Ristrettamente utile

 

I soldi e il posto che occupano nella “rieducazione”

Il difficile rapporto con il denaro tra chi è dentro e chi è fuori

“Soldi facili”, una strana definizione per qualcosa che di facile non ha nulla, né il modo per averne di più, né la capacità di farseli bastare

 

Soldi, soldi, soldi: forse non sarebbe male, ogni tanto, fare una riflessione sui soldi, perché è vero che buona parte di chi finisce in carcere lo fa per colpa dei soldi, e delle scorciatoie scelte per averne di più, ma è altrettanto vero che fuori, nel mondo dei “regolari”, non ci si accorge neppure di quanto i soldi regolino e condizionino la vita delle persone. In un incontro tra detenuti e studenti di una terza media, qualche tempo fa, abbiamo provato a fare una piccola verifica: su trenta ragazzi, solo uno non aveva il cellulare, ma soprattutto, più della metà aveva un costoso videofonino. Allora, non è facile ragionare, come fanno nelle loro testimonianze alcuni detenuti, sui disastri che possono produrre nella vita delle persone i soldi, se non si tiene in considerazione che il modello dominante oggi è fatto proprio di denaro successo e “immagine”.

Perdersi nel sogno della ricchezza

 

di Elvis Prifti

 

Ho ventun anni, sto in carcere, e se mi guardo intorno sinceramente penso che tanti reati si fanno solo per guadagnare soldi. Dicono che i soldi non sono tutto nella vita, ma se mancano diventano un problema, e poi per risolverlo si causano altri problemi, e ancora problemi, finché si finisce in galera.

Io sono in carcere per aver ucciso una persona durante una rissa, quindi per un reato che non ha nulla a che fare con i soldi, ma so che avrei anche potuto finirci per questo motivo. Quando ero fuori se c’era qualche “lavoro” da fare non ci pensavo mai due volte, soprattutto se si parlava di guadagnare dei ben soldini. Per me il denaro era la cosa più importante e non prendevo mai in considerazione il rischio che correvo.

Però, quando sono finito in carcere, dopo un po’ di anni sono riuscito a riflettere che quando sei “dentro” non è che con i soldi puoi fare chi sa che cosa, averli o no, hai perso la libertà e basta. Ti rimane la vista a quadrati della finestra con le sbarre, e hai sempre la guardia che ti apre la porta se vuoi andare da qualche parte, ma solo dentro al carcere, naturalmente.

Quando sono in cella spesso penso ai miei genitori e al fatto che persone come loro vivono faticosamente, soltanto lavorando e senza fare reati. Ma poi, se un ragazzo come me ha ambizioni e vuole una vita lussuosa, e trova delle occasioni in cui si cominciano a prendere tanti soldi senza faticare, si perde nel sogno della ricchezza, e pensa di aver risolto i problemi della propria vita. Fino a quando succede di essere beccato e allora si finisce a condurre un altro tipo di vita, molto più problematica di quella precedente. Altro che lusso e ricchezza. Ti ritrovi a dover vivere in spazi ristretti e a volte senza neppure le cose essenziali della vita.

Comunque devo essere sincero: io personalmente fra pochi mesi, quando uscirò di qui e mi troverò fuori a lavorare da mattina a sera e non potrò mai andare a divertirmi in discoteca, temo di non riuscire a dire di no se qualche amico mi offrirà qualche “lavoro” extra. Non so proprio come reagirò, perché, anche se sono stato in carcere e ho visto quanto è dura la perdita della libertà, ho il terrore che, se vedo intorno a me gente piena di soldi, mi lascio tentare e mi dimentico anche della galera.

 

 

Lo stipendio che prendevo non mi bastava mai

 

di Marino Occhipinti

 

Se e quanto hanno influito, nella nostra decisione di commettere reati, i soldi è un argomento complicato da affrontare, soprattutto in carcere, perché in questi anni di detenzione ho avuto l’impressione che molte persone detenute tendano a sovrastimare le proprie disponibilità economiche, e credo che con questo atteggiamento, a volte “inconscio”, vogliano tentare di “mascherare” quello che è il nostro comune fallimento.

Il ragionamento che ho sentito fare qualche volta è elementare: “Mi sto facendo un sacco di anni di galera, ma qualcosa almeno l’ho ottenuto”. Non so quanto questa mia sensazione corrisponda alla realtà, ma quando in carcere ho chiesto di lavorare non è stato “soltanto per passare il tempo, perché io mica ho bisogno di soldi”, come è capitato che mi dicesse più di uno, ma per mantenermi e per non dover dipendere dai miei familiari, ed anzi per mandare qualche soldo a mia moglie e alle mie figlie.

I soldi, certamente, sono stati all’origine della mia scelta di commettere reati, anche se all’epoca, nella mia decisione criminale, “giocarono” molte altre componenti. La mia storia è molto complicata, ma voglio provare a sintetizzarla: quasi venti anni fa, facendo rapine, credevo che sarei riuscito a trovare la soluzione ai miei problemi economici.

Poco più che ventenne, mi piacevano la bella vita e le serate in discoteca, mi piaceva fare il brillante e lo stipendio che percepivo, seppur dignitoso, non mi bastava. Inoltre ero in procinto di sposarmi e qualche decina di milioni mi avrebbe fatto comodo. Avrei potuto risolvere il “problema” riducendo le mie pretese di bella vita e rivolgendomi ai miei genitori, una famiglia modesta ma che in qualche modo mi avrebbe sicuramente aiutato, invece, pieno del mio orgoglio – ero oramai un uomo, e quindi me la volevo cavare da solo! – preferii “risolvere” a modo mio.

La prima rapina “filò tutto liscio”, mentre la seconda, ai danni di un furgone portavalori, finì tragicamente: una guardia giurata di 22 anni uccisa, e altre tre ferite. Sono passati quasi due decenni, e sto pagando, giuridicamente e penalmente, con una sentenza all’ergastolo, mentre sul piano morale sto scontando una “condanna” altrettanto interminabile e ben più insopportabile: quella con la mia coscienza, che non mi lascia in pace neppure un attimo.

Per non domandare nulla ai miei familiari allora, mi sono poi ritrovato, per i primi sette anni e mezzo di carcere, fino a quando ho cominciato a lavorare, a chiedere loro perfino le 100-200 mila lire al mese per vivere, e per pagarmi gli avvocati, una cifra spropositata, si sono indebitati fino al collo. Ho lasciato loro, ma soprattutto mia moglie e le mie figlie, che all’epoca erano piccole ed ora sono oramai donne, in una situazione economica e sociale della quale mi vergogno profondamente. Inoltre, oltre a loro, nella mia vicenda giudiziaria ci sono anche altre vittime, delle quali non trovo nemmeno il coraggio di parlare… Questo è il “mio” disastroso bilancio.

Il carcere, l’arte, la cultura e ciò che non si compra

 

di Alessio Guidotti

 

La mia esperienza di pluripregiudicato mi fa pensare che tra i fattori che incidono nella scelta di compiere imprese illegali, il cui fine è quello di “sistemarci le tasche”, c’è una visione della vita tutta in chiave economica.

Quando io ho cominciato finalmente ad avvertire che, nonostante avessi raggiunto la posizione economica che desideravo, mancava qualcosa nella mia vita, quello che mi ha aiutato è stato il contatto con la musica (mio fratello è un musicista, e io ora ho qualche possibilità di lavoro in questo settore grazie a lui), vedere persone che avevano trascurato il denaro per dedicarsi alla musica. I musicisti professionisti poi mi scioccarono ancor di più, quando mi resi conto che fanno quel che fanno per amore della musica, e solo in seguito viene il guadagno, se viene… Ecco, in quel periodo mi toccò profondamente vedere una vita (la mia) praticamente “votata” al perseguimento di un obiettivo quantificabile in denaro e vedere altre vite che invece avevano una priorità differente di valori. È per questo che oggi sono convinto che, in un percorso di “reinserimento sociale”, la cultura e l’arte giocano un ruolo chiave, perché sono stimoli alla riscoperta dei propri valori individuali ed ancor di più spinta alla creatività, intesa come applicazione della fantasia al quotidiano.

La cultura, l’arte, le attività che principalmente il volontariato porta in carcere, sono segnali forti per risvegliare le coscienze addormentate, sono chiavi che aprono le gabbie interiori presenti in ognuno di noi: passare una vita tra dentro e fuori il carcere, ostinarsi a guadagnare nell’unico modo che si ritiene possibile, fuori dalla legalità, mi fa pensare, tra le tante cose, che non ho avuto una gran fantasia.

Per persone come me il ritorno ad una vita “normale” sarà ancora più difficile. Il problema non è semplicemente di reinserirsi nella società, perché nella società noi ci siamo sempre stati, tali e quali come ci stanno tutte quelle persone che vivono la società come un terreno di caccia, che vivono l’altro come sgabello per la propria salita. Il problema è che nella società, intesa invece come realtà di individui liberi che interagiscono tra di loro cercando un giusto equilibrio tra il benessere individuale e quello collettivo, sono parecchi a doversi re-inserire, e la maggior parte non sta in galera.

Certo non esiste una formula per guarire dalla recidività, bisogna però convincersi dell’importanza che hanno cultura ed arte per arrivare a creare libertà interiore, e ancor di più convincersi che è l’uomo libero interiormente che darà maggior spazio alla sua creatività costruttiva, non si sentirà represso, e solo allora probabilmente il suo rapporto con gli altri non sarà caratterizzato unicamente dal concetto di utilità economica.

“Inventarsi” pene diverse dalla galera

C’è una pena efficace per i guidatori ubriachi?

 

Invece di invocare a gran voce il carcere, proviamo a ragionare sulla mancanza di responsabilità di chi guida sotto effetto di alcol o droga (e magari anche di farmaci) e sulle pene possibili

 

Non c’è reato per cui nel nostro Paese non si pensi che la migliore pena possibile è il carcere: carcere per le violenze allo stadio, carcere per gli studenti prepotenti accusati di bullismo, carcere per chi provoca incidenti perché guida sotto effetto di alcol o droga, o magari di psicofarmaci, se solo pensiamo a quanto è alto il loro “legalissimo” consumo in Italia. Ma siamo poi così sicuri che è questa la ricetta giusta? Proprio dal carcere, e ripensando alle loro esperienze personali, alcuni detenuti con le loro testimonianze provano a fare una riflessione sulle pene che potrebbero essere più efficaci per fermare i disastri che avvengono sulle strade per colpa di chi guida sotto effetto di alcol o droga.

Come fanno le persone “regolari”

a perdere la testa nei fine settimana?

 

di Sandro Calderoni

 

Ho più di cinquant’anni e di reati ne ho commesso diversi, ma non ho mai guidato ubriaco. Certo ho fatto di peggio, e per la vita degli altri spesso forse ho avuto poca attenzione, e infatti non posso negare che ogni volta che si andava in giro armati, si sapeva che all’occorrenza avremmo sparato. Allo stesso modo, quando entravamo in banca per fare una rapina, sapevamo che se la guardia reagiva avremmo sparato, anche se speravamo che questo non succedesse mai – comunque non eravamo così folli da pensare che usare un’arma fosse una cosa da niente – e per fortuna a me non è mai successo.

Così come non è mai successo, durante qualche fuga, di mettere a rischio i passanti con la macchina che si fiondava a gran velocità tra le vie dei quartieri abitati. Ma se non è successo, non significa che non sapevamo che poteva succedere. Anzi, abbiamo sempre saputo che l’autovettura è un’arma, spesso molto più letale di una pistola o di un mitra, perché se si perde il controllo, si hanno quintali di massa ferrosa scagliata contro persone in carne e ossa. E allora, se uno di noi aveva bevuto o assunto droghe, non si metteva al volante, lasciava il posto a un altro, sobrio. In realtà, in questo modo si evitava di fare incidenti, perché non volevamo rischiare di dare nell’occhio, visto che giravamo armati, ma si evitava anche di mettere in pericolo i passanti. Eravamo dei delinquenti, con pochi scrupoli e voglia di far soldi in fretta, ma comunque capivamo che con la vita degli altri non si doveva scherzare, anche se questo non alleggerisce di un grammo la nostra responsabilità.

E allora, da delinquente che è arrivato a un po’ di consapevolezza, mi domando come fanno le persone “regolari” a perdere la testa nei fine settimana, bevendo alcool e trasformando le strade in circuiti di Formula uno. Come fanno a non rendersi conto dei pericoli che causano a sé e agli altri?

Ecco, io non sono un cittadino regolare e non potrei mai fare la morale agli altri, ma ho capito che le persone, regolari o meno che siano, dovrebbero imparare a essere più responsabili.

Non si è potenziali assassini solo se si va in giro con un’arma, lo si è anche se si guida ubriachi, rischiando di fare una strage. E allora, che finisca in carcere o che se la cavi con una multa, chi uccide con la macchina una persona, ce l’avrà sulla propria coscienza come un macigno per il resto della propria vita, nello stesso modo in cui portano nella loro coscienza le loro vittime molte persone che si trovano qui in carcere per aver ucciso.

E se assistessero i traumatizzati da incidente stradale?

 

di Marino Occhipinti

 

Nei giorni scorsi i TG hanno trasmesso i servizi sull’incidente di Pinerolo, dove un uomo ubriaco, che i passanti volevano poi linciare, ha investito e ucciso una ragazza di 17 anni. Questa settimana abbiamo sentito anche, dall’aula di tribunale dove stava iniziando il processo, le urla di dolore dei familiari dei tre giovani “falciati” da un nomade pochi mesi fa.

Queste tragedie hanno dato il là ad un giro di vite che si preannuncia inflessibile. Il ministro Bianchi ha parlato di emergenza nazionale, mentre Amato ha proposto contromisure che vanno dal sequestro alla confisca della vettura, alla galera. Il procuratore capo di Bologna ha dichiarato che qualora il guidatore abbia fatto uso di stupefacenti o abusato di alcool, le conseguenze dell’evento consentirebbero di arrestare il responsabile dell’incidente e di contestargli l’omicidio volontario anziché quello più “lieve”, e cioè il colposo.

Nella redazione di Ristretti Orizzonti la corrente di pensiero più diffusa, ma sappiamo bene quanto il nostro status di detenuti abbia influito su questo, è che la soluzione non consiste certamente nel mettere in galera chi, ubriaco, abbia investito ed ucciso qualcuno.

Anch’io, in linea di massima, condivido questa teoria, anche se mi rendo conto che il caso di Pinerolo – al responsabile la patente era già stata ritirata, e poi restituita, per ben tre volte – è indifendibile, e come tale non può essere preso ad esempio. E la mia convinzione vacilla ancor di più se ripenso alla mamma di un mio amico, stritolata sotto le ruote di un camion condotto dall’autista ubriaco, ma nonostante ciò ritengo che la “linea dura” sia prevalentemente un provvedimento di facciata che non risolverà più di tanto il problema.

Dal momento che l’abuso di alcol costituisce la causa di gran parte dei sinistri mortali, certamente qualche rimedio deve essere adottato, col rischio però che, una volta esaurito l’effetto iniziale (è successo anche con la patente a punti), si torni alla “normalità”. D’altronde chi corre in auto, ubriaco o sotto l’effetto di droghe, difficilmente mette in conto l’incidente e riflette sulle conseguenze che questo potrebbe avere per sé e per gli altri.

Credo piuttosto che il problema sia di tipo culturale. In Inghilterra, ad esempio, i cittadini non si sognano neppure di alzare il gomito e mettersi poi alla guida della propria auto. Se sono soli, all’uscita di ogni locale trovano una serie di numeri: basta una telefonata e qualcuno li riaccompagna a casa. Questo mi fa pensare che in Inghilterra siano efficaci le campagne di sensibilizzazione rispetto al consumo di alcool, mentre in Italia generalmente ci preoccupiamo di trovare una strada alternativa per non incappare nei blocchi della polizia.

Io non ho ricette magiche, ma forse avrebbe davvero senso “infliggere” ai guidatori ubriachi che causano incidenti mortali una “sanzione” mite ma certa, che però rimanga ben impressa nella loro mente: per esempio qualche anno di serio volontariato in una struttura ospedaliera, ad assistere i traumatizzati da incidente stradale.

Per troppo tempo ho guardato solo avanti,

incurante di ciò che lasciavo alle mie spalle

 

di Franco Garaffoni

 

Ho letto che lo scrittore argentino Borges, nel corso di un’intervista, alla domanda su che tipo di rapporto avesse con i suoi lettori, rispose: è come fossero sempre dietro di me, solo che io non mi volto mai indietro.

Faccio questo esempio perché sono un detenuto, e se Borges non si voltava per non rendere conto ai suo lettori di ciò che scriveva, io avrei dovuto farlo, e invece per troppo tempo ho guardato solo in avanti incurante di ciò che lasciavo alle spalle. È stato uno sbaglio, un modo per non pensare a quello che avevo commesso. In questi giorni su tv e giornali si susseguono servizi e articoli su gravi incidenti stradali, provocati da conducenti sotto l’effetto dell’alcool o di droghe. Di conseguenza i politici chiedono carcere, sempre carcere, ancora carcere. Io in carcere ci sono e non vorrei vedere entrarci altre persone, ma è pur vero che ogni persona deve assumersi le proprie responsabilità, le vittime di un incidente stradale provocato da chi guida in uno stato di alterazione sono per certi aspetti equiparabili alle vittime di chi commette un reato volontario.

È appunto guardandoci dietro le spalle che forse riusciamo a vedere quello che spesso vorremmo ignorare: i reati che mi hanno portato in carcere sono legati all’abuso di alcool e droghe, per troppo tempo ho finto con me stesso, avevo un problema ma mi rifiutavo di affrontarlo. Quando bevi e magari, come nel mio caso, fai uso di cocaina ti costruisci una specie di catena della quale difficilmente riesci a liberarti: bevi per darti una effimera sicurezza, una falsa euforia, ti sembra che la vita sia più godibile, ma è solo il conforto di chi cerca giustificazioni alla sua incapacità di fare scelte più responsabili.

Oggi, in questa “pausa di riflessione” molto pesante (mi piace chiamare così la mia carcerazione) in qualche modo riesco a “revisionare” il mio passato, e devo ammettere che in un certo senso sono stato fortunato: ho vissuto un periodo della mia vita senza alcun senso civico, mettendo continuamente in pericolo la vita degli altri, guidare nello stato in cui ero e non aver causato incidenti mortali si avvicina molto al miracolo. Questo però non mi dà sollievo, non mi giustifica: avevo un’arma, l’auto, e la usavo mettendo in costante pericolo chiunque passasse sulla mia strada. Ho conosciuto rapinatori di banche, io ero un rapinatore di vite.

 

 

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