Sani Dentro

 

Non chiamiamole “stanze del buco”

e soprattutto cerchiamo di non aver paura di fare

scelte impopolari ma utili a salvare persone che stanno male

Ma perché, occupandosi di persone che hanno un problema di dipendenza ed avendo ormai la certezza che non si può obbligare a “guarire” nessuno che non arrivi a deciderlo spontaneamente, non si può arrivare a fornirgli, in modo controllato, anche la sostanza?

 

di Stefano Bentivogli

 

Come sempre un cambio di governo apre delle aspettative, ci si aspetta, quantomeno se si era convinti che con il voto si sarebbe data al Paese un’alternativa politica, che si attuino dei cambiamenti forti, che si affrontino i problemi in maniera diversa, che cambi in qualche modo anche la vita reale, concreta, quella fatta dei problemi quotidiani, dei drammi in alcuni casi, perché di tali si tratta, per esempio quando si affronta la questione droga.

Di recente ci sono state le prime dichiarazioni, da parte di componenti del nuovo esecutivo, proprio in materia di droga e di carcere, che sono due questioni veramente urgenti e legate tra loro in maniera indissolubile. Anche culturalmente e politicamente lo sono, in quanto il mondo penitenziario si è trasformato nell’arco di trent’anni nel luogo di cura, punizione, contenzione di tutti quelli che con gli stupefacenti hanno instaurato un rapporto problematico. Il resto della popolazione detenuta rappresenta una minoranza in via di ulteriore calo. Gli ultimi indirizzi legislativi tendono addirittura, e mi riferisco allo stralcio Giovanardi sulla proposta di legge Fini-Mantovano, ad avvicinare al carcere progressivamente anche i consumatori non propriamente problematici, in realtà la maggioranza dei consumatori. Questa categoria di persone è quella che ogni giorno smentisce il percorso obbligatorio per cui – alcuni sostengono – si parte dallo spinello, si va alla cocaina per poi rimanere schiavi dell’eroina (quel percorso per cui le droghe sarebbero tutte uguali e quelle “leggere” sarebbero il preludio di quelle “pesanti”). Loro sono invece quelli che, pur essendo consumatori, riportano la questione stupefacenti al dato di realtà e non ai soliti slogan dallo stile terroristico, che venivano spacciati per prevenzione.

Complessivamente invece i numeri sono diventati importanti e, alla massa in aumento dei consumatori, non è corrisposta un’azione chiara, una scelta politica intelligente, un adeguato interesse dei legislatori, sempre che non ci si accontenti dei tentativi di riforma della precedente legislatura che ha solo inasprito la repressione dei consumatori con provvedimenti punitivi, che a parere della gran parte degli addetti ai lavori hanno unicamente peggiorato la situazione a tutti i livelli: a livello medico-terapeutico, a livello di crescita della microcriminalità e dell’insicurezza sociale, a livello di carcere ed intervento penale, dei servizi sociali sul territorio.

Oggi, a 16 anni dal Testo Unico sugli stupefacenti che, dietro l’intento di offrire una possibilità di cura ai tossicodipendenti, rende pressoché obbligatorio il passaggio per il carcere, in quanto lascia comunque nell’illegalità la droga ed i suoi consumatori, sentiamo finalmente le nuove proposte, ascoltiamo e leggiamo le dichiarazioni degli esponenti della nuova maggioranza. In realtà non si tratta di proposte organiche e strutturate, ma brevi dichiarazioni che però è il caso di iniziare a discutere, queste le principali di questi giorni:

aprire le “stanze del buco”

aumentare la dose consentita per i consumatori di marijuana 

avviare politiche di riduzione del danno serie, che vadano verso la legalizzazione (non la liberalizzazione) anche delle droghe pesanti (questa proposta è di Capezzone dei radicali)

 

Un buon tossicodipendente è una miniera di denaro liquido quotidiano che finanzia le narcomafie

 

Ovviamente, reduci dalle politiche di Giovanardi e della destra, si è sollevato il bailamme, dimenticando che, mentre ci si perde nella retorica politica, le carceri si riempiono sempre di più. E non solo, fuori nelle strade, nelle piazze, negli anfratti più luridi delle città, ci si droga, ci si ammala, si muore. A questo si arriva col piccolo spaccio, rubacchiando tutti i giorni, prostituendosi, tanto che molta gente non ne può proprio più, cresce l’odio nei confronti dei consumatori perché questi rendono insicure le case e le strade. Non dimentichiamo mai che pochi come i tossicodipendenti riescono a fungere da volano del mercato criminale degli stupefacenti, che un buon tossicodipendente è una miniera di denaro liquido quotidiano che finanzia le narcomafie, favorisce il loro arricchimento e la loro successiva compenetrazione nell’economia legale del Paese: con la droga e la prostituzione la mafia compra immobili, attività commerciali, imprese.

Credo che a questo punto occorra qualche soluzione veramente coraggiosa, e quando dico coraggiosa intendo pure impopolare, anche se a volte mi stupisco di come, occupandosi di persone che hanno un problema di dipendenza ed avendo ormai la certezza che non si può obbligare a “guarire” nessuno che non arrivi a deciderlo spontaneamente, non si possa arrivare a fornirgli, in modo controllato, anche la sostanza, che questo sia ancora così terribilmente immorale: non è forse più immorale e disumano regalare queste persone ad un sistema che le renderà macchine per delinquere?

 

La “stanza del buco” è un’espressione schifosa

 

Ma il problema è anche culturale, e su questo la comunicazione sbagliata, relegando ai margini come al solito l’aspetto più importante del problema, che è l’elemento umano, rischia di fare il gioco del proibizionismo. Le “stanze del buco”, per esempio, è un’espressione schifosa. Un luogo sanitariamente controllato, dove la persona è assistita, dove si praticano iniezioni, è invece un luogo per aiutare le persone, proprio perché va oltre l’immagine del “buco”, che è malattia, sporcizia, siringhe usate mille volte, flebiti, infezioni deturpanti, acqua non sterile, per non parlare della sostanza, sulla cui composizione dopo il “taglio” c’è da inorridire.

È più facile instaurare una relazione con una persona che continua ad iniettarsi droga in un posto costruito per persone che non stanno bene, piuttosto che nella situazione di oggi, quando la persona che usa stupefacenti, nascosta tra i cespugli di un parco pubblico, cerca di sciogliere l’eroina usando il fondo di una lattina per bibite (magari non ha una fiala d’acqua), mentre è lì che impreca perché tra l’ago spuntato e le vene indurite non riesce a iniettarsela, quando dopo vari tentativi, sporca di sangue ovunque, si accorgerà che la vena si è rotta ed il braccio è gonfio e fa un male cane. La riduzione del danno, attraverso l’aiuto concreto nella gestione dello stato di dipendenza, diventa anche un’occasione di contatto, altrimenti impossibile, se si considerano tutte quelle persone la cui quotidianità è riempita  dal problema del reperimento dello stupefacente e del suo uso.

Il percorso di liberazione non può che essere una scelta personale, in molti casi ha bisogno di tempi anche lunghi, e l’azione d’aiuto, di cura, soprattutto per i casi più difficili, diventa molto più efficace quando chi ha bisogno di essere aiutato non si trova nella condizione, come avviene invece oggi, di essere illegale e quindi braccato dalle forze dell’ordine, clandestino per un primo breve periodo e poi emarginato ed allontanato da ogni contesto relazionale che non sia quello di chi ha i tuoi stessi problemi.

Ad oggi si è ancora di fronte a due scelte obbligate ed alternative: l’astinenza immediata, che però si riesce ad imporre solo ad una minima parte delle persone (non ci sarebbero consumatori problematici altrimenti), oppure l’illegalità per procurarsi la sostanza, la malattia spesso mortale perché in clandestinità tante precauzioni sanitarie passano in ultimo piano, data la devastazione interiore provocata, oltre che dalla sostanza, anche da uno stile di vita totalizzante, dove non resta più spazio per niente altro.  

Oggi questa è la situazione, e non c’è costrizione o galera che contino, sempre che non si dia retta a quanti, profeti di verità e sicurezze inesistenti, vendono ricette per la salvezza che non funzionano se non per pochi. E non è un caso che si parli di salvezza e di salvatori: di rado infatti si mira a processi di liberazione che vadano oltre la sostanza stupefacente. In pratica, basta non drogarsi, come se fosse l’unica schiavitù pericolosa, come se il problema non sia invece trovare un percorso di liberazione nel quale uno riprende il suo spazio e si rimette in condizione  di credere nella costruzione di un po’ di felicità.

Mi si dirà che con le “stanze del buco” non c’è garanzia di cambiamento del tossicodipendente, ed è vero, ma c’è una questione di civiltà che non si può continuare ad eludere, con il moralismo che identifica il male con la sostanza e chi la usa. Questo moralismo continua a fare vittime, ad uccidere oltre che ad obbligare le persone a commettere reati come stile di vita, persone che non hanno certo come motivazione psicologica quella di fare del male ad altri o arricchirsi sottraendo beni altrui. Pare invece, e non credo sia propaganda, che il tossicodipendente che ha risolto legalmente il suo fabbisogno di stupefacenti, abbia un atteggiamento diverso nei confronti di chi gli propone una relazione terapeutica: tolto di mezzo l’assillo della sostanza e dell’inferno obbligatorio che la circonda, è possibile fare tentativi e scelte di cambiamento molto più credibili perché volontari. 

Sulla seconda proposta, riguardante la marijuana, credo altresì che non basti assolutamente aumentarne la dose consentita per i consumatori, perché comunque ci sarà dietro una grande organizzazione criminale a guadagnarci e finché non si toglierà questo mercato all’illegalità non cambierà mai niente: per molti sarà sempre e solo carcere.

 

Non c’è niente di demoniaco in una tossicodipendenza

 

Ho sentito dichiarare che sarebbero ipotesi, quelle delle stanze e della legalizzazione, rinunciatarie, che sanciscono una sconfitta della società civile. Io vorrei ricordare per l’ennesima volta che la sconfitta c’è già stata, che lo Stato è impotente ed il cittadino anche, basta guardare i dati sulla diffusione del consumo, sulla precocità del primo contatto con lo stupefacente, sui morti, sulla microcriminalità. Il tossicodipendente invece perde due volte, perde nella sua battaglia con la fatica a vivere ed anche in quella per essere considerato ancora una persona in difficoltà, che non va lasciata in mano alle narcomafie o magari fatta diventare anche lui un’occasione per far soldi, come avviene nel business delle comunità terapeutiche, che poi a me sembra che a volte di terapeutico non abbiano niente.

Tra quanto si è sentito dire da esponenti della maggioranza credo che solo Capezzone abbia capito qualcosa in più e voglia andare nella ipotesi, sostenuta da tempo da molti addetti ai lavori (basta leggersi, per esempio, Fuoriluogo), di cambiare sul serio su una questione che altrimenti resta sempre con un nodo centrale irrisolto: i cittadini tossicodipendenti (quelli che per ora non smettono e sono tantissimi) o restano persone delle quali si occupa lo Stato o li si lascia, come avviene oggi, schiavi della droga e quindi della mafia, puniti dallo Stato e conseguentemente emarginati dalla società.

Io credo che sia ora che sulla questione stupefacenti si abbandonino le inutili campagne di prevenzione stile terrorismo, si evitino le pseudoriforme che girano attorno alle questioni centrali, e si entri con più onestà e scientificità in merito al problema e si facciano finalmente scelte innovative. Sia chiaro, non si tratta della legalizzazione e basta, ma partendo dall’obbligo di ridare dignità umana a tutti quelli, e sono tanti, che allo stato attuale delle opzioni possibili non ce la fanno a uscire dalla dipendenza, occorre anche rivedere le politiche sociali, rivedere quest’idea di benessere che non si sa più cosa sia e che, per esigenze di mercato, allontana le persone da se stesse e dagli altri.

E poi il rapporto tra persone in difficoltà ed istituzioni deve cambiare, e queste ultime, se veramente sono sorrette da valori, prima di tutto quello del rispetto della vita, non possono agire mettendo in conto che alcune vite possono andare perse solo perché fanno più fatica di altre a non cadere in forme di dipendenza. Il rispetto della vita deve essere assolutamente più forte di una cultura che tollera alcuni abusi e ne demonizza altri, così si continuano a mettere le persone dietro l’oggetto dei loro problemi ed il risultato è che molte vite vengono, non solo lasciate a se stesse, ma anche demonizzate come la sostanza della quale si sono fatte far schiave.

Invece non c’è niente di demoniaco in una tossicodipendenza, c’è più spesso infelicità, fragilità, difficoltà grandi e difficili da superare: perché continuare a nascondere l’umanità del ricorso agli stupefacenti, fermandosi sempre alle sostanze, magari ad alcune piuttosto che altre? Ci saranno sempre false strade per ottenere il benessere, alcune portano invece a situazioni di malessere e di dipendenza, tra queste il caso delle droghe è una delle tante, per assurdo quella che meno lede le libertà altrui, almeno finché è dato alle persone di non commettere reati per procurarsi la sostanza, ed ancora più assurdo invece è che la si sia trasformata addirittura in un reato.

Di cose pazzesche ce ne sono tante, ma questa di criminalizzare l’incapacità di trovare il benessere senza sostanze artificiali è veramente assurda. Oggi, al di là degli stereotipi e delle ideologie, ci si accanisce contro delle persone, in balia alternativamente della miseria, della criminalità, della galera, a volte anche di certe comunità, quasi sempre in posizione di oggetti sui quali arricchirsi, ovunque un po’ schiavi di qualcuno o qualcosa, dei poveri diavoli direi sui quali il disprezzo sociale aumenta di giorno in giorno.

 

 

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