Dentro e fuori

 

Una ricerca sull’efficacia delle misure alternative

Attuare percorsi di inclusione sociale sempre più ampi, duraturi e condivisi

 

Ma le risorse previste per la gestione delle misure alternative sono tuttora minoritarie rispetto alle risorse destinate al carcere

 

 

di Chiara Ghetti

Direttore dell’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna di Venezia e

Direttore dell’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna

del Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria del Triveneto

 

Molti interventi nella Giornata di Studi “Persone, non reati che camminano” hanno segnalato come le misure alternative si sono ampliate in questi ultimi anni anche nel nostro paese, a partire dal 1975, anno in cui sono state introdotte.

Prima dell’indulto, la misura dell’affidamento in prova al Servizio Sociale riguardava più di 15.000 persone, cui si aggiungevano persone in semilibertà e in detenzione domiciliare. Nel corso del 2005 gli uffici di esecuzione penale esterna (UEPE) hanno seguito 32.000 affidati, 14.000 detenuti domiciliari e 3.500 semiliberi. Pur tuttavia, nonostante questo fenomeno, le misure alternative alla detenzione e, più in generale, l’esecuzione penale all’esterno del carcere, non hanno assunto sinora la rilevanza che dovrebbero avere.

È infatti tuttora presente una cultura che attribuisce esclusivamente al carcere la rappresentazione del luogo in cui dimora la pena. Inoltre, le risorse previste per la gestione delle misure alternative sono tuttora minoritarie rispetto alle risorse destinate al carcere. A fronte di questo scenario, succede tuttavia che, qualora si verifichino episodi negativi in cui sono coinvolte persone in misura alternativa, si crei immediatamente un forte allarme sociale e le misure alternative vengano all’improvviso additate come misure inefficaci.

Il tema dell’efficacia delle misure alternative è senz’altro di notevole interesse. Vorrei segnalare come, recentemente, si sia conclusa una ricerca da parte della Direzione Generale dell’Esecuzione Penale Esterna, che presenta risultati di estremo rilievo.

La ricerca è stata condotta da Fabrizio Leonardi, direttore dell’Osservatorio delle misure alternative ed ha per oggetto la recidiva tra gli affidati in prova al servizio sociale. È una delle prime ricerche che presta attenzione al risultato e, dunque, all’efficacia delle misure alternative.

La ricerca evidenzia in primo luogo una notevole crescita dell’esecuzione penale esterna che, dal 1977 al 2005, risulta decuplicata.

In secondo luogo, la ricerca procede a misurare l’efficacia degli affidamenti in prova al servizio sociale in relazione a due indicatori.

  1. Il primo riguarda le revoche. Si considera cioè se la misura alternativa è stata revocata e per quale motivo. Questo è possibile dal 1999, anno in cui l’amministrazione penitenziaria si è dotata di uno specifico sistema di rilevazione. Ora, le revoche degli affidamenti in prova al servizio sociale rilevate per ciascun anno, dal 1999 al 2005, oscillano intorno al 5%. Il motivo più frequente di revoca è l’andamento negativo. L’eventualità di commissione di nuovi reati segnala invece valori bassissimi (il valore massimo si registra nel 2000 con lo 0,29%), che non giustifica l’allarme sociale che si crea su singoli casi di cronaca. In generale, addirittura nel 95% dei casi di persone che scontano la pena in affidamento in prova ai servizi sociali, il periodo della condanna è dunque trascorso senza commissione di reati e senza una condotta irregolare e, infine, si conclude regolarmente. Questo è un primo dato, ed è opportuno segnalarlo, proprio per la necessità di divulgare, di mettere in circolo le buone notizie. La comunicazione pubblica, e non solo dei media, deve essere attenta a valorizzare i risultati per cui si lavora da anni; e quando si verifica, invece, un evento negativo che coinvolge una persona in misura alternativa, c’è la necessità di non far mancare agli operatori la cornice di riferimento e alle persone interessate il sostegno per poter proseguire un percorso, che permetta il più possibile un effettivo reinserimento sociale.

  2. L’altro indicatore per misurare l’efficacia, è relativo alla recidiva, intesa qui come condizione di chi si trova in carcere o in misura alternativa alla detenzione, dopo esservi già stato per scontare una o più condanne. In questo senso, scrive Leonardi, la recidiva può costituire un parametro per misurare il successo dell’attività rieducativa. L’obiettivo di questa ricerca è stato quello di individuare quantitativamente quei soggetti per i quali il trattamento extramurale, tramite l’affidamento in prova al servizio sociale, non ha raggiunto lo scopo del reinserimento sociale.

L’indagine ha avuto per oggetto gli affidati in prova al servizio sociale, esaminando tutti i casi di affidamento archiviati nel 1998 dagli allora Centri di Servizio Sociale per Adulti (C.S.S.A), considerando recidivi coloro che, entro il 2005, hanno subito una nuova condanna iscritta al Casellario giudiziale. Nel 1998 gli affidamenti in prova al servizio sociale rappresentavano il 78% dei casi di misure alternative seguiti dai C.S.S.A. Tra le tipologie di affidamento, quello ordinario era quello più diffuso (7 casi su 10) e la maggior parte degli affidati proveniva dallo stato di libertà.

È stata presa in esame la posizione di 8817 persone, che sono state seguite e la cui presa in carico si è conclusa nel 1998. Si è poi andati ad osservare che cosa è accaduto nei sette anni successivi, dal 1998 al 2005. Il risultato è molto rilevante perché dice che di queste 8817 persone in affidamento in prova al servizio sociale, solo il 19% sono risultate recidive nell’arco dei sette anni successivi. La percentuale di recidivi è maggiore tra gli affidati in casi particolari, cioè tra i tossicodipendenti e gli alcooldipendenti, soprattutto quando la misura segue la detenzione. Gli affidati “ordinari” ammessi all’affidamento dalla libertà, sono risultati i meno recidivi. Quindi, per il restante 81% si tratta di persone che, in un arco di tempo relativamente ampio (sette anni), non risultano avere commesso reati.

La ricerca, inoltre, si sofferma a distinguere in base all’età, al genere ed al tempo intercorso tra la fine della misura alternativa e la recidiva e segnala infine il numero di pluri-recidivi.

Infine, questa ricerca suggerisce di confrontare la recidiva degli affidati con quella dei detenuti. Da alcune informazioni fornite dall’ufficio statistico del D.A.P. risulta che nel 1998 sono stati scarcerati 5.772 condannati; di questi, quasi 7 su 10 (il 68,45%), hanno fatto rientro in carcere. Un’altra rilevazione segnala che sui 27.585 detenuti presenti nelle carceri il 19 aprile 2006 circa il 48% ha avuto precedenti carcerazioni per condanne passate in giudicato.

Nella ricerca sugli affidati, sono state considerate anche le condanne iscritte al Casellario giudiziale e, nonostante questo, la percentuale di recidivi è notevolmente inferiore; scrive infatti Leonardi che non si arriva a 2 casi su 10.

Questo dato, che emerge da una ricerca, è particolarmente confortante. A partire da questo, è possibile cercare di capire qual è il contributo specifico che ciascuno dei soggetti coinvolti può portare, affinché vi sia una maggiore visibilità e l’allarme sociale non sia così diffuso, anche senza un particolare fondamento.

 

Alternative al carcere, percorsi, attori e reti sociali nell’esecuzione penale esterna

 

Mi sembra interessante leggere questo risultato insieme a quello, che emerge da un’altra recente ricerca, curata dal professor Frudà, docente dell’Università “La Sapienza” di Roma, insieme alla Direzione Generale dell’Esecuzione Penale Esterna, che ha come titolo “Alternative al carcere - Percorsi, attori e reti sociali nell’esecuzione penale esterna”. Si tratta, in questo caso, di una valutazione di tipo qualitativo, sulle modalità operative delle risorse di rete sociale, che mantengono relazioni con gli ex Centri di Servizio Sociale per Adulti (oggi UEPE). Sono emersi, nel complesso, attenzione ed apprezzamento per il lavoro con i servizi della Giustizia. Il ruolo dei Centri di servizi sociale per adulti è risultato differenziato in relazione alla tipologia del soggetto preso in carico, oltre che per la struttura della rete. Emerge dunque l’incidenza dell’operatività di questi servizi. Questa ricerca segnala e testimonia come la modalità dell’esecuzione delle misure alternative si ponga all’interno della società, sviluppando e utilizzando la metodologia del lavoro in rete.

Questa metodologia pone in rapporto tra loro operatori penitenziari, altri operatori dei servizi pubblici (Comuni, enti locali, Servizi per le tossicodipendenze), volontariato, cooperative sociali. Questi rapporti segnalano come, nei confronti dei detenuti, vi sia una dimensione di aiuto e sostegno, alla quale si affianca una dimensione di controllo, che viene svolta, in modo particolare, nell’affidamento in prova al servizio sociale. Ciò che emerge dalla ricerca è che, nel seguire le persone in affidamento in prova al servi­zio sociale, c’è l’idea del percorso, in una visione dinamica, che non considera il reato in una dimensione di fissità, ma affronta il tema del reato per considerare i danni che questo ha causato, per avviare una riflessione sulla responsabilità che comporta e sulla necessità di riparare al danno arrecato, con uno sguardo verso il futuro, come futuro possibile e diverso da un passato nel quale è stato commesso il reato.

 

Ciò che emerge è che gli operatori della Giustizia, significanti lo Stato, si pongono all’interno della società, in rapporto con altri soggetti; essi, posti nei nodi di accesso alle istituzioni e per questo vissuti spesso in modo negativo, soprattutto dalle persone che hanno commesso reati, esprimono una capacità di relazione con le persone, che favorisce la ripresa di una fiducia nelle proprie risorse, nelle istituzioni e nella comunità locale. Una comunità chiamata a contribuire, a sostenere questi percorsi, a gestire processi di inclusione sociale, con il coinvolgimento della persona.

 

La realtà messa in luce da queste ricerche merita di essere conosciuta e divulgata, perché già esistente. Su di essa le riforme, circa le norme di procedura penale che prevedono anche l’introduzione della probation, possono innestarsi e trovare terreno fecondo, per attuare percorsi di inclusione sociale sempre più ampi, duraturi e condivisi.

Anche in carcere, una vera cultura del lavoro

Tecnici delle attività archivistiche, bibliotecarie, documentarie

 

Un corso che ha dato ad alcuni detenuti del “Centro di Documentazione Due Palazzi” competenze, che potranno essere messe a frutto in futuro in ambiti importanti: dagli uffici pubblici e privati ai centri di documentazione, dagli archivi storici alle biblioteche di pubblica lettura

 

di Giovanni Ponchio

e Lorenzina Fontana

C.I.O.F.S./FP “Don Bosco”

 

Il “Centro di Documentazione Due Palazzi” ha compiuto dieci anni, dieci anni nei quali questa realtà è cresciuta, si è consolidata, ha acquisito autorevolezza, grazie agli strumenti di cui si è dotata: un giornale, un gruppo di Rassegna Stampa, un sito, una news letter quotidiana, un TG, un laboratorio di legatoria, una biblioteca. Ma la capacità di informare, documentare, comunicare dal carcere e sul carcere non si improvvisa: ed è per questo motivo che al lavoro abbiamo affiancato una attività di formazione permanente per le persone detenute coinvolte nel progetto. Il corso “Tecnico delle attività archivistiche, bibliotecarie, documentarie” è stato uno dei percorsi formativi più importanti e di maggior interesse anche per le prospettive di occupazione qualificata che offre.

Il “tecnico delle attività archivistiche, bibliotecarie, documentarie” è un operatore che sa ricercare, trattare ed archiviare documenti in ambiti diversi: dagli uffici pubblici e privati ai centri di documentazione, dagli archivi storici alle biblioteche di pubblica lettura. Una figura, dunque, nuova e trasversale al variegato universo della documentazione.

Un importante corso, finanziato dalla Regione Veneto e dal Fondo Sociale Europeo, per formare, appunto, tecnici delle attività archivistiche, bibliotecarie e documentarie si è concluso nella Casa di reclusione Due Palazzi il 18 luglio, con l’esame di qualifica. Un itinerario impegnativo e complesso di 440 ore di cui 380 dedicate alle lezioni teoriche e alle attività tecnico-pratiche e 60 riservate allo stage conclusivo.

Obiettivo del progetto è stato quello del recupero professionale e sociale di un gruppo di 10 detenuti, segnalati dagli operatori penitenziari, che sono stati formati come operatori in grado di coadiuvare il professionista abilitato alla funzione archivistica, biblioteconomica e bibliografica, nella catalogazione completa, descrittiva e semantica computerizzata dei documenti, nella gestione di archivi pubblici e privati e di biblioteche pubbliche, conformemente alle nuove esigenze, con particolare riguardo al recupero del patrimonio documentale di Enti e Organizzazioni.

L’intervento formativo ha cercato di sviluppare negli allievi le abilità di base utilizzabili:

nei vari processi di ricerca e trattamento e comunicazione dell’informazione;

nell’archiviazione dei documenti, a fini operativi ed applicativi, in un’ottica trasversale rispetto ai diversi settori;

nella funzione biblioteconomica e bibliografica, come esperto nella catalogazione computerizzata che, utilizzando metodi, tecniche e strumenti informatici, collabora a mettere in opera sistemi d’informazione e di archiviazione all’interno di centri di documentazione di enti, uffici privati, uffici stampa, archivi, biblioteche, ecc;

nell’organico di biblioteche “pubbliche” o “di base” che non abbiano come obiettivo primario quello della conservazione dei documenti, ma la loro fruizione e utilizzazione;

nell’organizzazione in un prodotto multimediale di tutte le diverse informazioni testuali/visive sia nell’organizzazione di un prodotto divulgativo - un cd rom, un sito Internet ecc. - che valorizzi e faccia conoscere ad un pubblico più ampio il tipo di archivio che è stato realizzato.

Gli obiettivi sono stati raggiunti da dieci allievi che hanno concluso positivamente il corso (anche se solo nove di questi hanno potuto sostenere gli esami di qualifica). Due sono stati autorizzati ad effettuare lo stage esterno: presso il Consorzio Interbibliotecario associato di Abano Terme (Biblioteche Padovane Associate) e presso l’Archivio del Comune di Padova. Gli altri allievi hanno potuto sperimentare le competenza apprese nel corso attraverso lo stage interno (grazie alle molte attività gestite dal partner Cooperativa AltraCittà e dall’Associazione Granello di Senape).

Il corso ha rappresentato un’esperienza singolare per vari aspetti. Innanzi tutto per il profilo professionale, questa figura nuova e altamente specializzata nella complessa realtà della documentazione.

Altro elemento interessante è stata la presenza di docenti che provengono dal mondo universitario assieme a qualificati archivisti e bibliotecari che gestiscono servizi di documentazione. Un insieme ben assortito di teoria dei documenti e di esperienze tecniche, acquisite attraverso una lunga pratica sul campo.

Ma l’aspetto più importante è stato, senza dubbio, quello relativo alle finalità del corso: fornire ai detenuti un bagaglio di conoscenze e di abilità tecniche da utilizzare attraverso misure alternative alla detenzione e offrire loro, quando la pena sarà scontata, una concreta possibilità d’inserimento lavorativo. Perché l’obiettivo di fondo è coltivare nel detenuto una vera cultura del lavoro.

Grazie al corso frequentato un detenuto sarà impiegato stabilmente nella biblioteca della Casa di Reclusione, gli altri possono mettere a frutto le competenze acquisite, svolgendo vari servizi all’interno del Centro di Documentazione.

Il lavoro congiunto del soggetto promotore C.I.O.F.S./FP “Don Bosco” di Padova, insieme alla cooperativa sociale Altracittà e al Sistema Bibliotecario di Abano Terme ha acceso nei detenuti formati una speranza che va preservata ed alimentata.

 

Progetto N. 001 FS/QAN -Settore CS10

D.G.R. n. 3151 del 10.10.2006

F.S.E. Ob. 3 Misura C4

 

L’esperienza di un detenuto “libero di imparare”

 

di Andrea Bordin

 

Mi chiamo Andrea, sono detenuto da molti anni. Ho partecipato a vari corsi formativi all’interno del carcere. Ho avuto anche la possibilità di iscrivermi alla facoltà di storia che seguo tuttora, sperando nel conseguimento della laurea. Circa sei mesi fa, ho ricevuto l’offerta da un’insegnante del carcere di partecipare ad un corso, organizzato dal Centro di Formazione Professionale Don Bosco di Padova (CIOFS), per formare le competenze di “tecnico delle attività archivistiche, bibliotecarie e documentarie”. Le prime lezioni hanno dimostrato l’alto livello tecnico e professionale dei docenti: alcuni provenivano dall’Università di Padova ed altri erano tecnici del Consorzio Sistema Bibliotecario di Abano e dell’Archivio centrale del Comune di Padova.

Al termine del corso, io ed un altro ragazzo abbiamo avuto la possibilità di uscire dal carcere per dodici giorni, per recarci presso il Consorzio per il Sistema Bibliotecario di Abano e presso l’Archivio Comunale di Padova. In queste strutture ci è stato dato modo di mettere in pratica le nozioni teoriche che avevamo appreso durante l’intero periodo del corso, sperimentando alcune mansioni estremamente delicate nel trattamento dei dati e di catalogazione. Lavoro che esige precisione e scrupolosità.

Nei primi giorni trascorsi in queste strutture si poteva avvertire un certo timore da parte nostra e dei tecnici che lavoravano al nostro fianco. Per quanto riguarda noi detenuti, c’era una gran paura di sbagliare nelle mansioni affidateci, visto che la teoria si differenzia molto dalla pratica. Invece, da parte degli operatori esterni vi era la novità di essere a fianco di persone che provenivano dal carcere. Sono bastati due giorni e l’atmosfera si è fatta affiatata e collaborativa. L’ambiente che ci circondava era costituito da persone comprensive e cordiali, sempre pronte a seguirci, passo dopo passo, nel nostro stage formativo e devo dire, senza che il risultato ottenuto è stato ottimo sia a livello lavorativo che umano.

In definitiva, mi sono reso conto che questo corso realizza le sue finalità: preparare un individuo sul piano professionale, creandogli la possibilità di svolgere un’attività in concreto, ossia dando alla parola rieducazione il suo vero significato.

Il mio augurio è che queste iniziative non rimangano fini a se stesse e che gli eventuali corsi futuri abbiano la stessa impostazione, permettendo alle persone detenute di intraprendere una professione seria e soddisfacente, adatta a ricominciare una nuova vita. Per dodici giorni, grazie a questo stage, siamo stati liberi, liberi di imparare.

 

 

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