuol dire anche sia educata alla responsabilità. Il modello culturale secondo il quale educazione significa stimolo all’obbedienza è incompatibile con il modello sociale basato sul riconoscimento della dignità di tutti, della democrazia e del riconoscimento generale dei diritti. Credo che la ragione per la quale la democrazia in Italia non funziona bene sia costituita dal fatto che le persone vengono generalmente educate ad obbedire e non a gestire la propria libertà (e la propria responsabilità).

Se tutto ciò vale per l’educazione in generale, vale anche per la “rieducazione”! Se, in modo molto più drastico, evidente e penalizzante succede per la “rieducazione” degli adulti quel che succede nei confronti dei ragazzi, quando mai si riuscirà a educare le persone a reimmettersi nella società positivamente? Già è stato detto, e credo che sia evidente per tutti noi, che questo incontro è una occasione bellissima per poter approfondire il tema del carcere. Sono un po’ stupito dall’atteggiamento mentale che trovo qui, perché di questi argomenti parlo spesso in altre sedi (ieri sera in una parrocchia a Firenze, il pomeriggio in una università a Pisa) e di solito l’approccio è l’opposto, si parlano dei linguaggi diversi, il linguaggio della gente è quello dell’obbedienza e della retribuzione. Sarebbe bello riuscire a portarlo in giro, farlo respirare, l’approccio di oggi; e sarebbe stato bello che ci fosse qualche responsabile della amministrazione di questo Paese a dialogare con noi, perché invece sembra di trovarsi di fronte a due mondi separati. Qui ci poniamo interrogativi, questioni che altrove sono praticamente sconosciuti, credo a causa di una inconsapevole presa di distanza dai problemi reali. Perché se fossero conosciuti nella loro effettività “si perderebbe l’innocenza” , e bisognerebbe fare i conti con le proprie azioni.

Dicevo: perché funzioni la società basata sul riconoscimento della persona, è necessario che l’educazione sia educazione alla libertà e quindi educazione alla responsabilità. Libertà e responsabilità sono termini inscindibili, si è liberi in tanto in quanto si è responsabili, e si può essere responsabili soltanto se si è liberi. La retribuzione del male con il male da una parte, quanto agli effetti, tende a creare obbedienza; dall’altra parte secondo me sconta un difetto logico di partenza del quale evidentemente si fa una gran fatica ad accorgersi. Se si pensa che chi ha commesso il male debba soffrire altrettanto male, che infliggere il male sia giusto, vuol dire che si crede che attraverso il male si possa arrivare al bene. Ma se il male ha come risultato il bene finisce di essere male e diventa bene. E se il male diventa bene il male scompare, e se non c’è più il male, se non si distingue tra bene e male non ci sono più punti di riferimento ed esiste solo confusione. Quindi, tra il modo attraverso cui educare, e il fine dell’educare non c’è soltanto una questione di coerenza dei mezzi, l’educazione, con il fine, la società organizzata secondo i principi della Costituzione: ci sono anche degli altri aspetti, e uno di questi aspetti è di carattere logico: si può arrivare al bene infliggendo il male?

Un aspetto ulteriore, che ho lasciato per ultimo ma che credo sia il più importante sotto il profilo dei principi, riguarda la coerenza con l’elemento fondante della Costituzione, l’affermazione che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale. Chi l’ha scritta, la Costituzione, ne ha tenuto ben conto redigendo l’articolo 27, stabilendo che la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato. Secondo me il legislatore avrebbe portato a compimento la sua opera in questa materia se invece della parola “pena” avesse usato una parola diversa (perché pena vuol dire necessariamente: punizione e sofferenza, e la parola, necessariamente richiama l’idea di retribuzione). Credo invece che la strada per educare alla libertà non implichi imposizione di sofferenza, ma comporti semmai fatica, una grande fatica, quella fatica che ciascuno di noi compie nel percorso che dalla nascita si svolge per tutta l’esistenza per diventare e continuare a essere liberi.

Mi accorgo di avere tralasciato un aspetto. Lo introduco per evitare che qualcuno si spaventi, pensando che l’abolizione della pena contrasti con la sicurezza delle persone. Io sono convinto che chi è pericoloso deve essere messo in condizione di non mettere in atto la sua pericolosità, ma questo non c’entra con la pena. Voglio dire: che relazione esiste tra garantire la sicurezza dei cittadini ed impedire a chi ha commesso un reato di mantenere le sue relazioni affettive? Peraltro, ammesso e non concesso che sia consentito troncare le relazioni affettive di chi ha commesso un reato, dove sta la giustificazione dell’impedire le relazioni affettive di coloro che gli stanno intorno? Sei ore al mese di colloquio controllato visivamente sono la negazione della relazione affettiva. E che relazione esiste tra la sicurezza e l’imposizione di vivere in una cella tre metri per quattro, chiusi per ventidue ore al giorno, insieme ad altre persone?

Se quel che ho finora esposto è condivisibile, perché la conseguenza applicata alla trasgressione continua ad essere il carcere? Io credo che la questione sia condizionata da due elementi. Uno è assolutamente irrazionale, ce lo portiamo dentro più o meno tutti, e sta nella paura. La risposta più immediata alla paura consiste nella rassicurazione, e mettere in gabbia chi ci fa paura indubbiamente rassicura. Paura non solo dell’altro, ma anche paura di se stessi: per vederci innocenti, per vederci liberi dal male abbiamo bisogno di identificare il male fuori di noi e il carcere rende il male visibile altrove da noi. L’altro elemento sta nell’efficacia persuasiva che l’argomento carcere assume nella competizione elettorale, come risposta gradita da una gran parte della cittadinanza ai problemi di sicurezza (o meglio alle esigenze di rassicurazione).

La rassicurazione, ben diversa dalla sicurezza, si raggiunge promettendo pene più severe, giustizia più rapida, maggior ricorso al carcere, perché le persone credono che questa sia a strada per avere maggior sicurezza.

Finché non cambia il modo di pensare della collettività, sarà ben difficile che si possa andare veramente e seriamente verso una modificazione sostanziale dello stato delle cose. Il cambiamento dipende non solo da noi che siamo qui oggi, ma in generale da tutte le persone. Perché cambi l’approccio culturale, l’approccio mentale della collettività nei confronti non soltanto del carcere, ma dell’educazione e del modo di stare insieme è necessario che si passi dal considerare valore la discriminazione e la sopraffazione al ritenere punto di riferimento il riconoscimento reciproco. È, come dicevo, un percorso che richiede l’impegno di tutti. Chi, come succede qui, avverte maggiormente la necessità di seguirlo, ha la responsabilità di rendere evidente questa necessità anche a coloro che ancora non la avvertono.

 

Adolfo Ceretti  introduce  Claudia Mazzucato

 

Claudia Mazzucato è Professore Aggregato di Diritto Penale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Conosco Claudia dal 1994 e quello che desidero dire di lei per presentarla, dato che molti di voi non la conoscono direttamente, è che Claudia ha una forza spirituale che oso ormai paragonare a quella di Simone Weil – e non sto esagerando… A essa si accompagna un indiscusso rigore scientifico nello studio della sua disciplina. Detto altrimenti, ascoltare Claudia è un’esperienza che muove a declinare in modo inedito la parola giustizia.

Mazzucato è componente del Comitato di Ricerca del Centro Studi Federico Stella sulla Giustizia Penale e la Politica Criminale, diretto dal mio caro amico Professor Gabrio Forti, un Centro nato con lo scopo di promuovere la ricerca teorica applicata sui temi della giustizia penale e della politica criminale. Claudia, in particolare, studia da anni la questione della conformità volontaria alle norme e la collaborazione dei cittadini alla prevenzione non repressiva dei reati, cui corrisponde un criterio di reale parsimonia nel ricorso alla pena. Ed è proprio su questi temi che, ora, interverrà.

 

La rieducazione è un cammino di apertura

Con l’idea che la pena deve “tendere alla rieducazione” è stata introdotta nell’ordinamento penale una dinamica aperta, volta alla messa in gioco di capacità che siano in grado di riconciliare la libertà con la responsabilità

 

di Claudia Mazzucato, professore aggregato di diritto penale

nell’Università Cattolica del Sacro Cuore

 

Sono rimasta molto toccata da tutti gli interventi e in particolare da due che mi paiono simmetrici: quelli di Qamar e di Deborah Cartisano.

Qamar ci ha raccontato: “Mi sono costituito perché mio papà mi ha detto che era giusto: hai sbagliato, devi costituirti”; ci ha riferito che, per lui, suo padre è stato in tal senso un esempio. La parola “esempio” è tornata anche nell’intervento di Deborah Cartisano, la quale di nuovo ci ha parlato di un uomo, coinvolto nel sequestro e poi nella morte di suo padre, che – pur non essendosi costituito – ha sentito però l’impulso e ha trovato il coraggio di dire una verità scomodissima. La parola “esempio” è stata infine riferita al papà di Deborah e lei stessa del resto è stata per noi oggi un esempio.

Mi colpisce profondamente il fatto che sia Qamar sia questo anonimo sequestratore siano due “esempi” alquanto singolari e rari nel panorama abituale della giustizia penale: entrambi hanno sentito il dovere e avuto il coraggio di dire la verità, seppure in modi tanto diversi. In sede penale, di solito, l’autore di un reato non confessa il suo crimine, perché a confessarlo c’è ben poco da guadagnarci: a chi si costituisce, a chi dice la verità, viene al più riconosciuta una attenuante; chi si costituisce, chi dice la verità, ha però la tragica certezza di venire punito. Ci vuole quindi un gran coraggio.

La giustizia penale, come tradizionalmente intesa, non è costruita intorno al valore della verità, né è costruita, almeno per tutta la fase processuale, attorno all’idea di responsabilizzazione. Mi colpisce sempre come due riconosciute virtù civili – verità e responsabilità; o meglio: verità e responsabilizzazione – vadano in cortocircuito nella giustizia penale. E infatti anche uno dei sequestratori (e forse uccisori) del papà di Deborah, per poter dire la verità, ha dovuto nascondere il suo volto alla giustizia: mostrandolo, avrebbe avuto corso la sanzione punitiva. Mi colpisce come la giustizia – un’altra riconosciuta una virtù civile – in sede penale venga trasformata in ritorsione, cioè in qualche cosa che fa del male e di fronte a cui difendersi.

Lo Stato democratico non nasconde simile dimensione aggressiva e negativa della giustizia, al punto che per primo consente al cittadino di proteggersi dalla giustizia penale grazie a diverse garanzie costituzionali e processuali (sia chiaro: guai a toccarle!): il diritto di non dire la verità e il diritto di non assumersi la responsabilità; o, se vogliamo, in termini più tecnici il principio noto come “nemo tenetur se detegere”, la presunzione di innocenza, il diritto costituzionale di difesa, le impugnazioni. Di fronte alla giustizia, si ha il diritto costituzionale di difendersi e non si può essere tenuti ad auto-accusarsi. Il che è come dire che non si è tenuti a dire la verità. Perché in ambito penale verità e responsabilità fanno male (il male di una pena alquanto afflittiva), e lo Stato democratico non può esigere da una persona che vada volontariamente incontro al proprio male, al male della pena.

Ma è questa l’idea di giustizia che aveva in mente la Costituzione? Ne siamo sicuri?

Voglio anch’io seguire l’itinerario aperto da Gherardo Colombo con il suo intervento.

L’art. 27, comma 3, della Costituzione è il valore attorno al quale siamo riuniti qui oggi, un valore civile importante: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Desidero ricordare che questo comma è stato voluto da qualcuno che poi è diventato vittima: è stato voluto da Aldo Moro. Mi fa riflettere il fatto che tanti esseri umani hanno potuto invocare l’art. 27 terzo comma della Costituzione per ottenere cammini di liberazione (di uscita dal carcere in senso stretto) e di risocializzazione; che quella norma costituzionale è stata alla base di una delle più significative riforme del sistema sanzionatorio italiano, con l’introduzione delle misure alternative alla detenzione; che tante vite recluse sono tornate a vivere davvero grazie a un principio costituzionale così profondamente ispirato da una vittima.

L’articolo 27 comma 3 della Costituzione non è un “articolo marziano”, una disposizione eccentrica rispetto all’intera tavola di valori costituzionali. Esso si intreccia, invece, del tutto armonicamente a tante altre norme costituzionali.

Gherardo Colombo ne ha richiamate alcune, a me piacerebbe richiamarne altre e, in particolare, leggere l’articolo 27 della Costituzione come una sorta di declinazione particolare nell’ambito della giustizia penale – o di specificazione – di un principio più ampio e generale, che riguarda tutti e dunque tutti ci accomuna: l’art. 4, secondo comma, della Costituzione che recita “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta una attività, una funzione, che concorra al progresso materiale, spirituale della società”. Si noti, preliminarmente, che qui con “cittadino” non deve intendersi il cittadino italiano (quello che ha il passaporto o la carta di identità con la cittadinanza italiana), bensì la persona – qualunque persona – che abita la società civile, la comunità di questo Paese: cittadino, in questo senso, è ognuno di noi. L’art. 4, con il suo monito a contribuire tutti allo sviluppo materiale o spirituale della società, è a mio avviso la scaturigine dell’articolo 27 comma 3 della Costituzione; il principio del finalismo rieducativo della sanzione è una specificazione penalistica del dovere che riguarda ciascuno di noi di concorrere – secondo le proprie capacità, risorse, intelligenza, inclinazioni, aspirazioni – al progresso materiale e spirituale della società.

È sorprendente che questo singolare dovere – intriso, si noti, di libertà e non di coercizione; intriso di vocazione, di apertura a mettere in gioco quello che si è, quello che si è capaci di fare – non sia richiedibile anche a valle di un evento che non avrebbe dovuto accadere, cioè a valle di un reato: con la pena detentiva, in tutta evidenza, si viene impediti, incapacitati. Abbiamo, in fin dei conti, concepito la giustizia come un male che annienta, affossa, soffoca e reprime le capacità: un male che di fatto rende impossibile l’adempimento di questo dovere costituzionale.

Quel verbo “tendere” nel terzo comma nell’articolo 27 Cost. vuole invece segnalare proprio una dimensione di apertura e di “fattività”: secondo la Costituzione, la pena deve rieducare, e la rieducazione è un cammino aperto che ha bisogno di essere nutrito precisamente della dimensione volontaria, imprevedibile, irripetibile e unica che è l’umanità di ciascuno con le sue capacità, le sue aspirazioni, le sue risorse. Si fa rieducazione solo consentendo ancora a ciascuno, anche dopo la commissione di un reato, di poter di nuovo corrispondere a questo dovere positivo di progresso materiale e spirituale della società. Si è rieducati solo impegnandosi ancora, anche dopo il reato, a contribuire a rendere il mondo in cui si vive un mondo migliore dove vivere.

A me sembra questo il senso ultimo della rieducazione.

Ma allora c’è un ulteriore passo importantissimo da compiere: è fondamentale migliorare le condizioni in carcere, ma non basta. Bisogna fare di più e di meglio: bisogna riformare il sistema penale nel senso di un pluralismo sanzionatorio che contempli in primis pene principali non detentive. Perché il carcere è strutturalmente incapace di consentire la fioritura di capacità, aspirazioni e risorse, di dar concreto spazio al dispiegamento della “libertà responsabile” di cui parlava anche Gherardo Colombo.

Infatti, in un sistema penale come il nostro, ancora e sempre ancorato alla pena privativa della libertà, il nobile e costituzionale principio rieducativo diventa difficilissimo, se non impossibile, da tradurre in pratica. E ciò non solo per le ragioni prima descritte da Gherardo Colombo, non solo perché l’opinione pubblica è capace unicamente di invocare la giustizia retributiva e cosi poco incline, invece, a sostenere forme di risposta al reato di tipo rieducativo o riparativo capaci di generare legami sociali positivi. C’è qualcosa di più: la rieducazione ha una struttura, un modo di essere, incompatibile con la “chiusura”: perché la rieducazione è un cammino di apertura, un cammino attivo e non passivo.

In un sistema punitivo, “chiuso” sulla privazione della libertà, la rie­ducazione finisce suo malgrado per diventare un “premio”, un’eccezione, uno scarto rispetto a misure penali detentive che corrono su altri binari concettuali: così, in pratica, c’è la pena che toglie la libertà e poi – come diceva Mauro Palma – c’è una specie di premio, con la possibilità eventualmente di ri-guadagnare ambiti di libertà o la libertà tout court, per chi si adegua alle regole dell’istituzione penitenziaria, per chi si conforma. Immancabile, in simile gioco, ritorna la logica di uno scambio, di un conto da saldare, tipica della giustizia retributiva, tipica della giustizia con la bilancia e la spada. Si produce, a ben vedere, una specie di costante strumentalità: la rieducazione non è quel cammino di libertà responsabile che ha in mente la Costituzione, ma diventa anch’essa il caro prezzo di uno scambio conveniente, qualche cosa di utile da guadagnarsi a un certo costo.

Mi chiedo se non sia possibile costruire un sistema penale che prenda davvero sul serio la rieducazione e sappia dar vita a modelli di risposta al reato in grado di promuovere l’attivazione di capacità, risorse e aspirazioni positive.

Mi sembra, questo, un compito urgentissimo: trovare una coerenza tra ciò che il nostro ordinamento giuridico afferma in termini di principio, ciò che comunica attraverso i propri precetti penali e ciò che fa in risposta al reato, cioè quando i principi e precetti vengono trasgrediti.

Non so se avete mai osservato come tra principi, precetti e pene si venga a creare a un certo punto – quando fa ingresso la pena – un’interruzione di significato, un’inversione di rotta, che produce, a mio avviso, un’insanabile incoerenza interna nel sistema penale.

Abbiamo principi costituzionali che disegnano ideali per una società buona in cui vivere (uguaglianza, pari dignità sociale, doveri di solidarietà, partecipazione attiva, inviolabilità della vita e della libertà personale, ecc.): noi tutti siamo destinatari di questi principi che ci coinvolgono in modo attivo, ci chiedono di aderire ai loro contenuti e di portarli avanti nelle nostre relazioni con gli altri. Poi ci sono i precetti penali. Per inciso, ricordo come questo brutto aggettivo – “penale” – conduca sempre al cospetto della pena: eppure, in uno Stato democratico il diritto penale non dovrebbe essere il diritto della pena, bensì principalmente quell’insieme di precetti comportamentali rivolti a ciascuno di noi, affinché ci si possa rispettare anche tra sconosciuti. Il diritto penale è un insieme di regole di comportamento che ci sono rivolte affinché le osserviamo, non dentro una logica di adeguamento passivo, di ubbidienza, ma all’interno di una logica attiva, di condivisione di un messaggio costruttivo. Le norme, anche le norme penali, sono uno dei modi per rispettarsi. Ben prima di intimidirci con ergastoli, reclusioni, arresti, manette, ferri, blindi, il diritto penale si rivolge a noi in quanto interlocutori attivi di precetti e comportamenti e ci chiede di tenere condotte tali da non offendere la vita, l’incolumità personale, il patrimonio, l’ambiente, ecc.

Insomma: in uno Stato democratico, non siamo destinatari di comandi; siamo interlocutori attivi di regole.

In simile contesto e conformemente alla tradizione giuridica liberale-democratica, il reato non è tanto la trasgressione della legge formale, quanto un comportamento lesivo e colpevole, dove lesivo significa “offensivo di un bene giuridico” e colpevole significa “rimproverabile” al soggetto che avrebbe potuto e dovuto agire diversamente. Offensività e colpevolezza/rimproverabilità sono due portanti del diritto penale in una democrazia; non lo sono ubbidienza, sudditanza e punizione.

Principi e precetti ci vedono tutti interlocutori attivi, chiamati a contribuire a quella società buona in cui vivere. Poi però quando viene commesso il reato (accade ciò che avrebbe dovuto non accadere), il diritto penale di una democrazia costituzionale sembra cambiar di segno e non essere più coerente con se stesso: entra in campo la pena con la sua passività afflittiva, con la sua oziosa cattività, con la sua devastante infantilizzazione.

Dobbiamo impegnarci, invece, per costruire forme di risposta al reato che ci lascino essere interlocutori attivi dell’ordinamento giuridico anche nel momento drammatico della reazione all’illecito penale. Risposte al reato in grado di riproporre il precetto penale anziché, di fatto, smentirlo nella ritorsione del male.

È tremendo quando il diritto penale, nel momento in cui punisce, assomiglia di più al reato da contrastare piuttosto che al principio o al precetto positivo che fin dall’inizio si voleva sancire. I Paesi che applicano la pena di morte sono un esempio della profonda incoe­renza della ritorsione retributiva: la pena di morte, smentita del precetto “non uccidere”, viene usata proprio per punire l’omicidio.

Un sistema che cerca coerenza tra principi, precetti, sanzioni è un sistema penale che, fra l’altro, abbandona una sterile premialità entro una cornice in sostanza ancora retributiva; è un sistema che cambia più incisivamente e si struttura in un pluralismo sanzionatorio il quale introduce, a sua volta, un dinamismo che amo definire “responsività” (cfr. gli studi di John Braithwaite sulla responsive regulation).

Non più, quindi, “chi sbaglia paga con la pena” cui appiccichiamo etichette rieducative le quali dischiudono percorsi di risocializzazione che rappresentano (di fatto, non di diritto) “eccezioni” rispetto alla “regola” detentiva, passivizzante, infantilizzante. Invertiamo piuttosto il sistema: aspettiamoci subito dall’autore di reato un comportamento costruttivo con la messa in gioco di aspirazioni, risorse e capacità; aspettiamoci da lui l’impegno della libertà responsabile, e lasciamo la sanzione negativa dietro le quinte, nel background, per le ipotesi residuali in cui una dinamica attiva per qualche ragione non si produce.

Non utilizziamo l’afflizione come prima risposta al reato, salvo toglierla di mezzo se c’è qualcuno che “fa il bravo”: aspettiamoci – con quella “fiducia del rischio” di cui anche parlava Roberto Bezzi questa mattina – un attivarsi conforme al precetto da parte del reo e teniamo la pena sullo sfondo, veramente come extrema ratio.

Sono stata qualche giorno fa a un bellissimo convegno organizzato nella mia università sul tema “Desiderio e Legge”: interloquivano un sociologo, Mauro Magatti, un filosofo, Francesco Botturi, e uno psicoanalista, Massimo Recalcati. Proponevano un’idea di desiderio molto affascinante. Il desiderio – dicevano – esiste solo all’interno di una relazione: chi vive da solo è difficile che sia capace di desiderare. Il desiderio veniva definito come ciò che ricerca una “sintesi riconciliata” tra il finito e l’infinito: il desiderio è, per definizione, insaziabile; non è un bisogno che si può appagare, è una aspirazione spalancata sull’infinito. Il desiderio è, quindi, molto simile alla speranza: ha bisogno sempre di più e non c’è niente che lo può soddisfare, pur non avendo alcuna prepotenza.

A me sembra che quando Aldo Moro, nell’Assemblea costituente, ha “desiderato” l’inserimento di quel principio – “tendere alla rieducazione” –, ha caparbiamente introdotto nell’ordinamento penale una dinamica aperta, attenta all’umanità e volta alla messa in gioco di capacità che siano in grado di riconciliare la libertà con la responsabilità.

Mi piace immaginare, così, che la rieducazione sia una forma del desiderio nel diritto penale.

 

Capitolo sesto: La rieducazione sentimentale

 

Nel processo e nelle pene concepite come retribuzione al male fatto è del tutto trascurata la dimensione emozionale dell’offesa che il reato provoca. Ma forse è proprio sui sentimenti che bisogna riflettere, sulla necessità di una “educazione ai sentimenti” che ha a che fare con il percepire fino in fondo il dolore provocato alle vittime del reato, ma anche alla propria famiglia.

La “rieducazione sentimentale” di persone “disavvezze” all’attenzione ai sentimenti e afflitte a volte da una specie di afasia sentimentale, diventa un momento importante proprio perché commettere dei reati comporta spesso di partire da sé e ignorare o calpestare i sentimenti degli altri.

 

Noi, per essere un po’ più detenuti, diciamo sempre di non avere paura!

E invece in galera si può aver paura anche  dei propri sentimenti, paura dei nostri figli,  che non conosciamo affatto

 

di Dritanet Iberisha, Ristretti Orizzonti

 

Comincio col dire che ogni anno penso e dico che ce l’ho fatta. Anche quest’anno ce l’ho fatta, perché ogni volta dico che sarà il mio ultimo Convegno ed Ornella mi chiede “Ma perché l’ultimo?”, ed io rispondo che non lo so, l’anno prossimo non si sa mai, vediamo come va l’anno perché in carcere non si sa mai cosa ti aspetta, anche se apparentemente le giornate sono tutte uguali. Devi vivere alla giornata senza riuscire a immaginare nulla o quasi del tuo futuro. Ma io non voglio raccontare questo, voglio raccontare un’altra cosa, perché sopra, quando noi parliamo in sezione, tra di noi detenuti qualcuno talvolta ti chiede “Ma hai paura?”, paura rispetto al futuro, a quello che ci attende, a dopo la galera, e noi per essere un po’ più detenuti diciamo di no! “Io non ho paura, ma che paura, paura non ne ho mai”, così rispondevo anche io, negando in tutti i modi qualsiasi sentimento di paura.

Invece l’anno scorso, nell’agosto dell’anno scorso, ho chiamato a casa mia e parlando con mia figlia lei mi ha detto: “Papà, guarda che a marzo ho compiuto 18 anni, posso venire a trovarti in carcere anche da sola, oramai sono grande!”, ed io in quel momento ero contento, ho detto “Meno male che puoi venire a trovarmi da sola!”, stavo per continuare a risponderle tranquillamente, ma li mi è venuto un colpo, un attacco di panico dentro che non mi uscivano le parole per rispondere. E allora le ho detto “No, no dai vediamo, perché stai lontano, è difficile venire fin qui da sola”, ma in me vi era anche la paura, e non sapevo come dirglielo, perché da una parte non volevo intendesse che io non desideravo vederla (è la mia unica figlia!), ma dall’altra mi è venuta questa paura di incontrarla da sola, perché prima non l’avevo mai incontrata sola, aveva più di un anno quando l’ho lasciata, lei fuori in libertà e io in galera, e vagavo con questo pensiero “Ma come faccio? Ma come faccio!?”. Invece l’11 aprile di quest’anno il magistrato di Sorveglianza mi ha concesso un permesso premio e sono uscito un giorno per un incontro del progetto Scuole-Carcere. Sono venuti a trovarmi anche i miei, con i volontari dell’Associazione, Ornella ed altri siamo entrati in un ristorante per il pranzo, e pioveva parecchio, era un giorno molto grigio e piovoso, a dire la verità io ero molto confuso, non ho capito molto su quel giorno, infatti ho pensato tra me e me: “Magari le ore ed i minuti scorressero così veloci anche in carcere, avrei già finito di scontare la condanna da un pezzo…”.

Al ristorante dopo un po’ ho detto a mia moglie ed a mia figlia se potevamo uscire, e così siamo andati fuori sotto la pensilina del ristorante e avrei voluto dire loro qualcosa, ma anche lì, ugualmente la paura continuava. Ma cosa dirgli!?, perché lei mia figlia, sì mi vuole bene, mi abbraccia, mi chiama anche padre, perché vuole fare così. Ma la verità è che uno la deve anche meritare questa parola, ed io non sapevo che cosa dire, così dopo qualche minuto ho detto loro “Dai andiamo dentro che piove”, in questo caso ho ringraziato Dio che pioveva, mi ha salvato la pioggia perché non sapevo bene come comportarmi, avevo troppa paura di sbagliare. Una paura di cui non mi devo vergognare.

Ma perché questo succede? Io non lo so perché succeda, io so che mia figlia l’ho lasciata che aveva un anno fuori e ho cominciato a ritrovarla che aveva 19 anni in un bar, fuori. Nel mezzo ci stanno anni di incontri nelle sale colloqui, dove un figlio non lo puoi in nessun modo conoscere. È una cosa incredibile, speriamo che nessuno debba mai provarla, la paura di fronte a un figlio!

 

Il coraggio di non isolarsi,  di non nascondersi, di non vergognarsi

È quello che serve ai genitori di un detenuto, per comunicare ad altri la loro esperienza, per metterla a disposizione in modo particolare ai giovani

 

di Marina, madre di una detenuta

 

l genitori del “cattivo”: l’immaginario comune ed i mille volti della realtà

Nell’immaginario comune la famiglia del carcerato è una famiglia ”difficile”. Spesso si pensa, infatti, a situazioni di ignoranza, povertà, alcol, droga, abusi, arrivando talvolta ad immaginare che il “cattivo” e la sua famiglia siano anche “brutti” fisicamente. E soprattutto si pensa sempre che siano persone lontane dalla propria vita, cioè che non potranno mai essere i propri conoscenti, i propri amici, i propri parenti.

In questi sei anni, durante i quali ho varcato la soglia delle numerose carceri dove Giulia è stata ospitata, mi sono spesso soffermata ad osservare gli altri familiari e posso tranquillamente sostenere che la realtà è molto più variegata di quello che normalmente si crede. Siamo differenti di etnia, di età, di cultura, di lingua, di ceto sociale. Sono differenti i nostri comportamenti, ad esempio di fronte alle difficoltà od alle lentezze della burocrazia carceraria: c’è chi ha pazienza, chi reagisce con rabbia e arroganza, chi con rassegnazione e umiltà. Ci sono quelli per i quali il carcere è diventata una periodica abitudine o che si dividono per andare a trovare più familiari, ma anche quelli che, come noi, affrontano per la prima volta, e molto probabilmente l’unica, questa esperienza così distante dalla vita abituale: famiglie che conducono una vita semplice, onesta, normale, lontano da comportamenti che possiamo considerare “a rischio”.

 

L’educazione impartita dalla famiglia, dalla scuola, dalla società

Quando un giovane commette un reato solitamente si tende a pensare che gran parte della colpa sia dei genitori e della loro cattiva educazione. Sono consapevole che le responsabilità dei genitori nell’educazione di un figlio sono enormi, ma sono anche convinta che, nell’attuale società, educare un figlio sia un compito molto più difficile che nel passato. Oggi, un giovane, soprattutto nelle grandi città, entra in contatto con modelli e sollecitazioni spesso molto differenti da quelli che una famiglia come la mia propone, ed in ogni caso più precocemente di un tempo. E, mi spiace dirlo, perché sono stata un’insegnante anch’io, ma capita talvolta che la stessa scuola, dopo la famiglia luogo educativo per eccellenza, dia origine, suo malgrado, alle prime contraddizioni. Ricordo che mia figlia, al primo anno di Liceo, un giorno riferendosi proprio a ciò che lì accadeva, ci disse: guardate che il mondo esterno non “gira” esattamente come voi avete voluto farmi credere… E questo mondo esterno che già dall’infanzia entra nelle case attraverso canali apparentemente innocui, penso alla televisione, ai videogiochi, ad Internet, mette spesso in difficoltà e lascia sola la famiglia, quasi avesse in esclusiva il compito educativo, mettendone alla prova la credibilità. Personalmente, penso che si stia vivendo in una società nella quale si predica bene ma si razzola male e non c’è nulla di peggio che dare ad un giovane dei messaggi così contrastanti.

 

Il rapporto con un figlio carcerato. I sentimenti contrastanti

Ma le difficoltà educative di un genitore nella vita di ogni giorno, per quanto grandi, diventano cosa di poco conto di fronte ai sentimenti che prova quando un figlio viene arrestato. Si tratta di sentimenti forti e dolorosi: paura, confusione, ansia, preoccupazione, sconforto, senso di impotenza. Ed una cosa è certa: si decide immediatamente, in modo direi istintivo, se rimanergli accanto oppure no. Io sono stata fortunata, perché la mia decisione, quella di mio marito, quella delle nostre famiglie e delle persone a noi vicine è stata la stessa: rimanere accanto a Giulia qualunque cosa fosse successa e qualunque cosa avesse commesso perché il nostro amore per lei non era e non è mutato. Certo, per i genitori che, come noi, hanno un figlio con una lunga condanna, i sogni sembrano infrangersi e proprio quel figlio fin dalla nascita caricato di aspettative, probabilmente troppe o troppo grandi per lui, diventa fonte di sentimenti a volte inconfessabili, come delusione e rabbia, in alcuni casi rifiuto. Non sono rari, infatti, i detenuti abbandonati dai genitori.

 

Rimettersi in discussione,  ascoltare, capire, farsi aiutare.

Decidere di restare accanto ad un figlio detenuto, significa innanzitutto rendersi conto delle enormi difficoltà da superare. Il rapporto si riduce a sei ore di colloquio al mese (per chi ha la possibilità di sfruttarle) durante le quali si cerca reciprocamente di riassumere il vissuto del periodo trascorso lontani, di rassicurarsi e di confortarsi. Ma ci sono anche i momenti di crisi, i momenti di sfogo, durante i quali per un genitore è difficile mantenere con coerenza il proprio ruolo educativo. Quante mamme ho visto con gli occhi colmi di lacrime dopo un colloquio, magari dopo aver dovuto mantenere una posizione ferma per il bene del proprio figlio. Non va dimenticato che per noi madri, i figli sono sempre e solo i nostri bambini e saperli lì dentro, soli con i loro pensieri, è una cosa molto dura da sopportare.

Dietro ogni storia di “galera” ci sono famiglie, educazioni, culture, ambienti e figli diversi, ma identica è la grande sofferenza con la quale i genitori pensano alla scelta sbagliata del proprio figlio. Ed è difficile mantenere obbiettività ed equilibrio: ci si colpevolizza per i propri umani errori educativi o, al contrario, si nega ogni responsabilità propria o del figlio, pensando che sia “tutta colpa degli amici…”. Io credo che la detenzione di un figlio sia una delle occasioni, traumatica e che, ovviamente, non auguro a nessuno, per riflettere e mettersi in discussione. Essere genitore è un “mestiere” difficile, come dicevo, ma penso anche che ognuno di noi, in fondo, è un po’ il “riassunto” delle generazioni precedenti. Dunque, gli errori che commettiamo in buona fede hanno spesso radici nel nostro vissuto. Ma per poterlo realizzare, è necessario avere il grande coraggio di non isolarsi, di non nascondersi, di non vergognarsi e, anche, di farsi aiutare ad elaborare questa esperienza dolorosa, per poter andare avanti mantenendo quell’equilibrio e quella serenità utili a nostro figlio.

 

Superare il passato, vivere il presente,  pensare al futuro

Il passato non si può cambiare ma il presente ed il futuro sì e si possono sempre fare scelte migliori. L’ho ripetuto tante volte a mia figlia nei suoi e nei miei momenti di sconforto. Questo non significa dimenticare o negare il reato, ma capirlo e conviverci senza esserne sopraffatti, anche quando non siamo convinti che la verità sia quella stabilita dalla Giustizia umana.

Ma migliorare un presente di detenzione non è facile, non a caso il recluso tende a pensare più volentieri alla libertà futura ed in fondo lo facciamo spesso anche noi genitori. Ma se è importante fare progetti, farli a lunga scadenza, soprattutto quando si ha un “fine pena” lontano, non serve: troppe sono le variabili, con il rischio di delusioni e di provare tanta tristezza.

 

Il rapporto con il mondo carcerario. Ogni carcere è un mondo a sé

Se, dunque, è meglio concentrarsi sul presente, bisogna tener conto che il presente di un detenuto è di solito rappresentato da una cella piccola e poco accogliente, magari sovraffollata; di rapporti, spesso tesi, con persone sconosciute; di giornate lunghe ed uguali, di delusioni, di paure, di ansia, di ricordi.

Che il carcere debba essere un luogo rispettoso della persona con finalità rieducative non sono soltanto le persone che hanno un familiare detenuto o quelle dotate di una particolare sensibilità sociale a sostenerlo: è l’articolo 27 della Costituzione italiana che lo enuncia. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” vi si legge. E ancora: “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ho visto molte carceri in questi sei anni e posso dire che ognuno è un mondo a sé: regole generali comuni, condizioni strutturali, opportunità, gestioni diverse, che possono incidere sul comportamento, sulle reazioni e sul futuro di un detenuto. Attualmente Giulia, grazie a persone illuminate e che ritengo abbiano saputo mettersi in gioco loro per prime, ha la fortuna di essere in un carcere considerato una delle eccellenze italiane. E questo fa la differenza, anche per noi genitori. Una struttura carceraria che si organizza in funzione del cittadino di domani e non soltanto del detenuto di oggi, che gli concede una maggiore libertà e gli offre un buon numero di opportunità di formazione, lavoro, attività, gli permette di non sentirsi troppo “fuori dal mondo” (cosa veramente importante per chi ha delle pene lunghe), rieducandolo (talvolta educandolo) ad un comportamento responsabile ed al rispetto delle regole con la consapevolezza che sono frutto di una sua scelta e non di un’imposizione.

 

Il rapporto con chi, lavoratore o volontario, opera in carcere

La realtà italiana, però, tranne rarissime eccezioni, non somiglia affatto al carcere dove è nostra figlia, perché non bastano buoni propositi e menti illuminate, sono necessarie strutture adeguate, fondi, investimenti progettuali privati, personale. Ma non solo: è anche necessaria la volontà, da parte del detenuto, di cambiare. Voglio, a questo punto, aprire una parentesi che riguarda il personale che opera nelle carceri: io credo che non è sufficiente che sia numericamente adeguato ma è fondamentale che sia motivato e formato. In un’Italia dove il lavoro sta diventando un lusso, non sempre si ha la fortuna di fare il mestiere che si è scelto e l’impressione che io ho di coloro che lavorano nelle nostre carceri è la stessa che ho in generale per altri lavoratori e cioè che si dividono in due categorie: coloro (per fortuna i più numerosi) che hanno scelto e credono nell’importanza sociale del loro lavoro e che spesso, a causa di turni massacranti e mancanza di fondi, divengono dei missionari, e coloro che hanno trovato solo questo lavoro e che, prima o poi, coinvolgono anche altri nella loro frustrazione.

Diverso è il discorso per chi opera volontariamente e che da un certo punto di vista credo viva in modo ancora più intenso il mondo carcerario, con le sue regole, le sue limitazioni ed i suoi drammi.

In ogni caso, per noi genitori, il rapporto con chi si occupa dei nostri figli, della loro rieducazione ma anche della loro salute e delle loro necessità quotidiane, è importantissimo: sei ore al mese di colloquio e dieci minuti di telefonate alla settimana, non sempre bastano a tranquillizzarci. Nelle restanti, conviviamo con le fantasie, belle o brutte, che ognuno di noi si fa circa ciò che accade loro lì dentro.

Ma se è vero che talvolta capita di essere trattati con sufficienza o non essere ascoltati, o di vedere qualche ingiustizia, questo non ci autorizza a comportarci allo stesso modo né a pretendere di non rispettare le regole, per quanto alcune possano sembrarci insensate, o che per nostro figlio si facciano eccezioni. La giusta pretesa del senso di umanità della detenzione e, dunque dei diritti di un detenuto, non deve sfociare in sterili ed arroganti rivendicazioni ma in ferme ed educate richieste, cercando sempre di collaborare nel trovare le soluzioni di un problema.

 

Il contributo che le famiglie possono dare

Il rapporto tra i componenti di una famiglia, se non deteriorato o nullo prima dell’arresto, viene sicuramente messo a dura prova quando un figlio entra in carcere. Alcuni genitori si separano, spesso a causa del reciproco colpevolizzarsi, alcuni rifiutano di incontrare il figlio (sarà casuale, ma ho visto più madri che padri durante i colloqui), altri si ammalano per il dolore. Ma se una famiglia ha la fortuna di superare tutto questo, la sua presenza diventa un valore aggiunto, un aspetto importantissimo nel recupero del detenuto perché facente parte della sua sfera affettiva ed educativa passata, presente e futura.

La prima a rendersi conto di questo, però, deve essere proprio la famiglia che, per essere utile deve innanzitutto vincere la vergogna e la paura del giudizio degli altri, uscire dall’isolamento, trovare un proprio equilibro ed essere disponibile a rapportarsi con chi opera nelle carceri in modo costruttivo perché proprio noi familiari possiamo cogliere aspetti che altri, dall’interno, non vedono e, dunque, essere utili a nostro figlio ma anche ad altri.

Mi rendo conto, che tutto ciò può sembrare più semplice a dirsi che a realizzarsi, ma sono convinta che, in ogni caso, sia importante provare.

In ultimo, penso che ogni esperienza di vita, anche quella dolorosa e personalissima della detenzione di un figlio, può avere un’utilità sociale. E comunicare ad altri la nostra esperienza, in modo particolare ai giovani, ritengo sia un dovere al quale noi in quanto genitori e soprattutto cittadini, non possiamo sottrarci.

 

 

La vita emotiva  è ciò che rende le persone  degne di questo nome

Privando i detenuti e l’intera organizzazione carceraria della possibilità di “lavorare” sui propri vissuti emotivi, concorriamo ad un’opera di disumanizzazione

 

di Alessandra Augeli, Dottore in pedagogia.

Svolge attività di formazione sui temi dell’affettività e della relazionalità,

privilegiando le metodologie narrative ed autobiografiche

 

C’è una bellissima favola di Leo Lionni che racconta di un topolino, di nome Federico, che si preparava ad affrontare l’inverno: mentre i due suoi amici portavano nella tana bacche, noci, fieno e grano, lui restava lì fermo.

Come non lavoro? Sto raccogliendo i raggi di sole per i gelidi giorni di inverno.

E ora, Federico, che fai? – dicevano gli amici vedendolo fermo seduto su una roccia.

Raccolgo i colori. L’inverno è grigio.

Stai sognando, Federico? – chiesero quando lo videro accoccolato all’ombra di una pianta.

Raccolgo parole. Le giornate d’inverno sono tante e lunghe. Rimarremo senza nulla da dirci.

Mi sembra che la metafora del letargo possa essere vicina ad un contesto come quello carcerario in cui si sperimenta la privazione dei legami, di aperture (di ogni tipo), di dinamismo.

Federico offre ai suoi compagni calore, colore e poesia in uno spazio che ne è privo.

Proprio a partire da questa immagine vorrei provare a tracciare alcune considerazioni sulla cura della vita emotiva nell’esperienza della detenzione.

Mi avvarrò anche di alcune riflessioni scaturite da una recente ricerca sulla genitorialità in carcere svolta nel carcere di Piacenza da me e altri colleghi ricercatori della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica, grazie al sostegno del Centro di Servizio per il Volontariato di Piacenza (Svep) e di Carla Chiappini, direttrice della rivista Sosta Forzata.

Porte serrate, cinta murarie, filo spinato, torrette di controllo rimarcano linee di confine tra il detenuto e il mondo esterno e sottolineano dimensioni contrapposte: «dentro» e «fuori», costrizione e libertà, privazione e possibilità, chiusura ed apertura, intimità ed estraneità.

La distinzione tra istituzione e mondo sociale pare esprimere l’antitesi tra ragione e sentimento, mente ed emozioni: l’organizzazione è regolata con “criterio e ragionevolezza” e il soggetto è espressione di singolarità ed unicità, protagonista di vissuti emotivi, storie ed esperienze complesse, che non sempre trovano attestazione.

Gli spazi del carcere si presentano apparentemente come anaffettivi: le emozioni e i sentimenti sembrano annullarsi dietro le pareti spoglie e lugubri, dentro le linee dritte ed uniformi, negli spazi angusti delle celle e dei corridoi. Metaforicamente anche gli affetti sembrano chiusi a chiave e blindati. In realtà la vita emotiva è soltanto compressa, mascherata, svilita.

A ben guardare, infatti, esistono contraddizioni e paradossi all’interno di queste stesse dicotomie.

Trascorrendo molto tempo in solitudine il detenuto si trova ad estendere la conoscenza di sé e a rafforzare più o meno intenzionalmente la propria interiorità. Pensieri ed emozioni rischiano di divenire forme sterili di ri-pensamento e ri-sentimento nella collisione con una struttura organizzativa fredda e distaccata. Si tengono «dentro» cose che non si possono dire, che non si possono esprimere. L’intimità del detenuto rischia così di farsi voragine dentro cui ci si perde e crescono forme di “restringimento del sé”, come dice Goffman.

Allo stesso tempo l’istituzione, apparentemente impermeabile ai vissuti e alle storie di quanti la attraversano, è costretta non di rado a gestire “eccessi emotivi”, stati d’animo che esplodono e che vanno “contenuti”, con forza e determinazione. Infatti, come si suol dire, ciò che viene chiuso dalla porta, continua ad uscire dalla finestra, ed in modo perlopiù distorto ed incontrollato.

L’attenzione finisce, così, per ricadere sui momenti apicali di espressione emotiva, perlopiù difficili, continuando a perdere la valenza delle lievi sfumature che caratterizzano l’esperienza dei detenuti, ma anche di quanti nel carcere vi lavorano.

Ciò non fa che accentuare e perpetuare l’analfabetismo emotivo e la fragilità della ricerca di senso che costituiscono la stessa causa di scelte sbagliate e di percorsi di vita disorientati: la persona detenuta continua a confrontarsi solo con emozioni dalle tinte forti e a servirsi degli stessi modi di manifestazione, ritrovandosi ad esserne artefice e vittima al contempo. In assenza di parole, atteggiamenti e sguardi altri si resta prigionieri di circoli viziosi e si sperimentano vissuti e sentimenti disumanizzanti e certamente non liberanti.

Inoltre il momento dell’incontro dei detenuti con i propri familiari, è quello in cui le contraddizioni proprie del contesto carcerario si “sfidano”: la famiglia, luogo di intimità e di sentimenti, di confidenza e di convivialità, oltrepassa la linea di demarcazione e infrange, in qualche modo, i rigidi schemi dell’istituzione. Anche se per poco, i detenuti respirano la realtà esterna, uscendo dal quotidiano sentire e sperimentano emozioni differenti; i familiari, entrando nei luoghi “abitati” dai loro cari, si avvicinano alla loro esperienza e ai loro vissuti.

Ciò dà adito perlopiù a timori e paure perché viene richiesta, implicitamente, a tutti – genitori e figli, educatori e agenti penitenziari - una maggiore capacità di gestione delle relazioni che appaiono trascendere i confini entro cui ci si era protetti.

Di fronte a tale difficoltà possono prendere il sopravvento dinamiche di controllo e di repressione delle emozioni e dei sentimenti o di esasperazione di alcuni vissuti (senso di colpa, rabbia, vergogna, …), che impediscono un esercizio affettivo ed effettivo della genitorialità, uno sviluppo quanto più sereno delle relazioni in un orizzonte di comune responsabilizzazione e impegno.

Dicevo, l’incontro in carcere costituisce un momento determinante, prezioso e delicato: può offrire grandi opportunità di cura del legame familiare, ma anche dar adito a fraintendimenti, ulteriori chiusure ed allontanamenti. “Ogni spazio parla: può lanciare segnali di accoglienza, piuttosto che di ostilità. Aiutare ad orientarsi piuttosto che alimentare la confusione”. Recenti ricerche evidenziano un netto calo del numero di visite da parte dei bambini e dei familiari a fronte di un aumento del numero di detenuti. Ciò può essere imputato non soltanto all’aumento del numero di detenuti stranieri, impossibilitati a ricevere visite a causa della lontananza, ma anche dalla gestione degli spazi e dei tempi e dall’organizzazione di ciascun istituto carcerario.

Spesso sono gli stessi carcerati a scoraggiare i propri figli e familiari a venirli a trovare.

“Vengono poche volte perché ogni volta che vengono qua si ammalano, non so perché… Adesso li ho visti dopo quattro mesi. Da Natale che non li vedevo. Ma perché chiedo io di farli venire poco qua. Ma perché è un posto brutto, sporco, non mi piace”. [B., 35, It, 2]

“Non sono venuti e non penso che vengano, ma neanche a me non farebbe piacere che venissero qua. Qua è una brutta situazione, non mi piace farli venire in un carcere” [N., 30, It, 2]

Scegliere di non incontrare i propri figli, in questo senso, non è tanto esercizio di libertà nel compito educativo, quanto sottile costrizione. Privare il detenuto della possibilità di scegliere di incontrare i propri figli equivale a sottrargli il diritto di visita e il diritto ad una relazione genitoriale autentica. Migliorare il luogo dell’incontro è tutt’altro che questione secondaria. È diritto, non privilegio.

Lo spazio del carcere deve dire dell’errore, ma anche della dignità dell’errante, della sua possibilità di recupero;

deve contribuire a comprendere la separazione, senza tuttavia esprimere il distacco emotivo dei genitori.

 

Perché coltivare la vita emotiva in carcere?

Le emozioni e i sentimenti sono canale di accesso ai significati e ai valori, indispensabili per accrescere il senso etico di responsabilità

Consapevolezza che il proprio stato d’animo influisce sulla percezione degli spazi e dei tempi della relazione - Ogni luogo connotato affettivamente, ogni spazio in cui circolano emozioni e sentimenti può divenire casa

Riconoscere, nominare, accogliere, comprendere emozioni e sentimenti è un modo per dirsi la verità, condizione indispensabile per poter dire la verità (onestà emotiva)

Comprendere le emozioni per poterne assumere la responsabilità e trasformarle (cosa me ne faccio della nostalgia, del senso di colpa, della rabbia, della tenerezza?); occorre infatti ristabilire connessioni tra mente, cuore e azione. Il mancato equilibrio tra queste, infatti, può essere la causa di comportamenti e scelte sbagliate. Dice, a tal proposito, Umberto Galimberti: “Il movente di alcuni atti non c’è, o se c’è, è insufficiente o sproporzionato alla tragedia, perché ignoto agli stessi autori. Occorre mettere in contatto il cuore con la mente, e la mente con il comportamento, e il comportamento con il riverbero emotivo che gli eventi del mondo incidono nel loro cuore. Queste connessioni risultano sfilacciate e fragili e perciò ci sono giovani capaci di gesti tra loro a tal punto slegati da non essere percepiti neppure come propri. E questo perché il cuore non è in sintonia col pensiero e il pensiero con il comportamento e si è incapaci di sentire che cosa è giusto e che cosa non è giusto, chi sono io e che ci faccio al mondo”.

Questo non vuol dire colorare il carcere di un facile sentimentalismo per cui si lasciano circolare soltanto i buoni sentimenti e si allontanano gli elementi perturbanti. Nella consapevolezza che il primo passo per dire la verità è dirsi la verità, riconoscere, cioè, a se stessi motivazioni, pensieri, fantasie, emozioni e fragilità, il detenuto si dispone non solo a trovare le parole giuste per raccontarsi in autenticità, ma anche ad ascoltare la voce dei propri figli e familiari e ad accogliere la fatica della rielaborazione.

 

Come curare la vita emotiva in carcere?

Curando spazi esteriori, determinando le possibilità concrete di relazione tra detenuto e famiglia (non i luoghi, ma ciò che rappresentano e rendono possibile)

Accompagnando i detenuti nella consapevolezza dei propri vissuti e sostenendoli attraverso le diverse forme di narrazione a trovare le parole giuste per sé e per gli altri.

Creando terreni di legittimazione di emozioni e sentimenti altri, che vanno oltre stereotipi diffusi.

Prestando attenzione alla ritualità dell’incontro: ogni passaggio per conquistare nuovi significati è importante.

La pratica formativa intende restituire spessore e dare senso alla ritualità dell’incontro: diviene significativo che genitori detenuti e familiari si preparino precedentemente al momento della visita, abbiano la possibilità, con il supporto di educatori e volontari, di dissodare il terreno preventivamente, per far emergere ostacoli e paure, aspettative e angosce per far spazio all’altro e accoglierlo in pienezza. Il percorso verso il carcere, la strada di ritorno a casa, il momento della perquisizione, l’attesa prima di entrare da frammenti e passaggi bruschi si trasformano in momenti in cui arricchirsi di nuovi significati, ritrovando la continuità propria di un’intenzione formativa e rieducativa.

 

Per concludere:

La vita emotiva non è un optional. È ciò che rende le persone degne di questo nome, che rende l’esistenza realmente tale, cioè ricca di possibilità di trascendenza.

Privando i detenuti e l’intera organizzazione carceraria della possibilità di “lavorare” sui propri vissuti emotivi – il che significa, come si è detto, trovare spazi, tempi e modalità per imparare a nominarli, accettarli, comprenderli ed assumerne la responsabilità, concorriamo ad un’opera di disumanizzazione e sottraiamo non solo ai detenuti, ma a tutti, l’opportunità di essere se stessi e di essere migliori.

Chiudo con un augurio: che ciascuno possa realizzare il desiderio di Etty Hillesum, detenuta nei campi di concentramento,

Essere il cuore pensante della baracca!

 

Capitolo settimo: Il racconto di sé per ritrovare il bandolo della matassa della vita

 

Nel raccontare agli studenti pezzi della propria vita, succede spesso che le persone detenute, che decidono di portare la loro testimonianza, comincino a ritrovare il “piacere dell’onestà” con se stesse, e anche il bandolo della matassa di vite complicate, che il carcere raramente aiuta a dipanare. Il fatto è che con i ragazzi delle scuole c’è quasi un obbligo di verità, avere di fronte quei ragazzi è un po’ come avere di fronte i propri figli, e confrontarsi con il loro bisogno di capire il perché dei reati.

 

La mia “revisione critica”  negli incontri con le scuole

Che cosa ha significato per me portare la mia testimonianza ai ragazzi

 

di Ulderico Galassini, Ristretti Orizzonti

 

Da circa due anni e mezzo sono ospite della Casa di Reclusione “Due Palazzi”. Ho commesso un grave reato in famiglia e la detenzione serve per pagare il mio debito alla società. Dovrei fare un percorso per rieducarmi, e tra le altre cose arrivare ad una “revisione critica”, e a ripagare il danno che ho fatto.

Ma la domanda è: come si può arrivare a questo con la situazione attuale delle carceri italiane, dove tutto ostacola il recupero della persona?

C’è la carenza di operatori, di personale in ogni settore, tutto è rallentato. Lavoro per tutti i detenuti non ce n’è, le scuole hanno spazi che possono accogliere solo un certo numero di persone, anche le attività su base di volontariato non possono accettare tutte le richieste di inserimento. Bisognerebbe almeno inventarsi qualcosa per far uscire i detenuti dalle celle. In questa situazione come si fa a pensare che un detenuto possa mettersi in discussione, riflettere, confrontarsi con gli operatori sulla propria posizione individuale, se il sovraffollamento affossa quasi tutto? Se sei fortunato ed hai un lavoro in quel momento devi pensare a come farlo nel migliore dei modi e non perderlo, ma non certamente a riflettere sul tuo reato e su ciò che ha comportato per le vittime dirette e per le famiglie. Restare chiuso in cella quasi tutta la giornata ti consente ancora meno di arrivare alla consapevolezza del male procurato, e poi con chi parlo, con chi mi confronto, non vedo un interlocutore attento e pronto ad ascoltarmi, ad aiutarmi.

Io penso di aver trovato un percorso di riabilitazione nell’incontro con i tantissimi studenti che varcano le soglie del carcere per confrontarsi con chi fa parte della redazione di Ristretti Orizzonti e per sentire “l’altra parte”. C’è un prezzo da pagare: trovare la forza di mettersi in gioco, di riuscire a raccontare il peggio della propria vita, con sincerità, non stravolgendo i ragazzi con particolari inutili (li hanno già usati abbondantemente la stampa e la TV), senza suscitare pietismi o pretendere perdono o sconti di pena. Sopportare internamente il dolore che accompagna i miei ripetuti racconti, rivivendo contemporaneamente le immagini del dramma della mia famiglia.

Cosa mi ha portato a dialogare con i ragazzi? la speranza che possano cogliere i passaggi che mi hanno portato a superare i miei limiti, e che loro possano fermarsi un attimo prima se mai dovessero trovarsi in situazioni simili. Rispondo alle loro domande come se avessi mio figlio davanti e quindi non voglio, non posso e non devo bleffare, anche quando le domande sono difficili e dolorose.

Ecco che le riflessioni e il ripercorrere a ritroso tutti i miei 54 anni nel mondo fuori, da persona “normale”, hanno aiutato anche me, perché ogni tanto riaffiora qualcosa di nuovo che mi accompagna nella ricerca del perché un uomo mite si trasforma compiendo qualcosa di mostruoso, quando sino alla sera prima tutto faceva pensare a un futuro sempre in tre: Alessandra, Andrea e Ulderico, con tanti obiettivi di vita condivisa.

Ho bisogno davvero di capire, non per giustificare quello che ho fatto, ma perché voglio dare una risposta a me stesso, la vorrei dare a mio figlio quando avrò più tempo da dedicare a lui, oggi i colloqui che abbiamo sono pochi e in stanze rumorose, la telefonata che posso fare una volta al mese per dieci minuti è anch’essa poca cosa.

Questi incontri con gli studenti e tanti altri confronti che avvengono nella redazione ti danno soddisfazione, ti fanno sentire ancora una persona utile, che con responsabilità può dare ancora qualcosa di suo agli altri, per scelta autonoma e non per costrizione. Ma nonostante questa grande possibilità di confronto, di dialogo con l’esterno non potrò mai togliermi il peso di ciò che ho commesso, che ho determinato con il mio agire, e certo non potrò mai perdonarmi.

 

Le parole che hanno segnato la nostra vita

È la scrittura che porta la mente a riflettere sulle caratteristiche della nostra storia personale  e a trovare le parole per raccontarla

 

di Fatjon Cana, Ristretti Orizzonti

 

Mi chiamo Fatjon, sono un ragazzo albanese di 27 anni e provengo da una famiglia modesta, nella quale non si è mai parlato né di reati né di trasgressioni. Alla base dei desideri dei miei famigliari c’era per me la strada degli studi, l’unica che poteva farmi avere più possibilità per il mio futuro. Però all’esterno della mia famiglia intorno a me io non vedevo sentimenti o valori educativi sani, ma solo gente che parlava di come raggiungere più in fretta e con qualsiasi mezzo gli obiettivi del benessere economico.

Intanto io proseguivo il completamento del mio percorso scolastico, avendo anche dei buoni risultati che sembravano promettere per me un buon futuro e gratificavano il lavoro e le fatiche della mia famiglia. Il mio comportamento corretto nel frattempo faceva restare invisibili i segnali negativi del mio carattere, che già allora c’erano. Il desiderio dei miei famigliari, e anche il mio, erano che io continuassi gli studi universitari in Italia. Dopo tanta fatica per imparare la lingua e completare le questioni burocratiche, alla fine ho vinto il concorso per studiare a Padova, alla facoltà di giurisprudenza. Crescendo in un Paese come I’Albania con tante difficoltà di vita, vedevo che tra i miei connazionali, che erano emigrati verso altri Paesi europei, la maggior parte tornava con una situazione diversa, con condizioni economiche migliori, e tutto ciò, mentre mi accingevo a partire per l’Italia, apriva la strada alla mia immaginazione.

La realtà si è dimostrata molto diversa: le difficoltà di inserimento e le possibilità lavorative scarse, unite alla mia fragilità lontano da casa e quindi da qualsiasi controllo anche solo psicologico della mia famiglia, mi hanno spinto a commettere reati nel traffico degli stupefacenti. Il fatto è che in Italia ho scelto di rimanere attaccato a gruppi di persone provenienti dal mio stesso Paese, e di non approfondire un confronto culturale con persone del luogo, non ho cercato cioè motivazioni “sane” per raggiungere condizioni sociali migliori e nemmeno per migliorare me stesso, ho voluto solo far credere al mio gruppo famigliare che ero riuscito a inserirmi nel contesto sociale e nel mondo del lavoro lontano da casa.

Le aspettative tradite nei confronti della mia famiglia, il loro giudizio a cui dovrò in un modo o nell’altro essere sottoposto, I’arresto, il carcere, la detenzione, una realtà vuota in cui le prospettive sono molto labili e fumose - sono di fatto delusioni che impongono una rivisitazione del mio vissuto. Certamente però non si riesce ad arrivare ad una rivisitazione di se stessi e delle proprie scelte sbagliate nel vuoto e nell’abbandono all’interno di un carcere, dove il tempo non viene vissuto attivamente, ma solo trascorso passivamente. La mia prima carcerazione è stata in un tipo di carcere così, senza un sostegno psicologico che ti permettesse di ripensare quei comportamenti errati, un carcere dove il tempo da trascorrere era solo tempo da far scorrere il più veloce possibile, ma che di fatto nulla ti lasciava dentro su cui riflettere.

Oggi ritengo che le condizioni sia­no diverse, visto che faccio parte di un gruppo come quello della redazione di Ristretti, in cui ci sono vari progetti. Esiste in particolare un progetto con le scuole, in cui si incontrano migliaia di studenti: con loro ci si confronta e non lo si può fare indossando una maschera. E anche se psicologicamente si mantengono o si cercano di mantenere delle difese o una sorta di giustificazioni, lentamente queste difese cadono e si è obbligati a porsi di fronte agli studenti come con se stessi e null’altro che quello che realmente si è.

Infine, esiste da tre anni un Laboratorio di Scrittura, in cui il confronto, il dialogo e il raccontarsi attraverso la propria scrittura e quella di altri porta la mente a riflettere su ciò che si è stati e sulle caratteristiche della nostra storia personale, vista come una catena di cause e di responsabilità che si possono capire e raccontare cercando le parole che hanno segnato la nostra vita.

La ricerca per migliorare se stessi si basa su strumenti che pemettono di ricostruire quello stato personale e sociale distrutto dal reato, e dal conseguente allontanamento temporaneo dalla società: e così si può arrivare ad accettare in qualche modo la propria storia per riuscire a costruire un futuro basato sulla conoscenza dei limiti e delle regole di convivenza corretta all’interno della società, e sulla consapevolezza che le aspettative eccessive portano spesso a fallimenti e delusioni.

Se fin da ora si vivono esperienze di convivenza costruttiva, come il nostro Laboratorio di Scrittura, si fa già esperienza di coscienza e di cambiamento in positivo.

Il mio intervento è anche a nome di quelli che frequentano il Laboratorio di Scrittura, avviato tre anni fa da Angelo Ferrarini, docente di scuola superiore, esperto di scrittura creativa, e condotto oggi insieme a Donatella Erlati, docente psicopedagogista e psicologa. Ci si incontra due ore ogni lunedì negli spazi di Ristretti. Siamo una ventina. Il corso avvia alla scrittura di brevi racconti per aiutarci a capire chi siamo come persone in questo viaggio che è la nostra vita. Per ora scriviamo di solito brevi testi autobiografici.

 

Ora distinguo anche gli Achei dagli occhi lucenti, tutti potrei riconoscerli, tutti potrei nominarli.

(Iliade , Omero, canto III)

 

Sguardi sopra le mura

Il racconto di sé per ritrovare il bandolo della matassa della vita

 

di Beppe Pasini, docente a contratto di Pedagogia della Famiglia

all’Università di Milano Bocconi e

di Pedagogia Sperimentale all’Università di Brescia

 

Sopra le mura

Il tema del mio intervento riguarda la pratica del racconto e della scrittura autobiografica in carcere. Mi occupo di scritture in prima persona in diversi contesti del lavoro terapeutico, educativo e sociale, in particolare con persone che attraversano situazioni di marginalità, di sofferenza, di crisi. La scrittura della propria vita o di parti di essa, è divenuta una presenza costante nel mio modo di fare formazione, di insegnare, di fare ricerca. Come possibilità per comunicare e dare senso ad esperienze cruciali legate al dolore, alla sofferenza, alle criticità ma anche come occasione di ricerca di senso, di cambiamento, di trasformazione. Mi piace pensare a questa parte del mio lavoro come a quella di un facilitatore: di memorie. Il modo che mi sembra più opportuno per parlarne anzi di scriverne, è quello di partire da ciò che faccio, dalle pratiche anziché dalla teoria, per poi provare a individuare alcune linee operative su cosa significa aiutare le persone a raccontare e scrivere di sè in un contesto come il carcere.

Mi rendo conto che parlarne in prima persona è un’operazione un po’ rischiosa ma è lo stesso rischio che la scrittura espone chi la sperimenta. Ecco, se dovessi riassumere in una immagine cos’è per me la scrittura in carcere, la rappresenterei come uno sguardo sopra le mura. Sento che questa immagine mi conforta e mi invita a cercare le storie delle persone nonostante lo sgomento per la lontananza e l’assedio. E’ una immagine epica che ho incontrato nel canto terzo dell’Iliade:

Elena dall’alto delle mura di Troia scruta le navi dei Greci arrivare dal mare per vendicare il suo rapimento. La portentosa flotta  veleggia verso la costa per iniziare di lì a poco una lunghissima e sanguinosa guerra che durerà per più di dieci anni. Le navi sono ancora a molte miglia di distanza ma il vecchio re Priamo chiede ad Elena di fare una cosa apparentemente impossibile. Le chiede di riconoscere i volti dei guerrieri che si trovano sulla tolda. E lei descrive le armature, gli elmi, le corazze. Non solo. Poiché è l’unica ad avervi convissuto, non solo distingue i volti ma conferisce anche i nomi ai guerrieri Achei. Scorge le crini dei destrieri e lo sventolio delle vele. Il suo sguardo si proietta ben oltre le distanze fisiche e attraversa lo spazio e il tempo. Attraverso questo espediente narrativo che prende il nome di Teichoscopia (=sguardo dall’alto delle mura). Omero[1] propone in questo modo la sua idea di epica come uno sguardo al di sopra delle mura al quale il mondo si offre in piena luce. La scrittura di sé dunque, come uno sguardo sopra le mura.

 

Di qua e di là dal muro: un laboratorio di scrittura autobiografica in carcere

Ricordo. Ricordo il carcere che sorge in mezzo ai campi , vicino alla città. Un grande prefabbricato. Basso, di un colore marrone. Somiglia a molti altri: tristi allo sguardo, non concedono molto alla cura. Sono qui per iniziare un corso di scrittura autobiografica per detenuti legato al tema della cittadinanza attiva. Nel mio modo di lavorare, la scrittura di sé è solo una delle dimensioni coinvolte: cerco di affiancare anche dimensioni estetiche e vitali che invitano alla ricerca di altri alfabeti: i colori, la manipolazione, l’espressione corporea, le dimensioni poetanti che, intrecciandosi alla scrittura, la proiettano in una profondità intima, speciale, così unica da essere vera ad ogni occasione. Il tema della verità nella autobiografia è affascinante e scivoloso. In carcere è cruciale. Sono vere le storie di sé che una persona scrive e racconta? Quando ascoltiamo la storia di un detenuto, abbiamo a che fare con eventi realmente accaduti oppure con reinvenzioni immaginarie? Cos’è una storia vera? Una storia dipende da chi la ascolta ma l’ascoltatore lo sa di avere questa responsabilità?

Nel lavoro sociale, con persone che vivono condizioni di fragilità esistenziale, l’invito a scrivere di sé genera sovente perplessità o addirittura rifiuti. Odo spesso frasi del tipo : “scrivere ti mette a nudo” o “non vorrei che altri sapessero le mie cose più intime” o ancora: “scrivere? Non sono capace, non ci sono mai stato tagliato!” . In carcere non è diverso. Cerco di non farmi scoraggiare e di considerare questi timori come fili da seguire con pazienza, per tentare di dipanare il bandolo di una vita. Nei casi più fortunati, di trovare una storia che riconnetta ciò che sembrava separato. La poetessa Tess Gallagher dice: “la poesia ricongiunge ciò che la vita separa”. Mi piace pensare alla scrittura di sé, come un’esperienza che riconnette. O almeno, è questo che cerco quando la propongo. Un’esperienza di ri-connessione: con le memorie famigliari, con gli eventi drammatici legati al reato, con le emozioni che le hanno accompagnate. Fare poe­sia in carcere è una pretesa che nasce spesso insieme alla scrittura di sè. Wiszlawa Szimborska dice : “Preferisco la stupidità di chi scrive poesie a quella di chi non le scrive” , e allora mi consolo. Perché la poesia? Per tanti motivi. Forse perché ci si libera dalle regole della sintassi per inventarne di nuove sperimentando gli effetti trasformativi dell’immaginazione. La poesia rompe i vincoli e anche il corpo vive la sua ora d’aria. Nella parola ‘fragilità’ ad esempio, le lettere sembra barcollino in un precario, tremolante, equilibrio fino a terminare con un’accento robusto e assertivo. Niente affatto fragile.

I gruppi che incontro in carcere sono spesso composti da persone migranti. Allora a volte mi aiuta, partire dalle parole e dal loro suono. Le parole sono innanzitutto suono, e la musica attraversa le distanze tra le culture. In questo gruppo, per presentarsi molti usano la parola ‘straniero’ e allora suggerisco di pronunciarla sempre più lentamente per porre attenzione a cosa accade nella bocca. Il suo movimento somiglia al suo significato. L’aria sibila contro il palato e viene spinta dalla lingua contro gli incisivi per poi emigrare forzatamente verso l’esterno . Proprio come avviene ad un profugo costretto ad abbandonare a forza la sua terra espulso dalla povertà, dalla guerra, dalla mancanza di lavoro, dalla violenza. Anche per altre parole il viaggio dell’aria è simile: strano, forestiero, estraneo, esterno, clandestino. Poi uno azzarda: ma allora anche ‘stronzo’! E tutti scoppiano a ridere. Ma forse che anche lì non avviene un analogo processo di migrazione:  da ”un dentro a un fuori” ? Possiamo ora pronunciarla con un altro orgoglio e ricordare di quella volta che ci siam sentiti stranieri. Le parole come le persone seguono destini nomadi.

 

In classe: la bellezza salva la vita

In carcere spesso la classe non c’è. Almeno non nel senso che ho sempre conosciuto. Chi insegna in carcere deve spesso fare i conti con una presenza alternante e precaria, con variegate origini culturali, e misere origini. Ho imparato però che non sempre significa deprivazione culturale. In questo gruppo qualcuno pronuncia a malapena l’italiano ma conosce tre lingue. Amandeep Tchai capisce il punjabi, l’indi e il russo e scrive sdolcinate liriche tracciando raffinati arabeschi che ci meravigliamo a contemplare quando ce li mostra. Karim conosce gli antichi scritti Zulu e parla correttamente cinque dialetti del Ghana, Saphem prima della detenzione, lavorava come cesellatore in una impresa di mosaici in pietra. Molti di loro hanno viaggiato attraverso più continenti. Hanno figli, compagni, mogli e alcuni più di un diploma scolastico. Hanno vissuto molto più di me. Tutti hanno la piena consapevolezza di appartenere ai diseredati del pianeta. Sento che questo li porta istintivamente a minimizzare o mortificare la loro storia se non a ripudiarla. Per raccontarla bisogna esserne fieri, almeno un po’. Perché partecipare ad un laboratorio di scrittura allora? Costruire senso sulla motivazione attribuisce valore a ciò che si fa e lo àncora ad  una prospettiva futura. Chiedo: Cosa vorreste imparare in questo corso?

 

Fancy: a non dimenticare e a ricordare parti della mia vita;

Octavia: a esprimermi meglio quando uscirò

Jouari: vorrei imparare a scrivere e a scrivere poesie!

Angelo: vorrei imparare e conoscere altre culture per me stesso e per poter dialogare;

Evelina: vorrei scrivere belle parole e bene;

Larrissa: vorrei imparare a esprimere meglio pensieri, sentimenti, comprendere meglio le parole e il linguaggio.

 

Il silenzio in carcere è impossibile; è una grancassa che amplifica ogni rumore, suono, urlo, eco, vociare, imprecazione. Bisogna farci i conti. Le vetrate che danno sul corridoio garantiscono oltre alla sorveglianza anche l’assenza di una certa intimità, auspicata in un gruppo di scrittura autobiografica ma qui preclusa.

 

Anche gli spazi parlano

Il gruppo è misto: sei donne e sei maschi, ai quali si aggiungono però saltuarie presenze di concellini attirati dai compagni che frequentano il corso. Il clima in cui si svolgono i nostri incontri è per la maggior parte delle volte festoso e eccitato. Gli spazi sono ristretti, con tavolini usurati e seggiole sbrecciate. Mettersi in cerchio fianco a fianco, come spesso propongo, è una piccola rivoluzione: i corpi si sfiorano, si toccano, si urtano goffamente per celare così un evidente imbarazzo frammisto a desiderio. Il carcere amplifica all’infinito le allusioni erotiche: nelle parole, nei corpi, nelle inclinazioni gergali, trasformando ogni gesto in una velata dichiarazione d’amore, in un simbolico ricordo proibito, condendo i vocaboli di sensualità. Ma anche di melassa retorica. Mi chiedo:  hanno imparato in questo modo, attraverso le parole, a far l’amore in carcere? Alda Merini sosteneva che mai come in manicomio, altra istituzione totale, aveva amato.

Periodicamente, come un ipnotico tamburo di house music, irrompe la bastonatura delle sbarre che viene celebrata per verificarne la integrità. Un giorno abbiamo provato a danzarlo irriverendo quel rituale e scoprire così la grazia inattesa del battito di un cuore affannato. Il nostro. Tutto, in carcere invita ad un altro ritmo e ad un altro pensiero. Fuori si chiamerebbe contemplativo o introspettivo, qui diventa ossessione. Ciò che mi colpisce in questi giovani detenuti è la cura nell’abbigliamento con cui vengono al nostro appuntamento. Ci si aggrappa alla spasmodica ricerca della bellezza per non soccombere alla incuria. Un bell’aspetto fa sentire meglio e la normalità pare più vicina. Anche la scrittura aiuta a sentirsi normali. In carcere si scrive molto: alla famiglia all’altro capo del mondo o al paese accanto, ad una fidanzata mai lasciata, ad un indelebile amico ex compagno di cella, all’avvocato, ad un figlio che non si è mai visto. La difficoltà è semmai una condivisione che aiuti a socializzare le storie dell’io che ognuno, silenziosamente coltiva e che rischiano di implodere anche con violenza, nelle relazioni quotidiane. Ascoltarsi diventa arduo, come se il fragoroso silenzio che ognuno coltiva mentalmente cercasse gli argini per debordare rendendo impudica la memoria che si svela.

Quando però il muto fragore si placa, le storie affiorano, ed è bellissimo. Si tratta il più delle volte di origini di storie, di ricordi in grembo, di rievocazioni improvvise, di intenzioni narrative, regalateci dall’amorevole solco di una biro, un pastello, una matita sgarruppata, un moncone di gessetto, un pezzo di carbone perfino. A loro celebriamo la nostra riconoscenza con un applauso, una risata, un pianto, un pomeriggio insieme.

 

Sinestesie per raccontarsi in corpo che ricorda

Coniugare corpo, memoria e linguaggi sensibili mi sembra una via attraente per proporre un alfabeto che risvegli sensi rattrappiti dalla quotidianità. Questo dovrebbe fare la scrittura. Come nella Sinestesia (dal greco sun-aisqanomai = percepire insieme) in cui si intrecciano registri sensoriali con altri: i colori si fanno chiassosi, gli odori colorati, i sapori ruvidi o lisci. Ci proviamo in un corpo a corpo con le parole evocando un incontro indelebile, proprio con la scrittura, come se fosse una persona: “Io e la scrittura. Un incontro indimenticabile”

 

Dice Larrissa nel suo italo-rumeno:

“…mi ricordo quando scritto a mia madre e che le ho detto una cosa che non sono mai riuscita a dirle con la voce…”

 

e Andrea ricorda:

“… ricordo le parole di saluto scritte su uno striscione dedicato ad un amico morto sulla strada. Quasi un fratello. “

 

Sono incontri indelebili certo e la scrittura ne è stata testimone e protagonista. Propongo allora di rileggere quanto scritto e dirlo con la propria lingua madre. E i suoni cambiano: sento la suadenza del castillano, le rotonde aspirazioni del maghreb, il ritmo dolcissimo del punjabi (o era indi?), l’inglese africano di Fancy, una lontana nenia slava, il bauscia pugliese di Angelo e io abbozzo, ridicolo, parole in dialetto bresciano, lontani echi della parlata ormai perduta delle mie radici famigliari.

 

E ci diciamo che allora, Scrivere è come: …un libro, mettere tante cose insieme, un fiore che prima era solo un foglio piegato, una barca che attraversa il mare, un sacchetto pieno di parole, una lettera da mandare.

 

La scrittura, come le persone, respira, cammina, si muove. Prendiamo il foglio di carta sul quale abbiamo scritto e lo avviciniamo all’orecchio. Lo stropicciamo, lo strappiamo, lo appallottoliamo, ascoltiamo il suono delle parole, ce lo tiriamo come fosse una palla. Ridiamo. Parole in viaggio, parole che ci regaliamo alla fine dell’incontro per ringraziarci di quanto ci siamo raccontati e da riportare con sé in cella per continuare a ricordare anche da soli.

 

Quando diamo e prendiamo voce, tutto parla e racconta: anche un cancello. Labile confine tra dentro e fuori, ma pure netto, risoluto, invalicabile. Per arrivare all’aula di cancelli ne attraverso cinque, ognuno con una sua “personalità”, un suo particolare sfrigolio che è parola più appetitosa di cigolìo. Attraverso il cancello  passano sguardi, aria, luce, immagini, attese, speranze, pensieri. Non li si può fermare con un chiavistello, passano comunque. E allora chiedo: quali parole vorreste portare dentro e quali vorreste portar fuori? Propongo ad ognuno di disegnare col carboncino un cancello e di scrivere tra le sbarre le parole che vorrebbe uscissero e quelle che vorrebbe che entrassero. Perché come dice Giovanni “…portare dentro significa, sia che vorresti che le parole ti facciano compagnia sia che vorresti imprigionarle, così anche portarle fuori vuol dire allontanarle da se stessi perché fanno male, ma anche liberarle.”

 

E allora le parole da portar dentro sono:

libertà, vita, famiglia, diritti, amore, giustizia, cambiamento, fiducia, vita sana, convivenza, risate, amicizia;

 

…e quelle da portar fuori:

rabbia, riscatto, serate, bamba, belle gnocche, ritorno dal nulla, telefono, allegria, il mio gatto, un libro da studiare, carmen, paura, parlare, piangere.

 

Tra le sbarre di quei cancelli abbozzati, le parole fluttuano ridicole e lievi, paiono indecise su quale direzione prendere. Ognuna porta con sé una storia, ognuna va a far visita a chi c’è dentro e poi ritorna fuori. Questo ricorda a molti che nella vita ci si può sentire in prigione anche senza esserlo fisicamente, così scriviamo di un momento in cui ci si è sentiti in prigione pur essendo liberi. Ricordo la storia di Hamhed e di suo padre e di un suo terribile errore medico che ne causò la morte, quella di Evelina e di un figlio che da tanti anni non può vedere, quella di Fancy e di una casa dalla quale non poteva uscire perché rinchiusa da un fratello violento. Ricordo Giovanni che lesse lo scritto di Larissa perché per lei era troppo doloroso e improvvisando lì per lì lo trasformò in risa di pianto. Rimembrare quelle storie ci scioglie in una intima “nostalgia” che si declina in arabo con = TUHACHT (Tuaesctìk) equivalente di ‘Mi manca’ , in Indi con = SHAKATI (Sciactì) e in ungherese con =HIANISZIK (Iànzik). Un movimento di guance e palato che si fa ora impastato e dolce, ora tenero e deciso, ora fuggiasco e restio. Gli stessi che pure chi prova nostalgia, vive. Trascriviamo le parole da portare “fuori e dentro” su biglietti di leggerissima carta velina, le appallottoliamo per gettarle oltre quelle sbarre di carboncino e ce ne andiamo anche noi leggeri dopo un’ evasione semantica.

 

Per guardare  oltre le mura

Da questa breve sintesi provo, per concludere, a individuare alcune linee guida che mi paiono importanti per creare contesti e occasioni che facilitino la narrazione e la scrittura di sé in carcere  come uno sguardo sopra le mura:

 

Progettare e Concertare

Per lavorare educativamente in carcere è cruciale progettare e concertare un laboratorio di scrittura con la direzione, con il personale educativo, con gli operatori, i detenuti.

Mi pare una pre-condizione necessaria per creare una cornice esplicita e concordata sul senso, gli obiettivi, la metodologia. In un’ottica di trasparenza e reciproco apprendimento. Questo non implica solo saper lavorare in rete, ma pensarla anche come una selva, un giardino, un cielo, un bosco.

 

Ritualizzare l’incontro

Costruire una ritualità fatta di orari e giorni stabiliti così come di passaggi che si ripropongono, aiuta a identificare l’appuntamento con la scrittura di sé e con le storie come un “luogo speciale” e intimo, da attendere, desiderare, curare. Affinchè il “dentro” somigli almeno un po’ al “fuori”.

 

Riconoscere il primato alla cura della relazione

Un laboratorio di scrittura autobiografica è soprattutto una esperienza di cura della relazione: con il contesto, con i partecipanti, con gli operatori carcerari. Per diminuire i rischi illusori delle trappole della tecnica e dei tecnicismi, è essenziale assumere una postura circolare, attenta ai feedback offerti dalla relazione con le persone e a quello che accade. È soprattutto la percezione di cura e di sentirsi curati che fa la qualità di un percorso formativo. È questa che le persone portano via e che a volte salva la vita.

 

Cercare la bellezza

Vedere la bellezza significa rieducare lo sguardo. È un invito a cercare le strutture che connettono, direbbe Gregory Bateson. Vedere la bellezza crea speranza, favorisce una pensosità leggera; riapre/libera le parole, genera spiazzamento, sposta il tempo e promuove la capacità di immaginare e di immaginarsi. Dice il poeta ed educatore Danilo Dolci: “Se l’occhio non si esercita, non vede. Se la pelle non tocca non sa, Se l’uomo non immagina si spegne”

 

Ridare centralità al corpo

I corpi reclamano una loro voce. In carcere a volte è un urlo straziante. A volte ha la forma di una cicatrice e il colore di un tatuaggio. Altre volte è un suono muto. Il corpo impara, pensa, sogna. Implica considerarlo come un testo, con una sua propria scrittura, sapienza, memoria. La nostre prime memorie di cura sono sensoriali, fisiche. L’odore della madre, il sapore di un cibo d’infanzia, il calore di una mano. Il corpo ama il gioco, perché è esso stesso gioco. Nei laboratori giochiamo molto.

 

Favorire una polifonia narrativa

La scrittura di sé dovrebbe alimentare la consapevolezza che non una ma molte autobiografie abbiamo! Tutte quante vere. Se una storia di vita ha come unico titolo il nome del reato commesso, le altre che pure possono nascere, si sottraggono a questa tirannia per essere narrate con altre parole. Magari meno angosciose. La scrittura di sé aiuta a rivedersi, ripensarsi, ri-narrarsi, che sono azioni che promuovono cambiamento e offrono così al suo autore una possibile redenzione.

 

Onorare la complessita’ di ogni relazione

Si esce cambiati dall’ascolto di una storia di vita. Ricordo che quando mi sono occupato di memorie dei sopravvissuti ai lager nazisti, i testimoni talvolta interrompevano il loro racconto per chiedere: ma tu che ascolti le nostre storie cosa ti succede, cosa provi? Ascoltare e aiutare una persona a comporre la propria storia, invita anche chi ascolta a cercare i nessi nella propria esistenza. Cura dell’altro e cura di sé si intrecciano così, circolarmente e suscitano domande a cui è difficile sottrarsi: chi sono io per l’altro? chi è l’altro per me? Che ci faccio qui? Perché voglio ascoltare la sua storia? C’è un po’ di me nelle loro esistenze e ascoltandole, la matassa spesso aggrovigliata della mia vita, sembra sciogliersi.

Incontrare la storia di chi sta in carcere, invita a ritrovare anche la propria. Ad esempio con tutte quelle volte in cui abbiam perso la libertà, in cui eravamo lontani dagli affetti famigliari, o ci siamo sentiti redenti o condannati. Di quelle volte che abbiam trovato la bellezza in mezzo alla tragedia e questo ci ha salvato la vita. Aiutare i ragazzi che incontrano queste vite proponendo loro occasioni e stimoli in cui prendere contatto essi stessi riflessivamente con la propria memoria attraverso la scrittura, è più di un metodo. È una postura che educa all’intelligenza narrativa, all’ empatia e all’ascolto di quelle storie che un po’ somigliano a quelle di ognuno di noi.

 

Per terminare

Ecco, è con gratitudine che il laboratorio di scrittura in carcere finisce. Ma prima di lasciarci, accade. In uno di quegli attimi di silenzio che ora angosciano un po’ meno. È Rachel che racconta ora. Sul suo viso d’Africa che trasluce, ha una cicatrice gonfia che lo attraversa dall’orecchio al labbro. Una volta accennò ad un machete, ma nessuno le chiese oltre. Ricorda la sua infanzia perduta accennando ad una ninna nanna nel suo idioma bambino, il dialetto Edo’ del delta del Niger. Ci facciamo muti mentre ci regala il suo canto. In quel luogo di sedie sbrecciate e di muri scrostati, un canto. Perfino il fragore delle sbarre malmenate si acquieta. Ci traduce le sue parole, che dicono così:

Dio mia pace guarda gli amici

quello che tu vuoi

quello che tu dai

io voglio ciò che tu mi dai

io vengo da te, io torno a te

La sua voce celebra gratitudine nella stanza. Mi ricordo di avere in tasca un lettore mp3 che registra pure. So che non si può fare ma decido di usarlo e di portare quella voce con me. Chiedo a Rachel di cantarla ancora e per alcuni attimi quel canto squarcia ogni oppressione e il suo respiro soffia quieto sulle nostre notti, al di sopra delle nostre mura.

 

*Adattamento dell’articolo apparso sulla rivista Animazione Sociale n. 240/2010 dal titolo, ”La possibilità di sguardi sopra le mura. Un laboratorio per scrivere di sé in carcere”

 

Le conclusioni della Giornata di Studi

 

Un’occasione per “pensare pensieri non pensati” sul tema della rieducazione

La parola “rieducazione” è stata declinata oggi, da chi ha preso la parola, con modalità, forme e contenuti che si sono coniugati più in seno alle strategie di prevenzione sociale che a quelle di prevenzione penale

 

di Adolfo Ceretti

 

Viviamo tempi cupi. Molto cupi. Le odierne drammatiche emergenze economiche e sociali si intrecciano con le questioni della devianza, della pena, della punizione. L’opzione alla quale siamo invitati ad aderire da parte della Politica risuona, spesso, in questi termini: se non si vuole vivere in una società insicura e non rassicurante oltre che da un punto di vista economico anche dal punto di vista dell’incolumità dei cittadini, occorre proteggersi fino in fondo da ogni rischio, e chiedere alle istituzioni (penali, politiche) di essere i primi baluardi di questa difesa. L’angoscia paranoica di essere invasi da presenze oscure e terrificanti, identificate nei delinquenti che arrivano nel nostro Paese da tutte le parti del mondo travestiti da migranti, e che sbarcano pronti a saccheggiarci, si è impossessata – via mass-media – di molti di noi. Chi, infatti, se il discorso è impostato in questi termini, non si sente legittimato a pensare che le carceri debbano contribuire significativamente a svolgere unicamente la funzione di difendere la società, rinchiudendo il maggior numero possibile di predatori (reali o virtuali)?

Detto in altri termini: il paradigma securitario funziona da calamita, una calamita che polarizza le decisioni pubbliche e le scelte individuali: tutto ciò che respinge, blinda, rinchiude e immunizza dai pericoli è positivo; tutto ciò che accoglie e apre al dialogo è negativo. Queste torsioni politico-criminali – occorre dirlo senza infingimenti – stanno svuotando di senso, almeno in parte, il contenuto dell’articolo 27 comma 3 della Costituzione italiana.

Oggi, nel corso del nostro riuscitissimo Convegno, organizzato magistralmente da Ornella Favero e da Ristretti Orizzonti, abbiamo respirato, al contrario, un’aria differente, e messo a punto idee e programmi che non nascono da vissuti di angoscia e paranoia.

Riflettendo ad alta voce osservo che nel corso di questo Convegno si è parlato, meno di quanto forse pensassi, intorno a temi strettamente connessi alla realtà carceraria, alla vita quotidiana dei detenuti, temi che a loro volta sono strettamente connessi con la questione della rieducazione inframuraria.

Non si è parlato – sono solo alcuni esempi – dell’articolo 41-bis; del braccialetto elettronico; del circui­to di media sicurezza, così come previsto dalla Circolare 3594/6044 del 24.11.2011; del rischio suicidario in carcere, tema peraltro particolarmente approfondito da Ristretti Orizzonti; della riforma della sanità in ambito penitenziario, avviata negli anni passati; di psichiatrizzazione del carcere (l’unico e significativo dato è stato offerto dal Dott. Pietro Buffa quando ha ricordato che nel carcere Le Vallette sono entrate, in 700 giorni, ben 576 persone malate di mente e non in misura di sicurezza, naturalmente).

Aggiungo subito che non sono dispiaciuto per questi silenzi.

Se avessimo affrontato questi temi avremmo analizzato, ancora una volta, le questioni politiche – intese in senso lato – che premono sulla vita carceraria, ma non avremmo avuto la possibilità di “pensare pensieri non pensati” – come invece è stato fatto – sul tema della rieducazione. Tutto ciò per dire che oggi è stato svolto un lavoro assai pregevole. La parola “rieducazione” è stata declinata, da chi ha preso la parola, con modalità, forme e contenuti che si sono coniugati più in seno alle strategie di prevenzione sociale che a quelle di prevenzione penale. E questo aspetto è certamente rimarchevole, almeno per chi ora sta parlando.

 

Per concludere le mie brevi riflessioni sul Convegno è, però, sul racconto di sé nello spazio carcerario che desidero tornare.

 

Abbiamo discusso nel corso dell’intera giornata sul fatto che anche un detenuto deve imparare a convivere con le proprie debolezze e a onorare i suoi limiti, per non rischiare – come abbiamo letto nella brochure di presentazione del Convegno – di “schiantarsi al primo impatto”, dopo la carcerazione, con una vita che difficilmente può essere ricca di gratificazioni. Abbiamo ragionato a lungo su quanto sia importante incontrare qualcuno con cui avviare e strutturare un racconto di sé per ritrovare il bandolo della matassa della vita, come è stato messo bene in evidenza in una delle didascalie del convegno e poi da alcuni Relatori.

Personalmente, ho sempre interpretato il ruolo del criminologo e il suo operare lontano da ogni pretesa positivista e scientifica. A partire da questa consapevolezza, soprattutto negli ultimi anni – cito qui l’amico Alfredo Verde (“Il reale del delitto e i tre livelli della criminologia”, in A. Verde, C. Barbieri (a cura di), Narrative del male, Angeli 2010) – ho maturato la convinzione che fare criminologia significa decifrare quegli ipertesti che sono le narrazioni, ipertesti prodotti a diversi livelli e in diversi contesti dai discorsi degli attori che ruotano attorno all’atto criminale (rei, forze dell’ordine, giudici, giornalisti). In altre parole, il criminologo, pur gravato da tutte le ambiguità che lo sovraccaricano, dovrebbe, in contesti diversi, aiutare il reo a scrivere la sua trama narrativa, se non ce l’ha, o la sua trama vera, se usa i suoi account per ingannarci. In tal senso, trovo una forte sintonia anche con alcune parole scritte da Cristiano Barbieri (“Ermeneutica e criminologia”, in A. Verde, C. Barbieri (a cura di), Narrative del male, Angeli 2010): “Il metodo narrativo considera sostanziale nella vita mentale del soggetto l’interpretazione della realtà, descritta attraverso le narrazioni intra ed inter-personali delle sue esperienze. Questo permette di conoscere in modo più puntuale non solo il naturale bisogno di raccontarsi e di raccontare ciò che accade, aiutando a comprendere meglio quelle modalità di dare un senso agli eventi, ma anche quel processo di scrittura e ri-scrittura della propria biografia, o delle parti più significative di essa, che motiva anche il cambiamento dei vissuti e degli atteggiamenti nei confronti del mondo”. Nel discorso esistenziale di ogni uomo la creazione di storie rappresenta il primo dispositivo al quale si fa ricorso per conoscere e interpretare perché, parafrasando ancora quanto sostiene Barbieri, è attraverso il racconto che si ricerca il significato delle proprie esperienze e si conferisce senso agli eventi e ai propri vissuti, si dà un’incurvatura al proprio progetto di vita.

Se tutto ciò ha un fondamento, allora le strategie di prevenzione e trattamento del crimine possono essere, almeno in parte, attuate attraverso i “racconti” che rievocano le vicende criminose, agite o subite. Attorno a questi racconti, infatti, gli operatori possono aiutare i loro interlocutori a edificare significati e valori che possono contrastare un’evoluzione, o anche una carriera di tipo criminale, alla luce dell’interpretazione data di ciò che di deviante è accaduto al singolo e a ciò che egli ha provato in quei frangenti.

In Cosmologie violente, un libro pubblicato nel 2009, ciò che insieme a Lorenzo Natali ci siamo proposti di ricostruire sono i percorsi psico-sociali che conducono un individuo a realizzare atti violenti – quali omicidi, lesioni gravi o violenze sessuali – mostrando come tali percorsi non siano segnati da una natura irrazionale e incontrollabile, ma piuttosto edificati e collocati dentro itinerari interpretativi che è possibile riorganizzare a partire dalla prospettiva di chi li ha vissuti, restituendo dei tracciati di senso in una certa misura intelligibili e avvicinabili. Seguendo queste direzioni teoriche, prima di rispondere all’interrogativo relativo al “perché” un individuo, in un momento preciso della sua vita, decida, inaspettatamente e sorprendentemente, di attaccarne fisicamente un altro, bisognerebbe considerare che ogni atto ha una storia e che occorrerebbe sapere qualcosa di questa storia e di quella del suo autore prima di poterne comprendere il senso. Coerentemente, è proprio attraverso interviste qualitative semi-strutturate a detenuti condannati per crimini efferati, domandando loro cosa pensavano e cosa provavano nel momento in cui commettevano un omicidio o una violenza sessuale, che abbiamo cercato di catturare progressivamente i significati degli atti violenti, giungendo a mettere in luce la fondamentale ambiguità che attraversa il mondo di chi li pone in essere e il nostro. Da un lato, infatti, il ruolo attivo e riflessivo dell’individuo nella costruzione dell’azione violenta è lo stesso che presiede e guida qualsiasi altra nostra azione (anche quelle non-violente). Per altro verso, si registra un drammatico scarto fra “noi” e “loro” nel fatto che gli attori violenti scelgono un’azione violenta come mezzo di risoluzione di un conflitto in atto. Il riconoscimento di quest’ambiguità di significato fra mondi simili – ma non eguali – contribuisce a non esaurire, dunque, il problema della criminalità violenta con la questione della malattia mentale, e motiva a guardare con occhi nuovi la profondità qualitativa del perché violento di molte azioni umane.

Se assumiamo queste prospettive la domanda, in una visione trattamentale e rieducativa, può diventare la seguente: che cosa può offrire questo modo di approcciare la persona (violenta) che sta scontando una pena in carcere? In particolare, può essere utile per avanzare una riscrittura di un racconto di sé? E ancora, la riflessività, la conversazione interiore promosse da tali narrazioni possono diventare un elemento centrale di operatività per iniziare un percorso di trasformazione individuale?

In sintesi: la propria storia, raccontata, ascoltata e riconosciuta senza essere più giudicata, può divenire, a un certo punto del “cammino” dentro a un’istituzione totale, il punto di partenza per un percorso di auto-osservazione, l’inizio di un processo di cambiamento per reclamare un’esistenza più indipendente dalle relazioni di dominio violento (che contraddistinguono la vita di molti detenuti)? È, insomma, seguendo queste traiettorie che il carcere può divenire – pur con tutte le sue inaccettabili contraddizioni – un luogo che non cancella e scomunica dal mondo le persone che ospita, può iniziare a vederle, a riconoscerle, a contarle per una e diventare, paradossalmente, uno spazio potenziale per pensare, ridimensionando la sua ormai prediletta funzione di custodia e incapacitazione e… gli spettri del sogno di Primo Levi.

Su tutti questi temi l’esperienza di Ristretti Orizzonti ha insegnato e ha da insegnare ancora molto

 

Che autorevolezza ha chi rieduca in queste condizioni di illegalità diffusa?  

di Rita Bernardini,

Deputata Radicale nelle liste del

Partito Democratico

 

Vorrei partire con un interrogativo: “Chi rieduca chi”? Perché c’è un problema ed è un problema di legalità, di rispetto della legge, di rispetto delle regole, in fondo la legge è un insieme di parole messe in un certo modo, che regola la convivenza civile, e il patto che dovrebbe esserci fra gli uomini e le donne è il rispetto della legge. Certo la democrazia ci dà la possibilità, se mai ci fosse, e io ritengo che in Italia la democrazia non c’è, la legge ci dà la possibilità di cambiarla o con il referendum, c’è il referendum abrogativo, o con una proposta di legge di iniziativa popolare, o attraverso gli eletti in Parlamento. Queste sono regole minime. Ebbene, noi abbiamo le istituzioni che dovrebbero far rispettare le leggi, a partire dalla nostra Costituzione, che sono le prime a violarle.

Allora un problema c’è ed è un problema serio: chi è senza peccato scagli la prima pietra. In mezzo a noi ci sono persone che hanno avuto esperienze con il carcere, e persone che non le hanno avute, ma è facile che almeno il 50% di coloro che sono qui abbiano avuto problemi con la giustizia.  Esagero? Guardate, in Italia in questo momento ci sono oltre dieci milioni di procedimenti civili e penali pendenti, ma non è che ci sono oggi perché è un momento particolare della storia del nostro Paese, no! Da trent’anni in Italia noi siamo continuamente puniti dal Comitato del Consiglio dei Ministri d’Europa per l’irragionevole durata dei processi, sia civili che penali. Come si chiama un uno che viene preso, viene mandato in galera, esce e ricommette un reato? Si definisce un “delinquente recidivo”, ebbene cosi si è comportata l’Italia. Perché dall’Europa ci è stato chiesto di rientrare nella legalità da trent’anni.

Mi sono fatta mandare i dati dal Ministero della Giustizia: ebbene, in questo momento, fra procedimenti civili e penali, c’è una causa ogni 2,3 famiglie. Il Consiglio d’Europa, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha chiesto alle istituzioni italiane, al governo, al Parlamento che cosa stanno facendo per uscire da questo stato di illegalità che blocca un Paese anche dal punto di vista economico. Le risposte che ho sentito da parte del Ministro della Giustizia mi paiano insufficienti, il Ministro dice: ho fatto il tribunale delle imprese, ho stanziato 7,2 milioni di euro per il processo telematico in sede civile. Tra l’altro era uscita una prima agenzia che aveva scritto 7,2 miliardi di euro, allora ho pensato che era una cosa seria, ma si tratta di milioni, e che cosa sono 7,2 milioni di euro per tutta Italia per la giustizia civile, sono niente. Quindi noi stiamo ingannando l’Europa e io spero che l’Europa insista anche con sanzioni nei confronti dell’Italia. Stiamo ingannando l’Europa dicendo che stiamo facendo qualcosa di serio, invece non stiamo facendo alcunché, anzi peggioriamo la situazione.

Allora c’è uno stato di illegalità sia nella giustizia, sia nella vita nelle carceri. Una volta eravamo io o Marco Pannella ad essere considerati esagerati, quando parlavamo di tortura nelle carceri, quando parlavamo di violazione sistematica dei Diritti Umani e Civili, ma adesso abbiamo il Presidente della Repubblica, il Ministro della Giustizia che il giorno dopo che ha visitato il carcere di Sollicciano,  anzi il momento dopo appena uscita, ha detto: “Le carceri sono luoghi  di tortura”.

Ma allora non è un obbligo uscire subito da questo stato di illegalità, che rieducazione si può dare in questo modo, che autorevolezza ha chi rieduca? Pensiamo anche alla Polizia penitenziaria, voi andatevi a leggere i loro contratti di lavoro, e poi per gli educatori, per gli psicologi, non c’è alcun rispetto della legge, una carenza di organico di 7000 unità, gli psicologi che fanno otto ore al mese e i detenuti nemmeno li possono vedere, non hanno proprio il tempo di incontrarli i detenuti, che legalità è questa, che autorevolezza ha uno Stato di questo tipo?

Ecco perché noi riteniamo che ci sia un obbligo da parte dello Stato intanto di rientrare nella legalità, quella costituzionale. Guardate che lo hanno fatto nelle carceri in California quando si sono resi conto che c’erano troppi detenuti rispetto alla capienza, l’ha fatto la Corte costituzionale tedesca, e allora noi riteniamo che la risposta da dare subito sia quella della amnistia, e che non si può aspettare un minuto di più. Voglio per finire invitare a riflettere che dove c’è strage di legalità prima o poi c’è strage di popoli, perché non c’è più nessuna regola che tiene insieme. In questo noi crediamo, e per questo continueremo a batterci, speriamo non da soli.

 

Riflessioni e contributi dopo la Giornata di Studi

 

Quelle circolari che quasi nessuno riesce a rispettare

Per parlare di rieducazione serve una “revisione critica” anche da parte degli operatori, che rappresentano un’istituzione che non funziona

 

di Igor Munteanu, Ristretti Orizzonti

 

Sono un ragazzo moldavo e da oltre cinque anni mi trovo a scontare una pena nelle carceri italiane. Attualmente sono da tre anni nella Casa di reclusione di Padova, dove faccio parte della redazione di “Ristretti Orizzonti”, e questo mio articolo sulla rieducazione prende spunto proprio da un confronto avuto in redazione, uno dei tantissimi confronti e discussioni che si fanno incessantemente, tutti i giorni.

Io penso che la rieducazione nelle carceri italiane quasi non esista, perché quello che succede in galera è che c’è una netta contraddizione tra quello che è previsto dalla Costituzione e quello che rea­lmente viene applicato da parte degli operatori e delle istituzioni che rappresentano questa realtà. Di solito quando c’è una circolare che reprime la vita di noi detenuti, viene esposta in sezione in bella vista, e ti si chiede di rispettarla alla lettera, altrimenti vieni sanzionato con un rapporto disciplinare, e la conseguenza sarà quella che non ti verranno dati i quarantacinque giorni di liberazione anticipata, previsti ogni sei mesi, se il tuo comportamento è “perfetto”… Mentre invece quando il Ministero adotta una circolare per migliorare la vita dei detenuti all’interno del carcere, non solo non ti viene comunicata, ma quasi sempre non viene rispettata. Allora mi chiedo: come può un detenuto rieducarsi a rispettare le regole e le leggi, se proprio da parte di chi ha il compito di insegnarcele, vengono continuamente raggirate e non rispettate, e ti viene data come unica spiegazione la causa del sovraffollamento?

Succede infatti spesso che, da parte delle istituzioni e degli operatori, ogni volta che un tuo diritto non viene rispettato, viene data la colpa al sovraffollamento, come se questa fosse una responsabilità del detenuto che è in carcere, facendoti cosi pagare tutte le conseguenze di un sistema che non funziona, e giustificando nello stesso tempo una istituzione distratta, che continua a tenerti chiuso nonostante non abbia più gli spazi per garantirti almeno di dormire dignitosamente.

Infatti in alcune carceri, in tutti questi anni di detenzione, mi è capitato di sentire e vedere gente che è stata costretta a dormire nelle salette della socialità con materassi appoggiati a terra per mancanza di spazi, quindi mi ritengo una persona fortunata di essere stato collocato nel carcere di Padova, perché qui ancora non si è arrivati ad uno stato cosi drammatico delle cose. Ma nonostante tutto anche qui a Padova talvolta si è costretti a subire, a causa del sovraffollamento, alcune violazioni dei diritti Non esiste più per esempio la possibilità di avere dall’amministrazione prodotti per l’igiene personale e delle celle, si è costretti a vivere in tre persone in celle grandi tre metri per tre, nate per ospitare un solo detenuto, con la conseguenza che una volta chiusi all’interno non è possibile stare tutti in piedi. E poi ancora, sono solo cinque le docce per settantacinque detenuti, di cui solo tre funzionano, ma con condizioni igieniche precarie in quanto piene di muffa e acqua che cade dal soffitto, e mancano spazi per attività educative per tutti. Su quasi novecento detenuti, solo poco più di trecento hanno la fortuna di svolgere qualche attività lavorativa o scolastica.

Mi chiedo allora come può un detenuto rielaborare gli errori che lo hanno portato a varcare la soglia del carcere, se prima non viene fatta una “revisione critica” anche da parte degli operatori che rappresentano un’istituzione che non funziona, nella consapevolezza che questo tipo di trattamento non farà altro che restituire alla società una persona peggiore di come è entrata. Solo quando ci sarà da parte loro questa chiarezza, si può iniziare a parlare di rieducazione.

   

Educazione significa tirar fuori da ciascuno la propria unicità

Noi ci educhiamo attraverso le vite degli eroi semplici (Deborah Cartisano), degli adulti credibili (Eraldo Affinati) come quelle che abbiamo ascoltato a Padova, che fanno zampillare la voglia di continuare a credere che ciascuno possa migliorare la sua vita in mezzo agli altri, sia in carcere che fuori dal carcere

 

di Adriana Lorenzi, scrittrice, formatrice, conduce laboratori

di scrittura autobiografica nelle carceri

 

Da dieci anni, da quando cioè lavoro all’interno del carcere di Bergamo, sento parlare di rieducazione e di trattamento dei detenuti da parte degli operatori dell’Istituto penitenziario.

Forse il problema sta nel prefisso ‘ri’ che precede la parola ‘educazione’, perché presuppone soggetti da educare per la seconda volta visto che la prima si è rivelata insufficiente, fallimentare. Pensare in termini di rieducazione significa collocarsi in una posizione di superiorità nei confronti di qualcuno che sta in quella di inferiorità.

A me personalmente è sempre piaciuta la parola educazione… mia nonna si lamentava dei giovani maleducati nei confronti degli anziani sui marciapiedi e sui mezzi pubblici e si inteneriva al cospetto di quelli beneducati. Per lei l’educazione - salutare con un buongiorno e un buonasera, dare del lei in segno di rispetto, lasciare il passo e aprire le porte alle donne - veniva prima di tutto perché il resto, diceva, sarebbe arrivato di conseguenza. Lo stesso vale per me.

Educazione viene da ex-ducere tipica dell’arte maieutica socratica, tesa quindi a tirar fuori da ciascuno la propria unicità; ma anche da edere che significa mangiare e nutrire, ossia offrire alle persone tutti i beni della storia umana, quelli da passare di generazione in generazione.

La pratica implica quindi un partire dal soggetto che ha ricchezze interne e dal contesto che si è andato stratificando di saperi e regole da conoscere e rispettare per una buona convivenza; e anche una fiducia nei confronti della trasformazione delle persone. Si possono cambiare i propri atteggiamenti e comportamenti e persino la propria scala di valori; è possibile trasformarsi, abbandonando cattive abitudini per un vivere civile, rispettoso.

 

L’appuntamento di maggio a Padova sul tema della rieducazione mi è sembrato imperdibile e sorrido perché, in realtà, è quello che mi dico ogni anno in occasione del convegno organizzato da Ristretti Orizzonti. Il nostro è un tempo duro e dobbiamo affrontarlo con chi condivide le nostre stesse passioni, i nostri stessi ideali e impegni perché non ci fiacchino completamente.

Il paesologo Franco Arminio scrive: “Noi adesso siamo assonnati e stanchi e in questa stanchezza possiamo solo prenderci cura di chi ci capisce e di chi capiamo. Non è tempo di stare con tutti, non è tempo di fare ogni cosa. Possiamo solo fare poche cose, dobbiamo ridurre i nostri impegni, sgravare il carico che portiamo addosso… Non dobbiamo importare sempre nuove esperienze, ma sforzarci di capire perché falliscono le nostre, perché il bene che proviamo a fare non dura. Non abbiamo più la coperta della politica, non abbiamo più la coperta di un pensiero collettivo in cui accasarci. Dobbiamo andare avanti con le persone che ci sono care, producendo ammirazione e riguardo più che rancore e lamenti ” (Terracarne).

Vado a Padova per stare con le persone che mi sono care, per ritrovare gli amici della Redazione interna ed esterna e registrare con orgoglio i loro cambiamenti, soprattutto di quelli che tornano in carcere, nonostante abbiano ormai assolto il debito con la giustizia, perché hanno scelto di continuare a occuparsi di legalità e illegalità. Penso a Daniele che mi ha raccontato della sua bambina e a Elton che da libero ha ottenuto il permesso di continuare a frequentare la redazione interna di Ristretti grazie all’Articolo 17.

Mi piace la formula del convegno per la quale ci sono i detenuti della redazione che portano la loro testimonianza, mentre Ornella Favero li accompagna al microfono e li sostiene per stemperare la loro ansia da prestazione di fronte a un pubblico così numeroso. Quella dei detenuti non è una parola ‘minore’ rispetto a quella dei relatori e viene ascoltata da tutti in un silenzio rispettoso conquistato con maestria da Ornella.

La domanda di quest’anno è facile da formulare, ma spalanca, di fatto, un mistero difficilmente penetrabile e sondabile: quando funziona la rieducazione in carcere?

Funziona quando l’istituto carcerario ragiona criticamente sull’area trattamentale messa in atto al suo interno e se si racconta all’esterno attraverso i giornali e giornalini che raccolgono l’energia creativa e narrativa dei detenuti.

Per Mauro Palma il sistema carcerario ha una sua forza, l’apertura verso l’esterno, e una sua debolezza, la distanza tra la norma carceraria e la realtà carceraria. La rieducazione funziona se si attivano modelli comportamentali miranti a responsabilizzare e non a infantilizzare i soggetti, come succede invece in carcere sia sul piano linguistico con l’utilizzo di parole in ‘ino’ e ‘ina” sia sul piano comportamentale con tempi prefissati per la doccia, l’ora d’aria, pranzo e cena e, soprattutto, la negazione di modi per vivere degnamente la propria sessualità.

Si può parlare di rieducazione ogni volta che i detenuti sono chiamati a scegliere della propria vita, a sviluppare forme di autonomia come accade nel carcere di Bollate raccontato dal coordinatore dell’area trattamentale, Roberto Bezzi.

Funziona anche quando, come ha detto Qamar, si avverte un senso di appartenenza, come quella da lui provata nei confronti di Ristretti Orizzonti e un’assunzione di responsabilità che si tocca con mano quando lui riconosce che la sua famiglia “ha un omicida al suo interno”.

Funziona quando, come ha spiegato Luigi, si impara in redazione ad aggiungere i punti e le virgole ai propri scritti e di conseguenza anche alla propria vita. Se si comincia con l’ordinare un testo, rispettando regole lessicali e sintattiche, si finisce per contagio con l’ordinare la propria esistenza.

Funziona secondo Ivo Lizzola quando si riesce a reggere la sofferenza di raccontare di sé ad altri, adottando i modi e i tempi del futuro anteriore, progettando quello che sarà alla luce di quello che è stato per non ripetere gli stessi errori e cambiare strada, per quanto e come possibile. È come se un detenuto si dicesse: “Sono stato così finora, ma da adesso in poi, posso anche essere un uomo diverso”.

Funziona se si coltiva la speranza in chi pensa di non avere una seconda opportunità dopo essere stato fatto a pezzi dall’errore compiuto, dal fallimento vissuto.

L’asprezza della crisi dei nostri giorni mette sicuramente in discussione la nostra capacità di comprare, consumare, andare in vacanza e al ristorante, ma è compromessa soprattutto la nostra forza, la capacità di pensare che sia possibile fare e cambiare, agire e produrre qualcosa di buono e bello. Questa è, per me, l’espressione peggiore della crisi: le nostre forze sono al limite della sopportazione delle avversità perché abbiamo imparato - vale per chi sta dentro e per chi sta fuori - che non basta l’impegno, neppure la fatica per avere un posto di lavoro, una casa, relazioni importanti. È la corrosione di intenzioni propositive.

Allora diventa indispensabile ascoltare voci che, fuori dal coro delle lamentazioni e dei vittimismi, incitano ad avere fiducia. Penso alla testimonianza toccante di Deborah Cartisano, il cui padre, Lollò, è stato sequestrato e ucciso dalla ’ndrangheta nel 1993, perché si era rifiutato di pagare il pizzo richiesto. Deborah ha costituito un’Associazione, va nelle scuole per parlare del padre perché non cali il silenzio sulla sua storia e si rinnovi, piuttosto, la forza di quel suo ‘No’ alla ’ndrangheta per vivere una vita degna di tale nome. A distanza di dieci anni dalla scomparsa del padre, ha ricevuto una lettera scritta da uno dei suoi carcerieri per chiedere perdono alla famiglia per l’omicidio compiuto e indicare il punto esatto del seppellimento del corpo.

Mentre ascoltavo Deborah, mi sono venute in mente le parole rivolte da Paolo Borsellino, nel film che gli è stato dedicato, alla figlia Lucia: “Ciascuno deve fare la sua parte”. Lucia deve pensare a preparare i suoi esami e lui a continuare l’opera di Giovanni Falcone perché non vada perduta, arrendendosi al male, al sopruso.

Noi ci educhiamo attraverso le vite degli eroi semplici (Deborah Cartisano), degli adulti credibili (Eraldo Affinati) come quelle che ascoltiamo a Padova che fanno zampillare la voglia di continuare a credere che ciascuno possa migliorare la sua vita in mezzo agli altri, sia in carcere che fuori dal carcere. Ho imparato che quando i detenuti prendono parte alle attività teatrali, scolastiche, lavorative dentro il carcere, modificano la percezione che hanno di loro stessi e rispondono con le loro azioni allo sguardo pieno di aspettative degli educatori e degli insegnanti e al patto che con loro hanno formulato, dove e quando è stato formulato. Ho imparato che un reinserimento lento dentro il mondo esterno, aiuta i detenuti a misurare le loro forze prima che il cancello della galera si chiuda dietro le loro spalle definitivamente.

Noi ci educhiamo ascoltando Pietro Buffa che parla di dato di irreparabilità del reato commesso ma riconciliabile di fronte a un pubblico e anche Gherardo Colombo che parla di dare pari opportunità ai soggetti affinché siano educati alla libertà e responsabilità attraverso la fatica e non la sofferenza.

La rieducazione non funziona quando aiuta soltanto come ha detto Antonio “a sopravvivere dentro e non a vivere fuori” e quando lui è uscito dalla galera, non sapeva cosa fosse l’euro e si vergognava all’idea di andare nei negozi a fare un qualsiasi acquisto. Elton ha raccontato del senso di spaesamento vissuto dopo quindici anni di carcere senza un giorno di permesso che hanno condizionato i suoi movimenti - il correre in cerchio, l’andare avanti e indietro nell’area passeggi - tanto che da libero zigzagava su un rettilineo. Il movimento a zigzag tra legalità e illegalità, tra senso di onnipotenza e vulnerabilità è la tentazione per chi esce dopo aver scontato la sua pena e non vede l’ora di “arraffare” il mondo esterno, quello che ha tradito delinquendo ma dal quale si sente anche tradito per gli anni vissuti dietro le sbarre.

Le parole nate dall’esposizione della propria vita più o meno ferita, più o meno scombussolata, sono capaci di educare a un ascolto attento e utile. È a Padova che sento ogni volta di quanto le nostre vite siano “in bilico sui cornicioni”, per dirla ancora con Franco Arminio, eppure riconosco anche il potere salvifico dell’esempio, inteso come occasione di riflessione: se anche uno solo ha provato a resistere, altri faranno lo stesso. Una redazione come Ristretti Orizzonti impegna a un certo modo di informazione dal carcere sul carcere.

E quando lascio il convegno di Padova per tornare a casa, mi sembra più lieve il credere nelle pratiche educative che mirano a renderci migliori e a rendere più abitabile il nostro mondo. E mi dico che la via intrapresa è quella giusta nonostante sia impervia.

 

Chi educa chi

Parlare di rieducazione significa parlare di democrazia

 

Ogni educazione che sviluppa la facoltà di partecipare efficacemente alla vita sociale è morale. Essa forma un carattere che non solo effettua azioni particolari socialmente necessarie, ma che si interessa a quel continuo riadattamento che è essenziale allo sviluppo. L’interesse a imparare da tutte le occasioni della vita è il fondamentale interesse morale.

(John Dewey, Democrazia e educazione).  

di Luciana Scarcia,

docente del Laboratorio di lettura e scrittura

della Casa circondariale di Roma Rebibbia

 

Attualità dell’articolo 27 della Costituzione

In questi anni è continuata l’elaborazione teorica sulla funzione della pena, con produzione di qualificata letteratura, ma non si può dire che i suoi contenuti si siano riversati nell’opinione pubblica orientando il senso comune o stimolando una riflessione diffusa. Il tema della Rieducazione è rimasto così confinato dentro il carcere e nei progetti di qualità di alcuni Istituti Penitenziari, o in qualche frammento di discorso istituzionale riportato dalla stampa. Si dirà che è ovvio che l’esigenza di riflessione riguardi il luogo stesso che la Costituzione indica come terreno della sua applicazione, ma questo settorialismo non rende ragione del fatto che in quella parola è racchiuso un nucleo fondamentale del pensiero democratico: l’idea che l’uomo, in quanto depositario della capacità di scelta tra vecchie e nuove possibilità di vita, possa sottrarsi al determinismo dei destini già tracciati da origini sociali, da scelte più o meno consapevoli, da errori. Idea strettamente connessa con il concetto di Giustizia, intesa come valore del “dovuto a tutti”, e con quello di Libertà, intesa come valore dell’esercizio della capacità di scelta.

Questa premessa per dire che parlare di Rieducazione significa parlare di Democrazia e dunque il settorialismo rispecchia una carenza nella coscienza democratica. Appartiene alla nostra storia pre- e post-unitaria il fatto che i fondamenti costitutivi della forma dello Stato sono stati scritti prima del manifestarsi di una coscienza nazionale; le regole scritte nella Costituzione disegnavano un modello di società che anticipava, volendole orientare, mentalità e abitudini di pensiero. Quanto scritto nell’art. 27, 3° comma, “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”, indicava la direzione dello sviluppo del sistema penale, intendendo dar vita a un’istituzione che costituisse un tassello della società democratica, uno strumento di coesione sociale, e insieme agli altri articoli della Parte Ia delineava un modello di società democratica inclusiva, tale da accogliere anche chi aveva inferto una ferita alla collettività. Presupponeva dunque una cornice sociale caratterizzata da valori condivisi, dai quali il comportamento criminale aveva deviato e verso i quali bisognava riorientarlo.

Nonostante la persistenza di particolarismi e resistenze, l’efficacia “educativa” della Costituzione ha sicuramente agito in tutti i campi della vita sociale, fungendo da faro per tutta la produzione normativa che ha accompagnato le profonde trasformazioni avvenute dal dopoguerra e la crescita della cultura democratica (con il ruolo fondamentale della scuola pubblica). Tuttavia tale efficacia si è riverberata molto di più sul piano delle norme scritte che sul piano del funzionamento reale delle istituzioni nella vita quotidiana.

Nel sistema penitenziario questo “vizio” storico si è rivelato in modo ancora più evidente: ci son voluti quasi tre decenni di disegni di legge, commissioni, sperimentazioni per riuscire a eliminare la normativa fascista e arrivare a una Legge di Riforma dell’Ordinamento, la 375/1975, la cui attuazione però fu assai lenta, oltre che incerta e parziale; portata a compimento solo nel 1986 con la legge 663 (c.d. Gozzini), dovette attendere il 2000 per avere il nuovo Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario. In questo periodo c’è stato sicuramente un grande cambiamento nelle carceri italiane: con tempi lunghi e in modo frammentario si era comunque affermata una tendenza riformatrice – ispirata dall’art. 27 e coerente con lo “stato sociale” – che mirava ad attuare il principio che cambiare e migliorarsi è possibile, per tutti! Però, non solo il divario tra normativa e funzionamento reale è rimasto ampio, ma il cambiamento si è presentato a macchia di leopardo: qualche Istituto modello, alcuni in cui si attuano progetti avanzati e molti altri estremamente arretrati.

Negli anni 90 quella tendenza riformatrice si è esaurita, nell’impatto con le conseguenze del processo di globalizzazione economica: crisi dello “stato sociale”, cambiamenti nel mondo della criminalità, crescita gonfiata del bisogno di sicurezza, aumento del tasso di detenzione (“boom penitenziario”), irrigidimento del controllo e del Corpo della polizia penitenziaria (ad es. i GOM che operarono anche nella caserma di Bolzaneto nel 2001 a Genova).

Oggi il sistema carcere (con i problemi del sovraffollamento, della carenza di personale, l’alto tasso di suicidi) è diventato un’emergenza nazionale, una patologia: non solo non viene garantita la legalità, ma addirittura si commettono crimini (Bolzaneto, casi Bianzino, Cucchi, ecc.). Tutti – partiti, mass media – denunciano che uno Stato democratico non può tollerare questa situazione disumana, ma sembra prevalere un atteggiamento di resa e di impotenza a risolvere il problema, tanto che alcuni asseriscono la non riformabilità del carcere. Eppure in quello stesso sistema accade che vengano realizzati progetti importanti di recupero e reinserimento individuali, che danno ragione di quel principio democratico. Insomma, l’esistenza di esperienze e percorsi virtuosi convive con il fallimento dell’istituzione carcere.

 

Educare a che cosa?

A questo punto bisogna uscire dal carcere e allargare il discorso alla società. Guardando in modo particolare agli ultimi due decenni, non si può certo dire che essa si sia evoluta secondo il sistema di valori in cui si collocava la Costituzione; anzi, alcuni studiosi affermano che è in atto un processo di “decostituzionalizzazione”. Comune è la convinzione che sia assai diffuso a tutti i livelli un sistema di illegalità sotto forma di piccole e grandi omissioni o aggiramenti delle leggi, e che i valori di Giustizia e Libertà abbiano perso la loro forza di fronte alle urgenze dei problemi materiali. Da ciò deriva la preoccupazione che la democrazia sia oggi in crisi.

Allora una prima domanda è: la società in cui il detenuto deve essere reinserito con quale grado di convinzione aderisce a quel sistema di valori dai quali discendono le regole della vita collettiva?

Una seconda domanda è: l’istituzione che deve porre in atto il principio della Rieducazione ha le carte in regola per farlo?

Queste prime domande sono evidentemente provocatorie. Ponendole non voglio eludere il problema della responsabilità del singolo di fronte alla legge e alla collettività, ritengo anzi che il concetto di responsabilità debba essere posto con maggiore determinazione al centro del sistema penale, e per chiarezza dichiaro subito che: le tesi abolizioniste della pena non mi paiono molto chiare né utili al momento; ritengo indispensabile e urgente il potenziamento delle misure alternative (che siano però davvero tali e non uno spostamento all’esterno dello stesso sistema di controllo e sanzione); altrettanto urgente considero la riforma del Codice penale che consideri il carcere come extrema ratio; sono favorevole alla maggiore diffusione delle forme della giustizia riparativa. Ma sono anche convinta della necessità di mantenere l’obbligatorietà per le istituzioni di un’azione che si può definire educativa in senso lato (su questo tornerò in seguito), che non può riguardare solo il luogo carcere, ma dovrebbe accompagnare le altre forme di pena, adeguandole alla persona e al reato.

Sempre per essere chiara, dirò anche che non ho mai condiviso le posizioni di chi guarda con sospetto e scetticismo alla finalità rieducativa della pena in nome di un’istanza libertaria di salvaguardia dell’autonomia della persona detenuta, o per rifiuto della pretesa ideologica di fare “l’uomo nuovo”. Mentre sento forte l’esigenza di capire e discutere nel merito del significato che si dà all’azione educativa in generale.

Quindi pongo una terza domanda, questa volta reale: quando parliamo di Rieducazione che cosa intendiamo? Facciamo riferimento a un sistema di valori – e quindi il discorso si allarga alle credenze e alla cultura –, oppure al mero rispetto delle leggi – e quindi delimitiamo il campo alla legalità? Io penso che la riflessione vada portata nel campo più vasto dei valori condivisi e dei comportamenti individuali all’interno di una cultura, intendendo per cultura quell’insieme di sistemi simbolici che mettono in moto dei “meccanismi-protesi”[2] che plasmano la vita e la mente dell’uomo, dando significato alle nostre azioni e rendendo possibile trascendere i limiti biologici. Mentre un discorso riferito al mero ambito della legalità mi pare limitato (e qui la lungimiranza di Kubrick nel film Arancia meccanica ci insegna qualcosa: sottoposto a un innovativo programma di rieducazione, il “trattamento Ludovico”, e presentato dai media come un successo della politica governativa, Alex potrà usare la sua aggressività con tutta tranquillità perché ormai è protetto dalla legge).

La parola Rieducazione in effetti appare usurata, non solo perché assai scarsamente riscontrabile nelle forme del “trattamento” attuate nelle carceri, ma soprattutto perché con quel prefisso ri rimanda a un’idea di correzione di comportamenti devianti da un sistema di valori di cui qualcuno (l’istituzione) sarebbe depositario. Allora, verrebbe da dire, tutta la società deve essere “corretta”, visto che, proprio per quella crisi di coscienza democratica denunciata da autorevoli studiosi, è il sistema di valori che risulta assai appannato. Tale visione correttiva va superata alla luce della più attuale concezione della formazione/educazione permanente dell’individuo nell’arco di tutta la vita, e a maggior ragione questo vale per chi come il detenuto sta vivendo il fallimento di una traiettoria di vita, quella criminale. Quindi preferirei parlare di educazione tout court, ma senza mettere in discussione l’art.27.

Ma educazione a che cosa? Alla responsabilità è la risposta giusta, ma oggi il senso di responsabilità individuale nei confronti della collettività in cui si vive risulta affievolito, perché, rispetto ai valori di Giustizia e Libertà, per tutti, risulta molto più pregnante e performativa l’idea di libertà intesa come massima affermazione del singolo nella capacità di consumo e nella qualità biologica del suo corpo; di conseguenza risulta più forte il sentimento dell’indifferenza verso chi quella libertà non la può condividere. Quindi per evitare che quelle parole siano contenitori vuoti, a cui non corrispondono ragionamenti e sentimenti personali né comportamenti reali, bisognerebbe riflettere sui loro significati alla luce dei cambiamenti in atto nella società. E questa riflessione sui valori della collettività dovrebbe costituire lo sfondo sul quale opera l’azione educativa che, collocandosi sul terreno della relazione con l’altro, deve necessariamente rideclinarli e negoziarne i significati. E qui inevitabilmente il discorso scivola sul piano etico, perché chiama in discussione termini assoluti come Bene e Male.

Da un’interessante lettura di un saggio della filosofa Simona Forti[3] ricavo l’idea che sulle nostre credenze e mentalità di cittadini democratici grava un’eredità culturale che ha sempre considerato il male come una sostanza esterna a cui si accede per disubbidienza (il peccato di Adamo ed Eva), per distruttività nichilista (Stavrogin ne I demoni di Dostoevskij), per la difesa di un ordine di vita considerato eccelso e minacciato da nemici esterni (il nazionalsocialismo); e di contro ha considerato il bene come qualcosa di dato e assoluto da accogliere e lasciar agire dentro di noi. Invece, sostiene la Forti, lo scandalo del male consiste nel fatto che esso è un sistema, una rete di relazioni, in ciò riprendendo la lucida analisi fatta da Primo Levi della “zona grigia”[4], quello spazio intermedio in cui vittima e carnefice sono accomunati dall’istinto di conservazione, dal bisogno di preservare il privilegio per misero che sia, in nome della difesa della vita a ogni costo. Il male più che “banale”, come scrisse la Arendt, è “normale”, e l’unico modo che l’uomo ha di sottrarsi e salvaguardare la propria dignità è l’esercizio della capacità di pensiero, della facoltà di giudicare e distinguere in proprio ciò che è bene o male, giusto o ingiusto, utile o dannoso per sé e per gli altri, quindi anche di vagliare le ragioni dell’ubbidienza o del rifiuto di un comando, di una regola, qualunque sia il contesto della loro provenienza: legale o criminale.

A questo proposito mi viene in mente il personaggio della guardia carceraria Nitti nel romanzo Più alto del mare[5]. Nitti, uomo gentile, marito e padre amorevole, a un certo punto cambia atteggiamento: si chiude, non comunica più con la moglie e i figli, diventa cupo e scontento, e la moglie ne è preoccupata perché intuisce il motivo: anche lui aveva finito per assecondare il sistema, compiendo, come i suoi colleghi, i “disturbi”, cioè atti di violenza e vendetta sui detenuti, e questo lo aveva allontanato da se stesso. Ed è Luisa, un’altra moglie, di un detenuto violento, che l’aiuta a infrangere quel muro di silenzio eretto attorno a sé. Dopo un colloquio con la moglie Nitti si fa assegnare a mansioni di ufficio per motivi di salute. Il personaggio compie la scelta di sottrarsi a quel sistema di sopraffazione e violenza su altri uomini e di salvaguardare dentro di sé quel qualcosa che “vale la pena” e che deve costituire una “frontiera” al di qua della quale non si consente alla realtà esterna di penetrare[6], però non va oltre, non cerca di contrastare il sistema, si limita insomma a chiamarsene fuori.

Tornando alla riflessione sul principio dell’art.27, l’azione educativa necessaria è quella volta a creare le condizioni e offrire gli strumenti culturali per esercitare quella facoltà di giudizio (o libero arbitrio) che può permettere di prendere le distanze da sistemi nei quali si è rimasti incastrati, per errore, per scelta, per abitudine, per debolezza. Ciò significa essere consapevoli del fatto che la scelta non è soltanto una preferenza, bensì una convinzione che un certo stile di vita meriti di essere sostenuto; significa saper fare le distinzioni (tra giusto e non giusto, tra rispetto di sé e sopraffazione, tra diritti e doveri) e delineare dentro di sé la propria “frontiera”; significa infine capire che porre un limite alla rivendicazione del proprio interesse immediato non significa necessariamente rinuncia.

 

Dalla mia esperienza

Dalla mia conoscenza del carcere ho ricavato due convinzioni opposte ma coesistenti: la prima è (come detto prima) che l’istituzione carcere non solo non è quel tassello della società democratica che doveva contribuire alla sua coesione sociale, ma è un luogo dove punizione e assenza di regole certe convivono con un approccio pedagogico infantilizzante, a cui dopo un certo periodo si reagisce imparando a fare il “bravo detenuto”; la seconda è invece che lì dentro ci sono esseri umani che hanno un’aspirazione autentica a cambiare stile di vita, a scoprire di sé parti migliori, magari inesplorate, e che vanno seguiti e aiutati non per “salvarli”, ma perché possano tracciare un proprio percorso di reinserimento, anche a dispetto di una società indifferente e chiusa. Questo è avvenuto e avviene continuamente, ma riguarda singoli percorsi individuali, compiuti in buona parte grazie all’altra istituzione presente, la scuola, grazie a progetti stabili, ad attività e operatori che l’istituzione prevede ma non gestisce direttamente (volontariato laico e religioso, cooperative, associazioni). Va senz’altro bene che non sia gestito tutto dal Ministero, ma certo sarebbe necessario che quanto si fa dentro si collocasse in un sistema che abbia, nella diversità e pluralità di apporti, finalità comuni. Altrettanto indispensabile sarebbe rivolgere l’azione educativa anche al personale penitenziario.

Per quanto riguarda la mia esperienza (di insegnante prima e di docente volontaria di laboratori di lettura e scrittura poi), la scrittura di sé, con l’apporto della letteratura – quella che pone alla vita le domande essenziali –, si è rivelata uno strumento prezioso proprio per l’esercizio di quella facoltà di pensiero indispensabile alla scelta e al prestare attenzione a ciò che si considera importante nella vita; per questo ritengo appropriato l’uso dell’aggettivo “educativa” per questa attività. Perché il raccontare è un bisogno fondamentale dell’uomo, che risponde all’esigenza di “trattare” i conflitti e la propria “zona grigia”; ma questa aspirazione è attraversata da valori e norme che si condividono con la collettività. E i Greci questo ce lo hanno insegnato perché per loro il bello e il buono erano due diverse facce della stessa qualità: il bisogno di elevarsi.

Per concludere, se è vero che il carcere è uno specchio della società e che dunque l’attenzione va rivolta alla crescita di legalità e cultura democratica, altrettanta attenzione tuttavia va rivolta a tutti quei singoli percorsi positivi che, in forme diverse e “malgrado tutto”, si realizzano negli istituti penitenziari, perché è come se tenessero accesa la fiaccola della democrazia. Sostenerli, generalizzarli, farli diventare sistema può essere una lezione di civiltà per tutti.

 

 

“Apprendimento” ed “educazione” non hanno luogo solo nelle aule scolastiche

Allora quale miglior “laboratorio” se non la visita al carcere e le storie di vita raccontate dalle persone che vivono o hanno vissuto in prima persona questa esperienza?

 

di Gabriella Paracchi, Insegnante di Scienze Sociali,

Liceo delle Scienze Umane “A. di Savoia Duca D’Aosta” Padova

 

Perché anche quest’anno ho deciso di svolgere con la classe quinta il percorso/progetto che ci ha condotto fino alla Giudecca, a Venezia, nell’orto del Carcere Femminile?

Il mio intento è stato quello di far leva sulla motivazione dei ragazzi a ricercare il significato della realtà che li circonda e il senso delle scelte nell’agire della vita quotidiana, interrogandosi e trovando risposte e soluzioni ai propri vissuti.

L’obiettivo didattico riguardava la possibilità di discutere e confrontarsi per trovare insieme soluzioni e scambi collettivi nella valorizzazione della propria diversità e dimensione soggettiva. Ma come?

Un modulo didattico da svolgere nel programma scolastico di quinta riguarda l’argomento della “Devianza”. Questo viene affrontato e studiato dal punto di vista psico-sociologico, oltre che da quello storico.

Quando si parla di scuola, molte volte, è facile definire e commentare negativamente quanto studiato sui banchi, perché lo si ritiene astratto rispetto alle esperienze della vita reale.

E allora, parlando di “Devianza“, quale miglior “laboratorio” se non la visita al carcere e le storie di vita raccontate dalle persone che vivono o hanno vissuto in prima persona questa esperienza? Quale miglior confronto conoscitivo ed emozionale?

Da più parti gli studi psicosociali propongono riflessioni sull’integrazione esistente e necessaria tra emozioni, comportamento morale e sociale. Secondo questi studi la pianificazione del futuro, il giudizio morale e la gestione delle relazioni con gli altri sarebbero impossibili senza questo particolare impasto di ragione e sentimento che caratterizza le nostre esperienze.

Possiamo dire con le parole dello psico-pedagogista Bruner che “pensiero ed emozioni non procedono parallelamente uno dopo l’altro: piuttosto essi cooperano alla costruzione dei significati che attribuiamo ad una situazione, così che ciò che facciamo dipende sempre da ciò che conosciamo e sentiamo.”

 

I reati sono il risultato di vissuti e a volte di scelte fatti giorno dopo giorno nella vita quotidiana

 

Ecco allora che per gli alunni, incontrare ed ascoltare i detenuti a scuola, confrontarsi con gli operatori, i volontari del carcere e il Magistrato di Sorveglianza, entrare dentro all’istituzione carceraria e sentirsi chiudere dietro le spalle i cancelli, uno dopo l’altro, discutere in classe, commentare, criticare e mettersi in gioco… vuol dire definire chiaramente i significati degli eventi della nostra vita, comprendere che l’apprendimento ed il pensiero sono sempre collocati in un certo contesto culturale rendendosi conto così che i “reati” commessi non sono incidenti, rea­ltà casuali e disgiunte da sé, ma il risultato di vissuti e a volte di scelte fatti giorno dopo giorno nella vita quotidiana.

Abbiamo parlato e discusso di “limite”, “responsabilità”, “conflitto” e abbiamo visto come l’interpretazione soggettiva di ciascuno di questi concetti determina diversi percorsi nella vita di tutti i giorni.

Sono state messe in gioco da più parti le proprie emozioni ed il controllo di esse attraverso quelle che Goleman chiama “abilità legate all’intelligenza emotiva”, cioè quelle capacità che sono in grado di produrre autoconsapevolezza ed empatia.

Questo percorso didattico ha guidato “apprendimento” perché ha visto integrarsi una varietà di elementi, tutti egualmente attivi: il linguaggio, il sentire emozionale, la narrazione delle proprie esperienze, lo scambio reciproco di informazioni, i ruoli sociali, le immagini, i sistemi di giudizio, le regole, gli stili di vita e così via.

Attraverso l’empatia e la gestione delle proprie emozioni è stato più facile condividere le esperienze ed inscrivere nella mente le azioni seguendo delle trame, degli intrecci come in un romanzo e in un racconto.

Facendo riferimento a tutto questo, e citando sempre Bruner, possiamo dire che “apprendimento” ed “educazione” non hanno luogo solo nelle aule scolastiche, ma anche, e in pari grado, nelle famiglie, per la strada, nei luoghi di lavoro, cioè ovunque ci sia un incontro e un confronto tra soggetti diversi e, nel nostro caso, anche quando “il carcere entra a scuola e la scuola entra in carcere”.

 

Il prezioso lavoro di educarci ad uscire dalla violenza

È questo che ci rende davvero portatori di un nuovo concetto di Cittadinanza

 

di Paolo Montagner, Insegnante di italiano e latino,

liceo Scientifico “G. Galilei” di Caselle di Selvazzano (PD)

 

La Giornata di studi “Il senso della rieducazione in un Paese ‘poco educato’” ha un titolo provocatorio, che anche all’osservatore meno attento evoca sentimenti contrastanti e una domanda: perché mai dovremmo educarci o rieducare alla cultura della legalità, se lo Stato, di cu dovremmo sentirci parte viva, cittadini, è così “poco educato”, come le cronache quotidianamente ci confermano, neppure più allarmate nella loro denuncia, in un’atmosfera di disillusa assuefazione, dietro alla quale, tuttavia, cova la rabbia onesta di quei cittadini semplici o più impegnati, che si sentono offesi al cuore dal discredito gettato da scandali, ruberie, mala politica sul “sentimento dello Stato”, che dovrebbe appartenere a chiunque?

Alla ricostruzione di questo sentimento credo servano molte giornate come questa e tutta la faticosa operazione di trasparenza e di discussione critica messa in atto da donne e uomini di buona volontà per farci interiorizzare che quello che non vogliamo, in questo nostro Stato, come ebbe a dire Norberto Bobbio, è che le carceri siano simili a ospedali dove ci si faccia ricoverare non per guarire, ma per ammalarci di più, forse fino a morire; che non è accettabile che questioni annose come il sovrappopolamento degli istituti carcerari, che riguarda decine di migliaia di persone, sia un fatto che non coinvolga anche tutti noi, che fuori dal carcere viviamo e, in libertà, esercitiamo diritti e doveri; che non è ammissibile pensare al carcere come ad una discarica sociale e che, se le cronache ci raccontano di suicidi (sempre più frequenti) e di morti, in cui sia dimostrato il coinvolgimento del personale carcerario, operatori o personale medico, noi non ci dobbiamo indignare e non dobbiamo chiedere conto alle autorità preposte di tutto ciò che violi il patto di fiducia stabilito, in origine, tra il cittadino e lo Stato, esecutore giusto della somministrazione delle pene e garante della dignità di ogni persona.

 

Risulta difficile sostenere che, da parte delle istituzioni, vi sia sempre il rispetto del principio dell’eguaglianza e della dignità umana

 

Sono molte le domande che nascono nei nostri studenti, dopo che sono entrati in questi luoghi, ne hanno percorso i corridoi lunghi, delimitati da sbarre. I racconti di vita che veniamo ad ascoltare qui, in piena gratuità, ma difficili per chi sta compiendo il proprio percorso per uscire dalla violenza, sforzandosi di cambiare, ci confermano che, di fronte a basilari diritti umani violati, alle lungaggini di processi che sembrano non concludersi mai (almeno non per tutti), risulta davvero difficile sostenere che, da parte delle istituzioni, vii sia sempre il rispetto del principio dell’eguaglianza e della dignità umana.

Ciò nonostante, donne e uomini di buona volontà ci dimostrano che la strada c’è e che uno Stato è migliore a partire dai suoi cittadini, dal loro basilare rispetto delle regole della convivenza e dalla loro conseguente esigenza di vedere le medesime regole applicate proprio dallo Stato; ci testimoniano la speranza fattiva di chi crede: crede, come ha scritto pochi giorni fa, in relazione agli inquietanti fatti di Genova, Agnese Moro, che il prezioso lavoro di educarci ad uscire dalla violenza, a qualsiasi livello la possiamo esercitare, ci rende davvero portatori di un nuovo concetto di Cittadinanza.

Nell’Italia della crisi, dove le tensioni sociali sono il terreno fertile in cui il seme della violenza può facilmente allignare, Agnese Moro scrive così: “L’Italia è un Paese meraviglioso, che in ogni angolo propone umanità, impegno, dedizione.Ma è anche un Paese al quale la violenza - subita e agita - non è purtroppo estranea. Ce lo dicono i tanti omicidi di donne, gli scontri negli stadi, il difendersi da soli con le armi, la presenza invasiva di cosche mafiose, il nostro tollerare, come nel caso delle carceri, situazioni che non possono che lasciare spazio a comportamenti violenti, l’aderire all’idea che i conflitti internazionali si risolvono con le armi e non con la diplomazia. Dobbiamo ancora lavorare per espellere la violenza dal nostro modo di essere e di pensare, nell’unica maniera possibile, ovvero non considerandola mai una risposta efficace ai problemi di ognuno di noi, del nostro Paese e del mondo.”

 

I ragazzi delle scuole sono come uno specchio dove riesco a vedere il mio passato

Con loro faccio un percorso che mi aiuta molto a riflettere sul tema della “responsabilità”, che trovo un termine più adeguato rispetto alla “rieducazione”

 

di Mohamed El Ins, Ristretti Orizzonti

 

A me sinceramente non piace il termine “rieducazione” perché mi costringe subito a pensare all’educazione e questo mi fa riflettere che i miei genitori non hanno nessuna colpa riguardo agli errori che ho commesso. Loro mi hanno insegnato sempre le buone maniere e un modo di vivere onesto.

Frequentavo anch’io le scuole e procedeva tutto bene, non mi mancava nulla, ma all’improvviso mi è venuta l’idea di immigrare alla ricerca di un futuro autonomo senza contare sull’aiuto dei miei genitori. Così li ho messi al corrente della mia decisione riguardo alla mia partenza. Abbiamo discusso molto, perché loro erano contrari. Ci tenevano che io continuassi i miei studi, ma io ho insistito e alla fine loro hanno rispettato la mia scelta.

Dopo qualche anno di vita in Italia ho potuto avere il permesso di soggiorno che mi ha dato modo di intraprendere un altro viaggio dal sud Italia verso il nord. Così sono riuscito a trovare un posto di lavoro fisso, infatti mi hanno assunto in una fabbrica di mobili come falegname, però non potevo lavorare in regola perché il patto stipulato con il datore di lavoro era quello di darmi un alloggio, una camera nei sotterranei della fabbrica, e farmi lavorare in nero.

Non avevo scelta, ero facilmente ricattabile, era davvero una situazione imbarazzante. Ho cercato un appartamento in affitto, ma non c’era niente da fare perché la gente aveva paura di dare la casa ad uno straniero, ci scambiavano per dei marziani, il clima era davvero intollerante.

Un giorno ho deciso di mollare il posto di lavoro e trovarmi un’altra occupazione. Sono riuscito a farmi assumere presso un’altra fabbrica, ma il problema dell’alloggio non era ancora risolto, ero costretto ad abitare in una casa abbandonata, ovviamente la situazione non era assolutamente piacevole, ho cercato di continuare a resistere, speranzoso che le cose cambiassero, invece le cose peggioravano sempre di più. Così ho ceduto alla mia debolezza, che mi ha condotto alla ricerca di certi amici che sapevano “arrangiarsi” facendo traffico di droga, e così sono iniziati i problemi con la giustizia e mi sono ritrovato in carcere varie volte “parcheggiato”, senza avere la possibilità di essere aiutato a riflettere sulle mie scelte, giuste sbagliate difficili, scelte sulle quali avevo davvero bisogno di fermarmi a pensare.

In questa mia ultima carcerazione mi ritengo invece molto fortunato rispetto ad altri compagni che non hanno la possibilità di partecipare a nessuna attività lavorativa, scolastica o culturale. Nel mio caso ho avuto l’opportunità di partecipare anche al progetto di confronto tra le scuole e il carcere, incontrando gli studenti, raccontandogli le nostre esperienze, con la speranza che loro non cadano negli errori che noi abbiamo commesso. Nello stesso tempo anche loro sono molto importanti per noi, perché dal mio punto di vista sono per me come uno specchio dove riesco a vedere il mio passato, accettare il mio presente e lavorare per un futuro migliore, quindi questo percorso mi aiuta molto a riflettere sul tema della “responsabilità”, che trovo un termine più adeguato rispetto alla “rieducazione”.

 

Elogio degli appunti nella prevenzione dei reati

 

Quando le persone detenute si confrontano con le scuole, come avviene a Padova, è inevitabile che si parli di reati, e di come è “facile” finire in carcere a partire da piccoli comportamenti magari solo un po’ da incoscienti, per arrivare poi alle violazioni più gravi e a perdere il controllo della propria vita. Ma si parla anche di scuola, e di tutte quelle buone pratiche che la scuola dovrebbe insegnarti, e a volte tu, studente distratto, non apprezzi, non capisci, sottovaluti totalmente. Eppure, il rispetto delle regole, il controllo dei propri comportamenti, la capacità di ascoltare gli altri si forma proprio negli anni della scuola, tanto che in carcere abbiamo fatto una riflessione profonda su una pratica che, ai tempi del computer, sembrerebbe invecchiata, e invece resta al centro dell’educazione delle persone, e per quel che riguarda il carcere della RIEDUCAZIONE: si tratta degli APPUNTI, e di quanto un certo modo di prenderli, e di imparare ad ascoltare gli altri, possa essere anche un buon allenamento a trovare un equilibrio tra la propria libertà e il rispetto di quella altrui.

 

Le piccole regole che ti insegnano a vivere

Il carcere è un luogo considerato “senza qualità” può anche diventare un laboratorio per riflettere proprio sulla qualità delle proprie azioni, e sull’importanza che ha il rispetto delle regole anche piccolissime

 

di Ornella Favero

 

Il carcere è un luogo considerato “senza qualità”: ci sono infatti finiti quelli che hanno fatto le cose male, senza rispettare gli altri, senza neppure prenderli in considerazione. Ma il carcere può anche diventare un laboratorio per riflettere proprio sulla qualità delle proprie azioni, e sull’importanza che ha il rispetto delle regole anche piccolissime per imparare poi a ricordarci sempre delle persone che abbiamo intorno, e di quanto può essere gratificante porsi dei limiti per non farle soffrire.

 

Controllo qualità

Nelle fabbriche il controllo di qualità significa controllare che i prodotti che escono rispondano a determinati requisiti, ma i controlli oggi non avvengono solo sul prodotto finito, avvengono a ogni tappa della produzione e sono fatti dallo stesso operatore, come forma di autocontrollo sui risultati del suo lavoro. Allora, noi vogliamo provare a tessere l’elogio degli appunti, come forma insostituibile di “autocontrollo” sulle proprie capacità di capire, selezionare le informazioni, fissarle sulla carta, trasformarle in materia utile per il proprio lavoro.

 

W gli appunti

Quando andiamo nelle scuole nell’ambito del progetto “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”, ci accorgiamo spesso che tanti ragazzi NON PRENDONO APPUNTI. Quelli di noi che si sono formati negli anni in cui non erano tanto diffusi i computer, hanno faticato per non rimanere dei “senzatetto digitali”, e sono passati faticosamente dagli appunti all’uso anche delle tecnologie. E però scopriamo oggi che gli studenti, tutti ormai tecnologicamente attrezzati, stanno diventando dei “senzatetto manual-culturali”, dove per manuali intendiamo però tutte quelle attività che non necessariamente hanno bisogno di un supporto tecnologico, ma che comunque si basano sulla capacità di “far funzionare la testa” usando gli strumenti più semplici, come per esempio carta e penna. Dunque, gli APPUNTI.

 

Attenzione

Chi commette reati spesso pone al centro della sua vita se stesso, e gli altri non esistono. I comportamenti a rischio hanno origine da questa mancanza di attenzione e di rispetto per l’altro: guidare, per esempio, sotto effetto dell’alcol significa non voler rinunciare al proprio piacere e non avere la minima attenzione per chi può capitare sulla tua strada.

Imparare a prendere appunti ti impone invece, prima di tutto, una attenzione all’altro, a quello che dice, al valore che devi dare alle sue parole e ai suoi pensieri. Devi imparare a distinguere le cose più importanti e quelle meno significative, e a farlo rapidamente, e poi fissare sulla carta non tanto QUELLO CHE TU RITIENI FONDAMENTALE, quanto quella che è l’essenza della persona che hai davanti. Perché gli appunti non devono “parlare” di te, devono rispecchiare la persona che si sta raccontando davanti a te.

 

Andare al cuore

Gli appunti ti costringono ad andare al cuore delle questioni in discussione e a scegliere fra il necessario e il superfluo. E non è detto che “scrivere tanto” indichi una buona qualità del lavoro, al contrario spesso significa non saper fare delle scelte. Vale la pena rileggere in proposito le lezioni americane di Italo Calvino: “Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio”.

“Scrivere per sottrazione” se quando prendi appunti significa saper cogliere l’essenziale nelle parole degli altri, e dargli il giusto valore, quando invece scrivi un testo tuo, o ti racconti, significa allora imparare a pensare agli altri, a come farsi capire, arrivare alla loro testa e al loro cuore. Ancora una volta, è un piccolo esercizio, un allenamento a una pratica poco di moda, l’altruismo.

 

Precisione contro cialtroneria

Prendere appunti, “approfondire” attraverso la scrittura sembrano operazioni PESANTI. Calvino però ci viene di nuovo in soccorso: “La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso”. Dunque si può imparare a essere “leggeri” ma non superficiali, si può essere precisi ma non pesanti.

Proprio in carcere ci si accorge di quanto è importante lavorare alla rivalutazione di certe parole: l’idea della “bella vita”, che è poi il motore che spinge a commettere tanti reati, i soldi le belle macchine le belle donne i vestiti firmati, è sempre associata alla leggerezza, e la cultura, quindi anche la scrittura, e tanto più gli appunti sono invece sempre associati alla pesantezza.

Imparare che la cultura può riempirti la vita “con leggerezza”, insegnarti ad avere delle passioni, anche aiutarti a “rimorchiare di più” (ricordiamo un’intervista a Gianni Riotta, giornalista e scrittore, che alla domanda “perché si dovrebbe invitare i ragazzi a leggere” rispondeva esattamente così: “Chi legge rimorchia di più”) è un concetto poco di moda in carcere come a scuola, e gli appunti ne sono il simbolo: qualcosa di assolutamente noioso, poco eccitante, poco emozionante.

E invece gli APPUNTI possono essere uno straordinario strumento per esercitare la memoria, la capacità di scelta, l’attenzione agli altri, la precisione, la leggerezza intelligente invece che la pesantezza ottusa.

 

I punti e le virgole della vita

 

di Luigi Guida, Ristetti Orizzonti

 

Nei molti incontri con le migliaia di studenti che sono venuti a confrontarsi con noi detenuti, spesso racconto i vari “scivolamenti” che mi hanno portato a varcare la soglia del carcere già dalla minore età, e spiego che le mie passate esperienze detentive, prima che arrivassi a Padova, più che avere avuto un effetto rieducativo nei miei confronti, hanno contribuito a farmi diventare una persona peggiore di come sono entrato, e a farmi accumulare centinaia di rapporti disciplinari che non mi hanno permesso di usufruire in quasi dieci anni di carcere dello sconto di pena previsto per chi ha un buon comportamento, anzi ho preso moltissime denunce e quindi ancora anni di galera. E se gli spiego che da quando sono a Padova per la prima volta potrò usufruire di uno sconto di pena, grazie a quegli operatori che mi hanno messo a disposizione degli strumenti per raggiungere questo traguardo, tra cui la possibilità di vivere questa esperienza con la redazione di Ristretti Orizzonti, la domanda più frequente che mi viene fatta è che cosa ha davvero potuto contribuire al mio cambiamento. La prima cosa che mi viene da raccontare è il primo articolo che ho scritto all’interno della redazione: una pagina intera di racconto della mia vita senza un punto o una virgola, o meglio con un solo punto a metà del testo.

Credo che la consapevolezza che forse quello scritto rispecchiava molto la mia vita è iniziata quel giorno, dopo che Ornella Favero correggendolo mi ha fatto notare che il contenuto dell’articolo era buono, ma aveva un disperato bisogno di qualche pausa, qualche regola, qualche virgola. Ho dovuto così riflettere sul fatto che lo stesso doveva valere anche per la mia vita, perché molto spesso alla base dei comportamenti che ti portano in carcere c’è la mancanza di riflessione sulle conseguenze dei nostri gesti. Devo dire che da lì ho cominciato seriamente a pensare che forse era il caso di iniziare a mettere qualche punto e qualche virgola sui testi e non solo, cosa che ora da quasi due anni faccio contemporaneamente negli articoli e nel rispetto delle regole carcerarie. E questo mi sta portando a essere meno impulsivo e più riflessivo nel parlare e nell’agire, e a mettere al primo posto le conseguenze dei miei gesti sugli altri.

Allora forse non sono “irrecuperabile” come mi è stato detto in altre carceri, e forse il paziente lavoro di ascoltare gli altri, prendere appunti su quello che dicono, mettere dei punti e delle virgole mi può portare a un maggior rispetto della loro e della mia vita.

 

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Pubblicazione registrata del Tribunale di Venezia n° 1315 dell’11 gennaio 1999. Spedizione in A.P.

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[1] Omero “Iliade” trad it. di M.G.Ciani (a cura di), Marsilio, 1990

 

[2]   Così li definisce lo psicologo statunitense J. Bruner ne La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Bollati Boringhieri, Torino, 2003

[3]   Simona Forti, I nuovi demoni. Ripensare oggi male e potere, Feltrinelli, Milano, 2012

[4]   Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 2007

[5]   Di Francesca Melandri, Rizzoli, Milano 2012

[6]   Su questo A. Camus ha scritto bellissime pagine. V. L’uomo in rivolta