Parliamone

 

Dopo l’indulto una regola: non possiamo dare per perso nessuno

Serve un volontariato che guardi di più al “fuori”. La vera sfida è nelle città, in un territorio reso ancora più ostile da una informazione spesso feroce verso chi è uscito di galera con l’indulto

 

di Ornella Favero

 

Sabato 19 agosto sfoglio distrattamente un quotidiano locale e vedo un titolone sui primi arresti a Padova nel “dopo indulto”. Corro velocemente a leggere i nomi, e ci trovo quello di uno dei “miei”, uno che era stato un bel pezzo nella redazione di “Ristretti Orizzonti” e poi, quando era andato a lavorare al call center interno al carcere, aveva continuato a collaborare, a scrivere, a informarsi. Mi prende lo scoraggiamento, l’angoscia, il senso di sconfitta che in quest’ultimo anno ho vissuto più volte, molto più spesso che nei precedenti nove anni di volontariato in galera. Facile anche spiegare perché: prima il mio volontariato era tutto “dentro”, ora è molto più proiettato all’esterno, al dopo carcere. Ma dentro le persone che incontriamo sono in qualche modo “contenute” dall’istituzione, mentre fuori sono spesso allo sbando, ammalate di solitudine e di fretta.

Credo che la prima riflessione da fare riguardi proprio le resistenze che ha gran parte del volontariato a occuparsi del “dopo”, e lo abbiamo visto bene in questa difficile fase che segue a un indulto, fortemente voluto anche dalle associazioni che si occupano di detenuti, ma brutale nei tempi e nei modi in cui sono avvenute le scarcerazioni (anche se personalmente ritengo che tutto questo fosse pressoché inevitabile: quando infatti si è aperto nella politica uno spiraglio, che faceva intravedere finalmente una maggioranza a favore, la paura di illudere e poi deludere ancora una volta i 62.000 detenuti accatastati nelle celle ha fatto evidentemente decidere di dare una accelerata a un percorso, che altrimenti rischiava di finire ancora una volta nel nulla).

Tutti abbiamo detto di essere stati colti di sorpresa, e in questo non abbiamo grandi responsabilità, se si pensa che la gente è stata buttata fuori anche all’una di notte, e che comunque, a Padova almeno, ma penso anche da altre parti, è entrato subito in funzione uno sportello S.O.S. indulto, nel quale ci siamo impegnati in tanti, nonostante agosto, le ferie, la voglia di avere una pausa da un volontariato così complesso e faticoso, soprattutto psicologicamente, come quello che ha a che fare con il carcere.

Ma quello che l’indulto ha comunque spietatamente “fotografato” è la situazione della rete dei servizi fuori, e i buchi di quella rete: la mancanza di alloggi e posti in case di accoglienza, l’assenza di cure serie per i malati psichici, la difficoltà a trovare persone in grado di “accompagnare” chi è uscito dal carcere nella ricerca di un lavoro, ma anche di affiancarlo alle prime difficoltà nell’ambiente lavorativo e nel costruirsi delle relazioni  decenti. E allora le persone restano in carcere, e tante, in mancanza di un valido sostegno, sarebbero restate fino alla fine della pena se non fosse arrivato questo indulto.

Prima di tutto viene infatti da dire che, se dei 20.000 e più detenuti scarcerati la gran parte erano condannati con pene o residui pena inferiori a tre anni, e non erano fuori in misura alternativa, ciò significa che non si riesce abbastanza a seguire i percorsi di reinserimento delle persone, una loro uscita graduale dal carcere, non si riesce ancora a capire che la vera sfida è fuori, nelle città, in un territorio spesso ostile.

E la sfida è doppia: la prima è che gli ottomila e più volontari, che entrano in carcere, stiano un po’ al confine, proiettati verso l’esterno, pronti ad accompagnare le persone a piccole tappe verso la libertà, e non solo a rendere più accettabili le loro condizioni di vita dentro. La seconda è che si occupino anche di informare e sensibilizzare i “cittadini onesti”, cosa da non sottovalutare affatto, se si pensa ai disastri che giornali e televisioni hanno provocato nel tessuto sociale con una campagna sfrenata contro l’indulto e con la logica sadica dell’aspettare i primi rientri, i primi inevitabili piccoli disastri dei “soliti delinquenti”.

 

Quanta attenzione ai problemi di chi esce dal carcere!

 

“Indulto, i primi assassini sono già fuori”: ero in autobus quando, buttando un occhio sul giornale del mio vicino, ho letto questo titolo in prima pagina. Ho provato subito a mettermi nei panni di un cittadino “normale”, insomma non uno come me, che tra gli assassini ci sto parecchie ore al giorno nella mia attività di volontariato, e ho cominciato a star male per quel carico di ansia e paura, che da quel titolo cadeva addosso ai lettori. Ma io un po’ li conosco, appunto, gli assassini, e un paio di cose vorrei dirle allora: la prima è che, se poi uno si va a leggere l’articolo, vede che l’assassino di cui si parla è una povera persona malata, che è stata condannata a tredici anni di galera per l’omicidio di una amica proprio perché gli è stata riconosciuta la malattia mentale, ne ha fatti undici e ora avrebbe bisogno soprattutto di cure. La seconda considerazione è che tutti noi, cittadini onesti, o meglio, come si definisce più realisticamente un lettore del nostro giornale “carcerario”, cittadini incensurati, viviamo, lavoriamo, andiamo in autobus ogni giorno insieme a migliaia di persone, uguali a quelle che stanno uscendo dal carcere con l’indulto, perché la nostra legislazione prevede un sistema di pene per il quale il rientro nella società è graduale, la gente comincia a uscire a un certo punto della pena attraverso i permessi premio, e poi il lavoro all’esterno, le misure alternative.

Tutti, o quasi tutti quelli che sono usciti con l’indulto, se questo nostro sistema funzionasse davvero, sarebbero già stati fuori tra noi a lavorare, ma purtroppo il sistema non funziona.

La lezione di questo indulto, che era necessario per riportare un po’ di legalità nelle carceri e insegnare, a chi la legalità non l’ha rispettata, che lo Stato invece la rispetta sempre, e se non lo fa deve scusarsi ed essere clemente, è che l’unica strada per promettere sicurezza ai cittadini è imparare ad accogliere chi esce dal carcere in modo decente, e non pensare invece che lasciare la gente in galera il più possibile e metterla fuori poi senza un percorso di piccole tappe di avvicinamento alla libertà, possa restituire alla società persone migliori.

Un’ultima riflessione la voglio invece indirizzare a me stessa e a tutti i volontari, impegnati fortemente anche sui temi del dopo carcere: noi non possiamo permetterci di farci illusioni, e di patire le conseguenti, inevitabili delusioni, dobbiamo operare sapendo che il nostro lavoro è continuamente a rischio di fallimenti, e lo sarà sempre più con queste migliaia di uomini e donne  messi fuori dalla galera “senza paracadute”. Io quando sto male penso a quello che mi ha detto un detenuto, che la pena l’ha già scontata e sta lottando per farcela davvero, a costruirsi un po’ di futuro: “La vita delle persone è talmente importante da non permetterci in alcun modo e mai di dire ‘tanto non c’è più niente da fare…’”.

L’indulto visto “da dentro”

Eravamo in 62.000, siamo rimasti in meno di 37.000: ma per favore, non gestite il carcere come se fossimo ancora in 62.000!

 

a cura della Redazione

 

Eravamo in 62.000, siamo rimasti in meno di 37.000: ma per favore, non gestite il carcere come se fossimo ancora in 62.000. Non è un gioco di parole, questo, è la cruda rappresentazione di quello che può succedere nelle carceri oggi, nonostante… nonostante il terremoto dell’indulto, nonostante non ci sia più l’alibi del sovraffollamento, nonostante i “ristretti” oggi in galera possano stare quasi larghi. Se a qualcuno è successo di dover finire un lavoro importante, una tesi di laurea per esempio, e improvvisamente di scoprire di avere ancora, poniamo, sei mesi di tempo a disposizione, c’è un rischio in agguato sempre: di ritrovarsi, passati i sei mesi, nella stessa situazione di panico, per non essere riusciti a riorganizzare il proprio lavoro. È un rischio che noi vediamo si corre fortemente in carcere nel dopo indulto, anche nelle piccole cose della quotidianità che potrebbero cambiare da subito.

 

Ripensando al carcere prima dell’indulto

 

In questi anni, da quando il problema del sovraffollamento ha iniziato ad essere quasi insostenibile, tutti quelli che operano all’interno del carcere giustificavano, e a ragione, la mancanza di qualsiasi apertura, di qualsiasi cambiamento che potesse essere a favore dei detenuti mettendo sempre davanti il problema del sovraffollamento. Per cui le modalità per i colloqui con i famigliari non potevano essere migliorate, gli spazi e gli orari per svolgere le attività didattiche e ricreative in alcuni casi nel corso degli anni sono stati addirittura ridotti, sempre per il problema che eravamo in troppi, e così gli orari.

Facciamo l’esempio di Padova: alle tre del pomeriggio “coprifuoco”, finite tutte le attività, cella e branda fino alla mattina dopo. Per quel che riguarda poi i tempi di attesa per avere una relazione comportamentale dall’equipe, sono per forza di cose lunghissimi, l’Ordinamento prevede un tempo di osservazione di 9 mesi, ma siccome si era in tanti e gli operatori pochi, i tempi si dilatavano e in alcuni casi si aspettava anche 20, 22 mesi. Gli stessi problemi c’erano nel momento in cui si chiedeva l’intervento del Tribunale di Sorveglianza per avere le misure alternative al carcere, mesi d’attesa per avere una risposta o per vedersi rinviata la discussione perché mancava qualcosa dagli incartamenti. È stato così per anni. Si sapeva bene che i tempi della galera erano lunghi, e si portava pazienza anche se a causa del sovraffollamento erano diventati eterni.

 

Fotografia del carcere dopo l’indulto

 

Il primo ragionamento da fare è che, mentre si sperava che dopo l’uscita di tanti detenuti la situazione all’interno delle carceri sarebbe cambiata rapidamente in positivo, cominciamo a sentirci delusi e preoccupati, perché qui la situazione  rischia di cambiare sì, ma in negativo. Prima di tutto in molti istituti hanno svuotato delle sezioni e raggruppato tutte le persone sfruttando solo una parte del carcere, e i detenuti si sono ritrovati ancora “ristretti”, per esempio a Padova in due in celle da uno. Certo è difficile portare un argomento del genere per dire che l’indulto non ha avuto nessun effetto: non è che siamo 12 per cella col water a vista. Bisogna vedere altre carceri, dove si viveva ai limiti dell’indecenza. Ma forse ora qualcuno crede che, dopo aver lasciato per anni cinquanta persone, dove in realtà ce ne dovevano essere non più di 25, si può continuare tranquillamente così: se per tutto quel tempo siamo riusciti a sopravvivere in quelle condizioni, perché non dovremmo riuscirci ancora? Quel che è certo però è che, pur avendo più sezioni libere, non è che per ora sono almeno migliorati i servizi come il campo o la palestra.

Intanto però hanno cominciato a tagliare i posti di lavoro, perché se le sezioni sono chiuse è chiaro che ci vogliono meno spesini, in pratica meno lavoranti, perciò tanti detenuti che avevano finalmente ottenuto un lavoro si sono ritrovati licenziati; in più, a Padova almeno, hanno avvisato che dai prossimi mesi si ridurranno le ore di lavoro anche di quelli che già lavoravano, quelli che avevano un lavoro a rotazione, che è un lavoro misero e con una paga misera di 100, 150 euro al mese, ma per il quale comunque, soprattutto gli stranieri e quei poveracci che non hanno niente, aspettavano impazientemente il loro turno di sei mesi per poter andare avanti con i soldi per le telefonate, i bolli eccetera…

 

Che cosa ci aspettiamo che cambi subito, o quasi?

 

Ci aspettiamo prima di tutto di stare più larghi. Semplice, no?

Sembra che il motivo che ha portato certi istituti a raggruppare tutti i detenuti in metà dello spazio disponibile, sia un motivo nobile, sembra che ci sia la buona volontà di ristrutturare finalmente quelle aree ormai fatiscenti e che si vogliano apportare quelle modifiche, previste dal legislatore nel Nuovo Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario, ma che in questi anni non si sono potute fare per il problema del sovraffollamento. A noi non resterebbe altro che crederci e sperare che questi lavori finiscano in fretta.

Ci aspettiamo poi alcuni cambiamenti, che sarebbero (sono) possibili da subito: per esempio, l’ampliamento degli orari e dell’offerta di attività, con l’obiettivo che il tempo buttato nella noia della cella  sia sempre meno. E poi il miglioramento delle condizioni nelle quali avvengono i colloqui con i nostri famigliari, l’utilizzo delle aree verdi, spesso chiuse per mancanza di personale, e magari qualche sperimentazione coraggiosa coma a Bollate (una stanza arredata e attrezzata per incontrarsi “quasi come a casa” con il controllo solo delle telecamere).

Dopo un cataclisma come quello prodotto dall’indulto, noi che siamo rimasti dentro davamo poi per scontato che sarebbero cambiati anche tempi e modi degli operatori, che i lunghi mesi d’attesa si sarebbero accorciati, che le risposte sarebbero state più celeri… insomma, dove prima si dovevano aspettare anche 20 mesi per la sintesi con la giustificazione che eravamo in più di 60.000, e le difficoltà di riuscire a parlare con educatori, assistenti sociali e psicologi erano enormi, adesso che siamo in 37.000 quanto meno tempo si dovrà aspettare, per avere una relazione comportamentale, o perché il Tribunale prenda in considerazione e discuta una qualsiasi nostra istanza?

Il punto è che non siamo già più sicuri che ci sarà un rapporto diverso del personale con noi detenuti, e che, per esempio, gli educatori potranno tornare a fare il loro mestiere, cioè seguire le persone detenute nel loro percorso di reinserimento, non ne siamo sicuri perché abbiamo paura che ci sia una specie di “assestamento”, che tutti continuino per inerzia a lavorare come prima, quando eravamo quasi il doppio.

 

Che cosa può cambiare, non subito ma “abbastanza presto”

 

Lavoro e salute. In carcere vanno male, male davvero. Meno del 25 per cento della popolazione detenuta lavora, poco più di mille sono stati i detenuti che, nel 2005, hanno usufruito dei vantaggi della legge Smuraglia. Ma ora si aprono nuovi spazi nelle carceri, e allora è pensabile che il Ministero, e i Provveditorati regionali, promuovano iniziative per portare nuove attività lavorative dentro.

Così come è “pensabile” che si metta mano alla situazione sanitaria, che richiede certo cambiamenti strutturali (il completamento della riforma che prevedeva il passaggio della Sanità penitenziaria al Sistema Sanitario Nazionale), ma che comunque nel frattempo può essere rivista e migliorata semplicemente perché gli utenti sono oggi poco più della metà. Magari cominciando a fare prevenzione, cosa impensabile con 62.000 detenuti, ma realistica con 37.000. E a occuparsi realmente di tutti i tossicodipendenti, e non solo dei pochi che si trovano nelle custodie attenuate.

 

La “lezione” dell’indulto: progettare il “dopo” a partire dal carcere

 

I poco più di 37.000 detenuti attuali potrebbero diventare in fretta parecchi di meno. Ci sono già in carcere intorno alle parecchie migliaia di persone che sono nei termini per una misura alternativa, più o meno tante quante ce n’erano prima dell’indulto, e se ne stavano dentro nonostante il residuo pena davvero basso. Ma per queste persone ora sarebbe possibile lavorare seriamente, cioè “prenderle in carico”, o meglio progettare con loro un graduale ritorno alla libertà, un’uscita, come ha detto il Ministro Ferrero, “governata”. È il momento allora di lavorare perché carceri, Enti locali, volontariato e Terzo settore si mettano insieme per coordinarsi, sfruttare al meglio le risorse esistenti e soprattutto diventare un punto di riferimento stabile per chi esce dal carcere. Questo è l’obiettivo: non deve più esserci nessuno che esca dalla galera in condizioni di abbandono, come è successo con l’indulto.

I nuovi mostri

Sono “quelli dell’indulto”, i detenuti che sono usciti a valanga dalle carceri e hanno riempito le pagine dei giornali d’agosto, tutti lì ad aspettare i primi reati, i primi rientri in carcere, il primo scandalo. Noi abbiamo fatto parlare “i mostri”

 

a cura della Redazione

 

“I nuovi mostri”, verrebbe da dire, se si rileggono le cronache di questi mesi sui detenuti che escono dal carcere grazie all’indulto. Al telefono dello sportello S.O.S. Indulto, allestito dal Comune di Padova e da alcune associazioni di volontariato, e gestito da noi di Ristretti Orizzonti, oltre ad arrivare persone scarcerate in cerca di una piccola opportunità per tenersi alla larga davvero dal carcere, giungono telefonate di cittadini spaventati dalla valanga di “delinquenti” che si sta riversando sulla città. E allora noi abbiamo provato a raccontare le storie di questi delinquenti, e insistiamo a spiegare che non c’è nessuna valanga, ma ci sono persone in difficoltà, questo sì, e non sempre è facile aiutarle a trovare una alternativa all’illegalità.

E quindi alcuni torneranno a commettere reati, ma sono pochi quelli che lo fanno per scelta consapevole, più spesso è l’assenza di una speranza che ributta le persone nella stessa vita che facevano prima di finire in carcere. Quindi c’è l’ebbrezza della libertà, in chi esce dal carcere, ma anche tanta paura di non farcela, come spiegano bene le testimonianze che seguono. Eppure, l’indulto non è stato un regalo, è stata una scelta necessaria per far tornare alla legalità le carceri, adesso però bisognerebbe finirla di giocare a fare le scommesse su quanti rientreranno in galera, e fare invece le cose giuste perché questo non succeda. E ce ne sono, di cose da fare, a partire da regole nuove per il lavoro, che tengano conto che chi esce dal carcere è spesso davvero un soggetto debole, per arrivare poi anche ad affrontare il problema degli stranieri, e a dare, a quelli che hanno iniziato durante la detenzione un percorso di reinserimento, una possibilità di regolarizzarsi.

Ho paura che la prossima volta mi troverò

sommerso in cumuli di condanne assurde

 

di I. Y.

 

Sono entrato in carcere un anno fa per possesso di documenti falsi. Sono un palestinese, scappato da un paese in guerra, ho girato tutta l’Europa cercando di far riconoscere il mio stato di rifugiato. Ma inutilmente. Era questo il motivo per cui avevo trovato nel documento falso una possibilità per lavorare e vivere tranquillamente, finché mi hanno arrestato e condannato a due anni e mezzo di reclusione. Adesso con l’indulto sto aspettando di uscire da un momento all’altro. Dovrei essere contento, invece la preoccupazione non lascia spazio alla felicità. Non riesco a fare a meno di pensare a dove andare e cosa fare una volta fuori. Non posso tornare nel mio paese perché so che la mia vita sarà perennemente in pericolo, mentre in Italia non ho né casa né amici.

Questa carcerazione mi ha insegnato molto, e vorrei davvero poter non commettere più reati. Vorrei trovare dove dormire e un posto di lavoro, ma non so come fare. Qui qualcuno mi ha detto che all’uscita dal carcere ci sarà la polizia ad aspettarci per consegnarci il foglio di via. E già la paura di dover vivere nell’illegalità mi fa venire l’angoscia. Mi domando se dovrò per forza ancora una volta trovare un documento falso per evitare i controlli delle forze dell’ordine, ma soprattutto per cercare un lavoro. Il pericolo è che prima o poi mi beccheranno di nuovo, e dovrò scontare l’inevitabile condanna per il possesso di documenti falsi, quella per non aver ubbidito all’ordine di espulsione e infine pagherò anche questa pena che mi è stata perdonata dall’indulto di oggi. E se questa volta in qualche modo sono sopravvissuto al carcere, ho paura che la prossima volta mi troverò sommerso in cumuli di condanne assurde. Tuttavia tra il tornare nel mio paese e rimanere in Italia con la mannaia della galera che mi pende sulla testa, credo che sceglierò la seconda, e non potrò fare diversamente.

Una libertà che qualche volta fa paura

 

di Mario Salvati

 

Oggi ci sono parecchie persone alle quali la galera non fa più paura, ma noi che da anni siamo rinchiusi questo cambiamento l’abbiamo percepito con tristezza. Da un po’ di tempo mi capita infatti di vedere ragazzi che entrano in carcere affrontare in modo rassegnato l’idea di essere rinchiusi: come se fosse un sollievo la certezza che avranno un pasto, un letto, qualcuno li vestirà e soprattutto una parola per loro ci sarà sempre! In alcuni istituti, anche se  ammassati in celle con la turca a bordo tavolo, cosa che dovrebbe intimorire ed essere motivo di ansia, beh neppure questo li spaventa davvero di fronte al nulla che hanno nella vita fuori.

Agli inizi degli anni 80 ero detenuto a Saluzzo, ricordo che c’era con me un senza dimora, uno di quelli che allora chiamavamo “barboni”, che aveva ammazzato un uomo per difendere la sua compagna. Lui ogni tanto mi parlava della sua vita fuori, non aveva nulla, non aveva una casa, la sua casa era davvero il mondo. Eppure, a tutt’oggi mi pare ancora di percepire la sua gioia nel raccontarmi di quella gran voglia di uscire che aveva, e sento ancora le sue emozioni nel desiderare con forza la libertà.

La sua era voglia di Libertà allo stato puro, era oro colato! In altri posti come la Sardegna e in altri anni (perché di galere, purtroppo, ne ho girate tante), dove le possibilità lavorative fuori erano pressoché nulle, paradossalmente in carcere si poteva ancora lavorare e molti commettevano piccoli reati per potersi guadagnare qualcosa, pochi mesi, sufficienti però per inviare a casa qualche soldo, ma quello era il gesto disperato di sacrificare la libertà per un “nobile motivo”. Oggi ci sono ragazzi che  parlano in modo “svogliato” della libertà. sono ragazzi che non hanno interessi, non reagiscono alle difficoltà e non riescono ad affrontare le fatiche di una vita sempre più precaria. Fuori  non sanno dove andare, dove vivere, qui diventa tutto più “normale”.

Io manco da 24 anni dal mondo libero, ma sono convinto che ci sia, per chi ne ha voglia, la possibilità di lavorare per sopravvivere, mi chiedo però se il problema non sia che la società esterna fa paura. E fa paura in particolare ai ragazzi cresciuti in istituti “di correzione” per  minori: il loro reinserimento nella società è duro davvero, perché in galera si sentono protetti. È diventato quasi il loro mondo di riferimento, una parola, un saluto, una compagnia al gioco, un affetto, un surrogato di famiglia. Uscire diventa quasi un problema. Sono storie, appunto, estreme. Ma se in questi giorni si sta ad osservare quelli che escono con l’indulto, in alcuni  di loro dopo la gioia per la libertà riacquistata si vede proprio la paura: fuori ci sono troppe insicurezze.

Un indulto meritato

 

di Altin Demiri

 

Un indulto meritato: so che dico una cosa del tutto impopolare, visto che subito dopo la sua approvazione i giornali, le forze di polizia e tanti cittadini si sono indignati, soprattutto perché con questo “beneficio” esce dal carcere anche chi ha ucciso. Probabilmente pure io se non conoscessi il mondo carcerario mi scandalizzerei. Ma invece mi ritrovo dalla parte di Caino, perché ho ucciso un uomo in una rissa, e sono stato condannato a 24 anni di galera. E siccome anch’io ho beneficiato dello sconto di pena di tre anni voglio dire due parole su questa legge.

In primo luogo questo sconto significa che potrò uscire solo dopo anni di carcere, e non che esco subito. Perciò quelle persone condannate per omicidio che sono uscite si erano già fatte senz’altro parecchia galera, e probabilmente godevano di benefici di legge come permessi premio o misure alternative alla detenzione. Ciò significa che potevano uscire dal carcere per lavorare durante il giorno, oppure per andare a casa in permesso, e quindi erano già in mezzo alla società libera.

Io poi rinuncerei volentieri all’indulto, se lo Stato mi garantisse i diritti sanciti dalla legge: in teoria infatti dovrei vivere dignitosamente, essere rieducato, e essere reinserito gradualmente nella società, ma siccome tutto ciò non succede, per mancanza di risorse economiche  e umane, è giusto che ci sia uno sconto di pena per tutti. 

Quelli che gridano allo scandalo probabilmente poi non sanno che le persone condannate per omicidio sono una minoranza. La maggior parte dei detenuti che popolano le carceri sono poveracci e tossicodipendenti. E la pena, invece di rieducarli, gli causa un danno maggiore poiché li costringe a vivere in modo per niente dignitoso. Nel caso degli stranieri poi spesso l’afflizione è doppia, perché alla condanna si sommano le difficoltà che derivano dal non avere nessuno vicino. Ripenso a tutti i trasferimenti da un carcere all’altro che io stesso ho vissuto: all’improvviso ti ritrovi impacchettato in un furgone blindato a viaggiare per centinaia di chilometri, e tutto ciò a causa del sovraffollamento. I primi ad essere “sballati” (nel gergo del carcere significa trasferiti) sono sempre gli stranieri, dato che gli manca quel contesto famigliare che dovrebbe in qualche modo sostenerli.

Bisogna dire poi che, nonostante quello che tanti credono,  le pene in Italia sono altissime: ecco allora che i tre anni d’indulto diventano una riduzione per certi versi irrisoria.

Ho fatto 13 anni di carcere e se dovessi far causa allo Stato italiano per quelle forme di tortura che sono le afflizioni gratuite, e per i diritti non applicati, forse la mia condanna moralmente sarebbe terminata. In realtà l’uomo si abitua a tutto, e noi non ci facciamo più caso, agli abusi. Ma voi che siete fuori non potete nemmeno immaginare come si vive in una stanza di pochi metri quadri in otto-dieci persone, e cosa significa dormire in letti a castello che arrivano fino al soffitto, e legarsi per non cadere. Stanno meglio i cani di quei vecchi canili, che spesso fanno vedere in televisione. Ecco le ragioni per cui penso di meritare questo indulto.

Paradossalmente avevo più possibilità

di reinserimento come carcerato

Perché non considerare lavoratori svantaggiati anche quelle persone che hanno appena lasciato il carcere e iniziano il loro cammino nella società?

 

di Marco Rensi

 

Sono uno delle migliaia di detenuti appena scarcerati per effetto del provvedimento di indulto. Dopo aver trascorso 15 anni in giro per varie carceri, l’ultimo periodo di carcerazione l’ho passato alla Casa di reclusione di Padova, dove ho trovato una situazione davvero migliore: un buon lavoro, grazie a una cooperativa, e la possibilità di impegnare proficuamente il mio tempo in occupazioni formative, di indubbio valore per la vita di una persona.

Pagato il mio debito con la giustizia, ora devo riprendere un posto in società. Le cooperative sociali, uniche ad offrire opportunità lavorative, si interessano ai reclusi in quanto tali, cioè in stato di detenzione. I detenuti-lavoratori sono richiesti per lavori da eseguire all’interno delle carceri, oppure per attività esterne, da farsi in regime di semilibertà o di affidamento ai servizi sociali. Infatti, sgravi fiscali sono previsti per l’assunzione di lavoratori svantaggiati. Ma l’ex detenuto non è più soggetto interessante perché è escluso da questa normativa.

Paradossalmente avevo più possibilità di reinserimento come carcerato. Tra poco sarò libero e così ho paura che avrò minori opportunità di trovare lavoro: a 46 anni, sprovvisto di referenze, la faccenda si fa ardua. Si aggiunga la mancanza di abitazione e la revoca della patente di guida, così il quadro è completo. L’indulto apre le porte a migliaia di persone nelle mie condizioni: non tutti avranno un posto dove andare o un lavoro che li aspetta. Le strutture di accoglienza, gestite soprattutto dal volontariato, sono subissate da richieste di aiuto per le più elementari esigenze: mangiare, dormire, lavarsi. Perché allora non considerare lavoratori svantaggiati anche quelle persone che hanno appena lasciato il carcere e iniziano il loro cammino nella società? Magari farli rientrare in questa categoria per l’anno successivo alla scarcerazione, così da poter accedere alle offerte di lavoro delle cooperative sociali.

L’ex detenuto, una volta uscito, altrimenti si trova a perdere anche quelle possibilità che aveva quando si trovava rinchiuso tra le quattro mura della galera. Il  termine “ex”, unito al sostantivo “detenuto”, da una parte dovrebbe indicare il superamento di una condizione sgradevole come è quella di chi sta in carcere, ma dall’altra rischia di trasformarsi in un pesante marchio.

Dopo la punizione, aiutare le persone a rimettersi in carreggiata

 

di Elton Kalica

 

Ricordo che in prima media avevo una insegnante di inglese molto severa. Era fissata per la disciplina. Se sentiva una voce, anche il più piccolo sussurro, scattava una sanzione, la cui vittima di solito ero io. Cercava con gli occhi minacciosi tra le facce spaventate dei bambini  e raggiungeva di corsa quello che secondo lei era il colpevole, cioè io. Mi alzava di peso per un orecchio e mi ordinava di mettermi all’angolo, con la faccia verso il muro, e stare su una gamba. Il carcere secondo me è un po’ questo. Lo Stato severo che punisce chi rompe l’armonia della vita sociale. Lo prende per un orecchio e lo mette in un angolo, isolandolo e impedendogli di guardare gli altri, di incontrarli o di parlare con loro. Lo scopo è chiaro: quella persona, attraverso la condanna, sarà rieducata e quindi non infrangerà più le regole. 

Io ricordo però che la mia insegnante d’inglese, alla fine della lezione, mi ordinava di rimanere in classe. Lei sosteneva che la punizione riguardava la mia libertà di stare insieme agli altri, ma non doveva voler dire rimanere indietro nel progresso scolastico. Quindi, considerato che la punizione non mi permetteva di seguire la sua lezione, lei si sentiva in dovere di rifarla soltanto per me. Ogni tanto si fermava ad aspettarla qualche altra insegnante, che a volte finiva per esprimere il suo disappunto: “Lascialo che studi da solo a casa, così impara a stare più attento…”. Ma la nostra inflessibile insegnante d’inglese rispondeva: “Questo ragazzo è stato per tutto il tempo su una gamba sola con la faccia al muro: come posso chiedergli che abbia la stessa preparazione degli altri, che hanno avuto una lezione completa, mentre lui ha sudato per la gamba indolenzita?”.

Hanno appena dato l’indulto, le pene ridotte di tre anni così parecchie persone potranno mettere giù il piede e ritornare libere. Ovviamente la punizione non sempre adempie al suo scopo, ma proviamo a pensare per un attimo che lo faccia, cioè che riesca a rieducare le persone condannate. E poi? Cosa fa questo Stato per metterle nelle condizioni di ricominciare una vita dignitosa? Poniamo che una persona esca dal carcere ravveduta, ma se nei lunghi anni di detenzione ha perso casa e famiglia, cosa può fare, senza un pasto, un letto un lavoro? Che cosa gli offre lo Stato? È giusto sì, pretendere il rispetto delle leggi, ma la giustizia sta soprattutto nel non abbandonare le persone in condizioni tali, che siano costrette a commettere reati per sopravvivere. E allora, così come la mia professoressa dopo avermi punito sacrificava il suo tempo per rifarmi la lezione, anche i governanti di questo Paese devono sacrificare le loro energie e le loro risorse per rimettere gli ex-detenuti in carreggiata. E allora sì che si può sperare di avere fatto delle persone migliori. Io, con le punizioni e le lezioni individuali, ero arrivato a diventare il migliore della classe.

Tanti detenuti sono diventati almeno per una volta “rossi”

La politica vista dal carcere

 

Quando parliamo di carcere, di nuove leggi, di vecchie e nuove emergenze, il nostro giornale non ama molto prestare attenzione alle beghe politiche, o meglio preferisce parlare di politica soffermandosi poco sui partiti, e di più sulle soluzioni che vengono scelte in un ambito così complesso, come è quello del disagio e dell’emarginazione. Certe nuove leggi, come la ex-Cirielli o la Fini-Giovanardi sulle droghe, parlano chiaro proprio sulla visione del mondo che sta dietro a certi schieramenti politici: un mondo in cui si toglie di mezzo quello che dà fastidio, o gli si impone la cura, e se la cura non guarisce c’è la galera. Ci è sembrato però interessante il punto di vista di un detenuto albanese sulla politica italiana, o meglio sulle scelte dei detenuti di preferire l’uno o l’altro schieramento politico e sul loro “tifo” per i diversi partiti.

La Redazione

Dopo l’indulto: se i detenuti potessero votare oggi,

cambierebbe qualcosa nelle loro scelte politiche?

 

di Elton Kalica

 

Spesso si pensa che i detenuti, data la loro condizione di emarginazione, abbiano preferenze politiche progressiste, cioè che si sentano in qualche modo oppressi e critichino la società ingiusta che gli nega i diritti e li costringe a vivere in condizioni poco dignitose. Sarebbe anche una cosa logica sperare di vivere sotto un governo particolarmente sensibile verso i problemi di chi si trova al livello più basso della scala sociale, e teoricamente dovrebbe spaventare invece chi si proclama difensore di chi già sta bene. Anche perché si sa che un governo conservatore tende a ridurre le risorse destinate a certi servizi come il carcere, e tende ad aumentare sempre di più l’esclusione sociale. Ma, sorprendentemente, nonostante il precedente governo abbia tagliato del 52 per cento le risorse finanziarie destinate al sistema carcerario, rendendo sempre più difficile la vita nelle galere, e nonostante le leggi come la Bossi-Fini, la ex-Cirielli e la Fini-Giovanardi stiano facendo aumentare sensibilmente la popolazione carceraria, sono molti i detenuti che credono di vivere meglio con un governo di destra.

O per lo meno si vantano di essere sostenitori di Alleanza Nazionale, di Forza Italia e a volte anche della Lega Nord. E tanti rievocano il Duce a tal punto, che spesso si vedono detenuti che, camminando lungo i corridoi, si rivolgono il saluto romano. In realtà, nella maggior parte dei casi, secondo me la scelta politica è frutto spesso di uno spirito da stadio, e dato che si trovano a dover fare il tifo per una delle squadre in campo, fanno anche su questo terreno la loro “scelta sportiva”, che è tifare per la destra. Perché questa scelta per certi aspetti bizzarra?

 

Gli stranieri

 

I detenuti italiani nel giro di pochi anni si sono trovati a dover affrontare la loro sventura in compagnia di parecchi stranieri. Hanno dovuto così condividere le disgrazie, cioè la cella, con persone che parlano una lingua sconosciuta, che hanno culture e tradizioni diverse, e che sono ugualmente orgogliose e a volte più cattive. Questo ha causato un brutta clima, fatto di molta intolleranza. Ma non è difficile capire chi è abituato a certi schemi mentali e modelli di condotta specifici della malavita, e tutto d’un tratto si trova costretto a convivere con della gente che ignora totalmente questa realtà, e anzi, spesso si oppone. Ecco che è naturale che nasca un forte odio, più che razziale, culturale da parte dei detenuti italiani verso quelli stranieri. E, dopo aver ascoltato i tanti comizi della destra italiana contro gli immigrati, i detenuti italiani hanno le idee chiare su di chi sia la colpa  di tutto ciò. Allora avanti a fare il tifo per chi, se potesse, sparerebbe ai gommoni che portano tutti questi stranieri sulle nostre coste. E “fan’culo quei quattro comunisti che stanno aprendo le porte e riempiendo l’Italia di mao-mao. Che poi finiscono qui in carcere a rompere i c. a noi altri”.

 

La magistratura

 

Quando uno viene punito è quasi istintivo odiare quello che ha emesso il verdetto. Se uno ti pesta il piede sull’autobus, spesso ti lamenti e imprechi contro di lui anche se certo non l’ha fatto apposta, è superfluo quindi ogni commento sul fatto che il brontolare del detenuto è spesso indirizzato al giudice che l’ha condannato. Anche perché le pene in Italia sono pesantissime rispetto a quelle di altri paesi dell’Unione Europea, ragione per cui quasi tutti si sentono condannati in modo sproporzionato. Questo fenomeno semplice si unisce però a quello più complesso che è l’accusa, che viene fatta da più parti, di politicizzazione della magistratura italiana, e non sono pochi i media che parlano di cospirazione dei magistrati comunisti contro i nuovi imprenditori della politica, o di persecuzione bolscevica che i magistrati operano contro l’attuale leader del centrodestra. Allora il detenuto medio italiano pensa: i giudici mi hanno condannato caricandomi ingiustamente di anni di carcere; i giudici sono chiaramente comunisti, visto che attaccano a colpi di avvisi di garanzia quel poveraccio della Mediaset; ergo, io che odio i magistrati comunisti devo per forza detestare anche i politici comunisti, e, dato che quell’altro si trova a combattere come me contro la giustizia boia, devo necessariamente essere di destra.

 

Le leggi emergenziali

 

Pochi sono i detenuti italiani che ricordano le idee politiche di Gozzini, il senatore che ha preparato la legge che porta oggi il suo nome, mentre sono tanti invece quelli che accusano la sinistra di aver fatto le leggi emergenziali che hanno escluso diverse categorie di detenuti dai benefici penitenziari, e ad altri hanno allungato i tempi per potervi accedere. Una convinzione abbastanza diffusa nelle carceri è che si tratta di una vendetta dei magistrati, cioè, la ragione di questo accanimento dello Stato è il fatto che i mafiosi non hanno mai dato i voti ai comunisti, mentre l’emergenza è tutta inventata. È un dato incontestabile comunque che le leggi emergenziali del 1991, fatte passare in un momento storico particolare, con la scusa della “War on mafia”, hanno inasprito sia le pene che il regime carcerario, spesso passando sul filo dell’illegittimità costituzionale. E dato che la legge è generale, anche altri condannati si sono ritrovati ad essere trattati alla pari dei mafiosi, pur non essendo tali, e questo intervento del legislatore, e l’inevitabile aggravarsi delle condizioni dei detenuti, ha portato come conseguenza diretta un forte risentimento verso quei “magistrati comunisti”. Quindi dimenticandosi che le leggi progressiste degli anni Ottanta le hanno fatte quelli della sinistra, tanti detenuti trovano giusto biasimare quei comunisti che poi hanno tagliato i rami a queste leggi. E allora forza destra.

 

Un epilogo inaspettato

 

Ma qualcosa è cambiato oggi. Sorprendendo tutti, un governo della sinistra è riuscito a far approvare un atto di clemenza, dopo sedici anni dall’ultimo indulto. Questo governo, a differenza di quello precedente che temeva di dispiacere alle sue varie componenti più forcaiole, ha deciso di usare il muso duro con gli oppositori interni della coalizione, che non volevano un atto di clemenza, ed è andato avanti  rimanendo fermo nella convinzione del rispetto dei diritti umani. Spinti dall’idea che dietro le sbarre ci sono degli esseri umani che vengono trattati disumanamente, gli esponenti della sinistra, cioè quelli che tanti detenuti chiamano i comunisti, hanno realizzato un risultato che è portatore di grandi valori, come la solidarietà, il rispetto per la dignità umana e la giustizia sociale. Questo ha però scombussolato i sentimenti di quei detenuti che si sono sentiti per quindici anni in dovere di essere anticomunisti. Qualcuno ora si è ripromesso di farsi un tatuaggio di Che Guevara su un braccio, altri hanno deciso di fare un altarino a Mastella vicino alla statua della Madonna, ma per me, a prescindere dall’entusiasmo del momento, la cosa più importante è che almeno per una volta tanti detenuti sono diventati rossi, non per le convinzioni politiche ma dalla vergogna di aver odiato per anni quei pochi e soli politici che continuano ad avere a cuore la causa dei più deboli, dei più poveri e dei più emarginati.

Un ospedale pieno di malati abbandonati

a se stessi senza medici né infermieri

Questa è la galera oggi. E la lezione da trarre dall’esperienza dell’indulto è che i detenuti escono dal carcere ogni giorno, anche senza i provvedimenti di clemenza, e spesso escono incattiviti dalla detenzione

 

di Graziano Scialpi

 

L’Italia è un paese che vive di emergenze. Non fa nulla per prevederle ed evitarle. Le attende con ansia e trepidazione e, quando finalmente si verificano, cerca di porvi qualche rimedio raffazzonato. Almeno nel caso dell’indulto, tuttavia, l’emergenza che si è creata potrebbe rivelarsi utile, sempre che si sia capaci di trarne gli insegnamenti giusti.

I migliaia di detenuti che sono stati scaraventati sulle nostre strade con i loro pochi averi custoditi in un sacchetto per le immondizie, senza un soldo in tasca, senza lavoro, spesso senza una famiglia e una casa a cui tornare sono balzati agli onori delle cronache solo perché lo stillicidio quotidiano di questi “ritorni in società” è stato concentrato in una piena durata pochi giorni. All’improvviso le città italiane sono state invase da una massa di disperati che non sapevano né come mangiare, né dove andare a dormire e le istituzioni si sono scoperte in grave difficoltà nell’affrontare il problema. I mass media, al solito, si sono concentrati sui pochi casi eccezionali di recidiva immediata, facendo leva sulle paure della gente. Quasi nessuno si è posto il problema di come mai questa massa di disperati, tutti sotto i tre anni di pena e quindi ampiamente nei termini previsti dalla legge, non usufruiva di quei famigerati “benefici automatici”, come spesso li definisce la stampa, quali permessi e semilibertà, che avrebbero consentito loro di prepararsi gradualmente al ritorno in libertà, di lavorare, di avere qualche risparmio da parte, stabilire qualche contatto, di trovare qualche punto di riferimento per reinserirsi in modo meno traumatico.

Ma il punto su cui vorrei portare l’attenzione è un altro, e lo farò partendo da un esempio molto meno eclatante di quello che potrebbe sembrare. I primi giorni di agosto una notizia ha occupato le prime pagine di tutti i giornali e dei telegiornali: a San Daniele del Friuli un uomo, appena uscito dal carcere grazie all’indulto, è stato arrestato per aver cercato di strangolare la moglie. L’inespresso sottinteso della notizia era: la colpa dell’increscioso episodio è da attribuirsi al provvedimento di clemenza che ha messo in libertà quel violento. Tutto chiaro e semplice.

Ma è davvero così semplice? No, non è così semplice se si utilizza la corretta chiave di lettura per quello che è accaduto. Innanzitutto l’uomo in questione sarebbe comunque tornato in libertà a novembre e, quindi, l’indulto non ha fatto altro che anticipare di soli tre mesi quello che, con ogni probabilità, sarebbe comunque accaduto. In secondo luogo la domanda fondamentale che avrebbero dovuto porsi i giornalisti è la seguente: “Durante la carcerazione, quest’uomo è stato seguito da qualcuno? C’è stato qualche psicologo o qualche educatore che ha parlato a lungo con lui e si è accorto dell’odio e del rancore che covava dentro di sé? C’è stato qualcuno che ha cercato di farlo sfogare verbalmente, di farlo ragionare, di fargli cambiare idea? C’è stato qualcuno che, accortosi della sua sofferenza interiore e della sua determinazione a vendicarsi, non riuscendo a farlo uscire dalla ossessiva spirale di pensieri distruttivi, abbia perlomeno messo in guardia la moglie e le forze di polizia locali?”.

A queste domande si può rispondere con relativa sicurezza: no, non è stato fatto probabilmente nulla di tutto questo. Non è stato fatto niente di quanto prevedono le normative e il regolamento penitenziario. E non è stato fatto perché mancano le figure professionali, quali psicologi ed educatori, e i pochi che ci sono possono dedicare solo minimi brandelli di tempo alla massa di persone affidate loro. Mancano i soldi, mancano gli spazi, manca la volontà politica di fare qualcosa. Così quell’uomo di San Daniele è stato lasciato solo, in una cella sovraffollata a rimuginare il suo rancore, a coltivare il suo odio che cresceva autoalimentandosi, fino al giorno assai vicino in cui, indulto o non indulto, sarebbe comunque uscito. Altro che rieducazione.

 

È assurdo ed antieconomico rinchiudere una persona in una cella e confidare che si ravveda da sola

 

Bisognerebbe ringraziare l’indulto che ha portato alla ribalta delle cronache questo episodio esemplare, che forse sarebbe passato inosservato sulle pagine di cronaca locale. Ma sembra che nessuno sia stato in grado di coglierne l’importante messaggio che nascondeva. Tutti si sono fermati solo alla superficie. Eppure l’insegnamento che la società potrebbe trarre da quanto è accaduto in agosto è importantissimo. I detenuti escono dal carcere ogni giorno, anche senza i provvedimenti di clemenza, e spesso escono senza soldi, senza un lavoro, senza una casa a cui tornare, incattiviti dalla detenzione. Come evitare che tornino a delinquere se gli strumenti atti a favorire un loro reinserimento graduale non vengono usati? Come evitare che tornino subito a spacciare o a rubare se non esistono strutture che li aiutino a trovare un lavoro, un pasto caldo e un tetto sotto cui dormire quando vengono scaraventati in  strada a fine pena? Come evitare che durante la carcerazione si incrudeliscano, traendo la forza di tirare avanti nei pensieri di vendetta e rivendicazione?

Nel corso del Meeting di Rimini dello scorso agosto, il Magistrato di Sorveglianza di Padova, Giovanni Maria Pavarin, ha usato un’immagine molto efficace per descrivere il suo primo impatto con il carcere: un ospedale pieno di malati abbandonati a se stessi, senza medici né infermieri.

Per rimanere nell’ambito della stessa metafora, la lezione che la società e le forze politiche dovrebbero trarre dall’esperienza dell’indulto è che non si possono curare i mali sociali semplicemente rinchiudendoli tra quattro mura di cemento e dimenticandosene. Se si vuole perseguire una maggiore sicurezza, se si vuole ridurre la recidiva, se si vuole attuare il dettato costituzionale che prescrive la rieducazione del reo, bisogna porre maggiore attenzione al carcere.

Bisogna investire denaro ed energie. Bisogna portare medici e infermieri in quelle corsie del disagio sociale dove certamente alcuni resteranno comunque “incurabili”, ma molti si potrebbero salvare se si facesse qualcosa. È assurdo ed antieconomico rinchiudere una persona in una cella e confidare che si ravveda da sola. Senza attività costruttive, senza personale preparato e disponibile ad ascoltare e a sollecitare il colloquio, senza una necessaria “convalescenza” dei benefici di legge che aiuti e guidi gradualmente il rientro nella società normale, il detenuto trova solo i muri di cemento a fare da sponda ai suoi rancori e  alle sue distorsioni. Muri che rimbalzano questi rancori, amplificandoli in un’eco infinita che non fa altro che rafforzarli, trovando riscontro nei rancori e nelle distorsioni dei compagni di prigionia. E il giorno, inevitabile, in cui questa persona verrà improvvisamente scaraventata fuori, difficilmente sarà migliore di quando è entrata. Sarà incattivita, vendicativa e rivendicativa nei confronti di una vita dalla quale è stata tenuta fuori e che brama recuperare in fretta, costi quel che costi.

La lezione che la società avrebbe dovuto trarre da quanto è accaduto nelle scorse settimane è che le emergenze, almeno per quanto riguarda il carcere, si potrebbero evitare governando con più investimenti e più senno la grigia quotidianità.

Pensando a quella madre che ha paura del figlio scarcerato

L’indulto ha scatenato paure e ansia, ora si tratta di far capire che rompere l’isolamento e la solitudine di chi esce dal carcere significa anche lavorare per la sicurezza di tutti i cittadini

 

di Stefano Bentivogli

 

Il provvedimento di indulto, questo in particolare che arriva dopo oltre 15 anni di fallimento di qualsiasi ipotesi di clemenza, rappresenta in genere, per i detenuti e per i loro familiari, un evento che produce gioia, sollievo, speranza soprattutto, perché può significare ripartire con una vita nuova che si lascia alle spalle spesso fallimenti, disastri, danni a volte irreparabili.

La realtà sappiamo tutti che non è proprio così, non è l’indulto che risolve tutti i problemi anzi, spesso è solo un evento che anticipa lo scontrarsi con le situazioni critiche, che sono le stesse che hanno portato proprio alla detenzione con tutti i problemi connessi. Quelli che negano questo dato di fatto, questi rischi insiti nell’indulto, e non sono pochi, fanno inconsciamente il gioco di quanti invece sono e restano contrari, in ogni caso, a qualsiasi provvedimento di clemenza, e che stanno lì ad esercitarsi, come si trattasse di uno sport, nella conta di tutti quelli che commettono subito un reato, senza neanche aver assaggiato l’aria della libertà.

C’è quindi un lato della medaglia, sulla questione indulto, per la quale andrebbe fatta una riflessione e lo spunto potrebbe essere l’appello, riportato da vari quotidiani e televisioni, della madre di un tossicodipendente che tornerà in libertà usufruendo dell’indulto. Questa signora ha chiesto di poter andare in carcere lei, piuttosto di dover avere di nuovo a che fare col figlio dal quale ha subito violenze, minacce, umiliazioni di ogni genere.

Non è difficile capire il dramma di questa donna e la sua esasperazione, è quasi impossibile non schierarsi dalla sua parte di vittima, soprattutto quando “il reo” è il figlio di 47 anni che è riuscito a trasformare un rapporto quale quello familiare in una prigione di ricatti e violenze di ogni genere, solo ed esclusivamente per il suo stato di tossicodipendenza.

Occorre fare però uno sforzo in più, ma questo non è richiesto alla signora in questione, non si possono chiedere ulteriori fatiche a una persona che finora ha solo subito di tutto, probabilmente senza poter difendersi in alcun modo. Lo sforzo va richiesto ai mezzi di informazione che, riportando il legittimo sfogo, la disperazione di questa donna, senza inquadrare la situazione emotiva di questo caso, arrivano a mettere in discussione un provvedimento di clemenza quale l’indulto. Ma è evidente che una madre che chiede, a fronte della scarcerazione del figlio, di essere messa in carcere lei non fa altro che mostrare, tramite un paradosso provocatorio, la gravità di una situazione che non ha nulla a che vedere con l’indulto in sé. E però tutto questo va spiegato, e non lasciato in maniera equivoca all’interno del “paginone” dedicato all’indulto, quasi potesse rappresentarne uno degli effetti negativi, utili ad avvalorare l’opinione di quanti al provvedimento di clemenza sono sempre stati contrari.

Il fatto è che, indulto o meno, la madre si sarebbe probabilmente ritrovata con lo stesso problema. Il vero punto in discussione è, io credo, la capacità del carcere, del sistema penale in genere, di adottare strategie che oltre al punire, siano anche mirate ad indurre al cambiamento, alla riflessione, alla crescita della persona sotto tutti gli aspetti. Non si tratta di desideri di chi scrive, è quanto la Costituzione indica negli obiettivi della pena.

Se quest’uomo tossicodipendente di 47 anni viene ora scarcerato per effetto dell’indulto questo significa che comunque, anche senza il provvedimento di clemenza, entro poco avrebbe riottenuto la libertà lo stesso, e sfido chiunque a dimostrare che il tempo che altrimenti avrebbe passato dietro le sbarre gli sarebbe stato di qualsiasi giovamento. Per lui comunque vale quanto è previsto per tutti gli altri: se tornerà a commettere reati e sarà condannato, dovrà scontare anche il periodo che gli sarà condonato con questo indulto. Quindi, ogni volta che un politico si prende la responsabilità di prevedere il ritorno scontato all’illegalità di chi esce dal carcere grazie all’indulto, dovrebbe per correttezza aggiungere che questo comporterà l’obbligo di scontare in carcere tutto il periodo che gli era stato condonato.

Altra questione è poi, a quanto almeno si capisce dai giornali, la causa della pericolosità di questa persona. Sembra veramente, e non ho grandi difficoltà a crederci, che tutto sia legato alla necessità di soldi per pagarsi gli stupefacenti di cui è dipendente. Siamo quindi in quella categoria di criminalità particolare, che ha la specificità di essere indotta all’illegalità non per un comportamento mirato a ledere la libertà altrui, né per violenza tesa all’appropriazione di beni altrui per farne ricchezza illecitamente propria: si tratta di “bisogno” di droga,  necessità morbosa di una sostanza della quale si è diventati dipendenti e dalla quale non si riesce (in quel momento) a liberarsi.

 

Cosa si vuole sostenere? Che i tossicodipendenti vanno tenuti in carcere finché non “guariscono”?

 

La madre di quest’uomo non è che una delle vittime di una situazione assolutamente paradossale, uno degli anelli di una catena di perdenti che è ben più lunga di quello che si immagina. A monte c’è una pseudo-morale, piena di contraddizioni, che colloca alcune sostanze, tra le tante nocive a livello sanitario e sociale, nell’illegalità e quindi le rende causa di sanzioni che diventano sempre più spesso di tipo detentivo. In questa catena di vittime, legate solo da solitudine e disperazione, c’è chi arriva ad atti estremi: figli che da innocui studenti diventano piccoli ma incalliti criminali, che  distruggono i rapporti con i genitori e l’intera famiglia fino a compiere atti di violenza che hanno il sapore tipico della follia, della perdita di controllo, della disperazione, ma ci sono anche genitori che hanno ucciso i figli a causa della incapacità di affrontare la loro tossicodipendenza.

Il problema quindi è serio e trovo avvilente che i mezzi di informazione lo usino all’interno della discussione sulla questione indulto. Cosa si vuole sostenere? Che i tossicodipendenti vanno tenuti in carcere finché non “guariscono”, quasi si trattasse di persone affette da una malattia quale l’influenza o la tosse? Oppure che un tossicodipendente che ha commesso un reato non ha diritto a beneficiare della stessa clemenza di chi magari ha truffato, corrotto, o addirittura, senza essere dipendente dalla sostanza stupefacente, si è arricchito spacciandola? Credo che si rischino delle vere e proprie assurdità, dettate solo dalla solita paura di affrontare la questione della legalizzazione degli stupefacenti, che non può poi che essere legata ad un’attività di prevenzione e cura fatta seriamente, finalmente insieme alle persone a rischio o già consumatori problematici. Oggi si preferisce ancora la clandestinità ipocrita che lascia soli tutti, tossicodipendenti e persone che vivono attorno a loro, aspettando alla fine che arrivi la galera che diventa per assurdo un sollievo, pur sapendo che è (fortunatamente) temporanea e che è spesso dannosa e controproducente.

Ma è inutile perdersi ora in una discussione sulla legalizzazione quando questa signora di 68 anni e suo figlio sono arrivati, come cadendoci dentro, a questa situazione ed hanno bisogno di risposte immediate: l’indulto anticipa la scarcerazione di tantissime persone che avranno bisogno immediato di aiuto, loro ed i loro familiari. E allora perché ci si limita a riportare lo sfogo disperato di chi questo problema lo vive in modo drammatico, e purtroppo ci si dimentica che non è l’escludere dall’indulto tutte le persone con problemi di questo genere che risolverà tali situazioni?

Abbiamo alle spalle un ventennio di fiducia nella penalità detentiva, con un’applicazione che arriva a carcerizzare più persone possibile e per più tempo possibile. Oggi siamo arrivati a partorire un provvedimento di clemenza per alleggerire queste sacche stracolme di disperazione senza uscita che sono diventate le carceri, e bisogna ringraziare il cielo che almeno questo è stato fatto. Forse però è meglio anche cominciare a riflettere in maniera diversa, ripartendo da politiche sociali dove il cittadino è soggetto di tutela nelle sue difficoltà e non di esclusione, magari mascherata da medicalizzazione operata in condizioni di detenzione o simili.

Questo indulto quindi, potrebbe essere un banco di prova dove le comunità locali, le associazioni, i gruppi, ma anche tutti quanti cominciano a capire che è necessario il coinvolgimento personale, si mettono in azione per attivare quanto possibile, facendo pressione sui servizi pubblici, ma anche sul volontariato e sul privato sociale, affinché si evitino quei disagi che rischiano di rendere scontate le ciniche previsioni di chi è contro l’indulto e, soprattutto, non muove mai un dito per far andare le cose in modo diverso. Ma la signora che vuole andare in carcere per proteggersi dal figlio è ancora lì a chiedere provocatoriamente al ministro Mastella di risolverle il “problema”. Certo a me verrebbe da dire che le cose sarebbero andate diversamente se si fosse affrontata la questione a suo tempo, dico quando per esempio Cusani e Segio idearono un piccolo “piano Marshall” che mirava proprio a creare le migliori condizioni per una situazione di questo tipo.

Ma i discorsi col “se” non servono a niente, oggi serve immediatamente che questa signora e suo figlio non siano lasciati soli, che già dagli istituti di pena si lavori con urgenza per individuare quantomeno gli altri casi che necessitano di assistenza urgente, che su questi si mettano insieme pubblico e privato non nella logica di aspettare che queste persone si facciano vive a chiedere aiuto (quando avviene  in genere è già tardi), ma per intercettarle subito, sapendo che per molti, stranieri in testa, il problema della dimora sarà il primo bivio che indirizza verso l’illegalità o meno.

 

La guerra che bisogna cominciare a combattere seriamente è quella alla solitudine e all’abbandono

 

Alcune realtà si sono messe in moto rapidamente, anche se è inevitabile che i mezzi di informazione mostrino solo quel lato della medaglia che fa sembrare l’indulto una dannazione.  Bisognerà allora stimolare tutti, a meno che il cinismo non abbia divorato qualsiasi speranza e fiducia sulle possibilità dell’uomo di migliorare, ad abbandonare le pietose predizioni di fallimento di tante vite che possono rientrare in libertà e a lavorare perché, con qualche piccolo aiuto e disponibilità, per più persone possibile si aprano veramente opportunità nuove e positive.

Questa signora che chiede di andare in carcere deve finalmente trovarsi supportata da enti, associazioni, singole persone, che le facciano dimenticare le proposte provocatorie dettate solo dalla paura e dalla disperazione, e che  mettano in condizione lei, e suo figlio naturalmente, di affrontare con fiducia, razionalità e coraggio nuovo, una situazione che per quanto grave può diventare più gestibile, e può aprire strade nuove da percorrere con il massimo di tutele possibili, sia per la persona tossicodipendente che per la madre, e senza quel clima di inutile terrorismo proibizionista che ha portato tanta sfiducia e solitudine in più, oltre che una disperazione che non lascia spazio a tentativi di razionalizzazione.

Oltre a questa signora che ha fatto tanto scalpore, ma che, purtroppo, non è stata presa come stimolo da raccogliere con urgenza ma ha dato spazio a tanti cinici e tristi commenti che non saranno mai di aiuto per nessuno, ce ne sono molte altre, c’è chi madri non ne ha proprio, ed è forse soprattutto a questi silenti ed invisibili del condono che occorrerà andare incontro. A volte non sono nemmeno tossicodipendenti, sono i tanti  “impresentabili” quelli di cui ci si era scordati prima di arrestarli, che sono stati “dimenticati” per qualche anno in cella, e che ora sono pronti a rientrare nei dimenticatoi delle nostre città.

C’è una guerra che bisogna cominciare a combattere seriamente, la guerra alla solitudine, all’abbandono, le malattie più gravi di questi tempi, ed è una guerra dove non si possono dividere semplicemente buoni e cattivi. La divisione è piuttosto tra persone che qualche possibilità e qualche relazione ce l’hanno ancora e quanti invece, e sono tantissimi, alla loro solitudine e abbandono possono solo affiancare qualche malattia cronica, disturbi mentali e soprattutto lo stato di “inesistenza sociale”. Una condizione che parte dal non aver dimora, lavoro, documenti, permessi di soggiorno, ma soprattutto uno straccio di relazione umana, unico carburante per ora insostituibile, indispensabile a prevenire la conseguente morte sociale.

Quello che vorrei raccontare in fine è l’indulto per come lo si incontra per le strade, uomini e donne con questi sacchi neri della spazzatura, in gran parte senza i soldi per il bus e tanto meno per il treno, gruppetti di gente che ha aspettato quel momento come se rappresentasse la fine di una grande sofferenza e l’inizio dei tanti progetti fantastici che si fanno dietro le sbarre per continuare a credere, per continuare a vivere a volte.

Non c’è il biglietto del treno, i dormitori tamponano la situazione, nel migliore dei casi, per pochi giorni, perché sì, poi anche col biglietto a volte manca una destinazione, si parte da zero, da quel sacco che contiene tutta la propria esistenza. Spesso ci si è scambiati indirizzi con promesse di aiuti, ma da dentro a volte si fantastica di buone intenzioni che fuori svaniscono, si tenta allora con gli amici di un tempo e la scoperta è che ci si trova ad aver a che fare spesso con vecchi, gli amici sono stati consumati dal tempo e da una vita che è andata avanti, inesorabile, sopra i sentimenti, più veloce degli affetti.

Io credo veramente che sarà importantissimo quanto le reti di volontariato riusciranno a fare, pur in un clima di emergenza e con un’opinione pubblica incitata a remare contro, a non lasciare scampo a chi esce dalla galera con l’indulto. E  di questi 20.000 e più ci sarà comunque chi ce la farà, tanti o pochi che siano rappresenteranno il fatto che non esiste niente di preordinato, semmai esistono condizioni che favoriscono il reinserimento oppure altre che lo ostacolano, compreso l’atteggiamento dei mezzi di informazione. La responsabilità sociale nei confronti della pubblica sicurezza non significa tanto carcere, carcere duro, segregazione senza dialogo, ma possibilità di mediazione dei conflitti, scambio, percorsi di crescita delle persone e, dove è possibile, dove le condizioni lo rendono possibile, perdono.

“Perdono” è diventata una parolaccia che genera astio, rabbia ed io credo che grande responsabilità sia proprio in chi si occupa di informazione e, facendo di tutto spettacolo, compresi i sentimenti a caldo delle vittime, trasforma la possibilità di pratica di un valore, altissimo quanto veramente difficile, in una cosa impossibile, negativa, quasi ingiusta. Ma un’altra giustizia è possibile, e non sono poi così pochi a crederci.

L’indulto è stato una grande fortuna, anche per l’informazione…

Quando “caccia al recidivo” e “registro della disperazione” stanno fianco a fianco nelle pagine di cronaca dei giornali del “dopo indulto”

 

di Francesco Morelli

 

Facciamo una piccola prova di memoria: chi si ricorda delle notizie di cronaca dell’agosto scorso? E dell’agosto 2004? Per quel che riguarda il tema “giustizia”, con il dibattito politico sospeso per le vacanze, si leggevano spesso titoli di questo tenore: “Allarme criminalità…”, “Invasione di clandestini…”, “Sicurezza dei cittadini a rischio”, e così via. Necessità di riempire le pagine o vera emergenza? (il numero dei reati denunciati lo scorso agosto era addirittura più basso di quelli denunciati ad aprile e maggio…). Quest’anno la varietà dei titoli si è arricchita grazie all’indulto. Per fortuna. È stata una grande “fortuna” – oramai insperata – per decine di migliaia di condannati (oltre ai 20mila e più usciti dalle galere, almeno 100mila tra affidati, agli arresti domiciliari e in sospensione pena per la legge Simeone-Saraceni).

È stata una grande fortuna anche per il Ministero della Giustizia, dichiaratamente a rischio di paralisi operativa (e bancarotta) a causa della mostruosa ipertrofia del sistema penale che, negli ultimi 15 anni, ha visto raddoppiare il numero dei detenuti e decuplicare quello dei condannati in “area penale esterna” (senza la legge Simenone-Saraceni, del 1998 – che consente a chi ha meno di 3 anni di pena di chiedere l’affidamento ai servizi sociali senza entrare in carcere – avremmo avuto qualcosa come 200mila detenuti…). E non è finita: i processi penali in attesa di definizione sono circa 5 milioni! Lo spettro della bancarotta, nonostante l’indulto, incombe ancora sul “sistema giustizia” e renderebbe necessario il ricorso ad un’ampia amnistia.

Le dichiarazioni del Ministro della Giustizia sono chiarissime: “Il Ministero e gli uffici giudiziari non hanno soldi per pagare la luce, il riscaldamento, la carta, il toner per le fotocopiatrici e i fax, l’assistenza, la manutenzione degli edifici... ci si trova costretti a chiedere ai fornitori di fare credito, senza sapere quando si riuscirà a pagare il dovuto che, via via, aumenta per il cumulo degli interessi… il livello del debito è tale che solo nel 2005 sono state pignorate somme del Ministero pari a 14.721.857,18 euro…”.

Ma la fortuna è capitata pure al mondo dell’informazione. Basta dare un occhio ai titoli e titoletti sul dopo-indulto, magari un po’ ripetitivi, che in questi giorni fioriscono inesorabili sulle pagine di quotidiani e periodici: si è creato un filone doppio di notizie, abbastanza “trasversale” rispetto all’orientamento politico del giornale. Da una parte c’è la “caccia” al recidivo, al recordman del rientro in carcere, al “lupo… che non perde il vizio”: qualcuno sta già facendo statistiche al riguardo e, finora, sembrerebbero attestate sull’1,9 per cento di rientri. Magari la media rimanesse questa, significherebbe una recidiva – calcolata nell’arco di cinque anni – di molto inferiore alla attuale. Finora il reinserimento ha funzionato per il 20 - 30% di chi esce dal carcere…

Ma dall’altra parte si è aperto un fronte nuovo, sul quale si sono trovati a lavorare assieme redattori dell’Unità e della Padania, di Redattore Sociale e della Stampa, sia pure con ovvie diversità nei toni e nelle intenzioni. Tutti quanti hanno iniziato a “registrare” le contraddizioni, le difficoltà, a volte la disperazione di chi è uscito dal carcere con l’indulto. Che poi sono i problemi di ogni ex detenuto, soltanto che in queste settimane sono diventati un “fenomeno di massa” e, quindi, sono diventati “NOTIZIA”. Sta facendo notizia il tossico che muore di overdose appena uscito (eppure, dopo mesi e anni di astinenza forzata e di assistenza psicologica spesso quasi inesistente in carcere, non dovrebbe meravigliare nessuno).

Sta facendo notizia l’extracomunitario che riceve il “foglio di via”, anche se magari prima dell’indulto aveva ottenuto la semilibertà, lavorava e rigava dritto (eppure la legge sull’immigrazione, con l’ultima stretta targata Bossi-Fini, non lascia scampo ai pregiudicati stranieri: c’è l’espulsione obbligatoria, per quasi tutti i reati, e anche prima dell’indulto ne hanno fatto le spese migliaia di persone).

Sta facendo notizia la solitudine, l’emarginazione, l’incapacità di ricominciare a vivere “nel mondo libero” di tanti ex detenuti, italiani e stranieri, che dopo anni di galera si ritrovano soli al mondo, provati nel corpo e nello spirito, e vedono come unica soluzione quella di buttarsi da un ponte, o sotto un treno, oppure – assurdamente ma non tanto – di chiedere al carcere di riprenderli, perché solo lì sanno vivere, “al riparo”, sollevati dall’assillo della sopravvivenza quotidiana… nulla di nuovo, per chi si occupa del reinserimento dei detenuti.

Ecco, grazie all’indulto questo ha cominciato a “fare notizia”… speriamo continui a farla anche dopo che il tema “indulto” sarà passato negli archivi. Il carcere continua ad esserci, le persone continuano a viverci… e a uscirne… prima o poi, con l’indulto o senza. Tante volte l’informazione “a senso unico” complica ulteriormente la vita a chi tenta di reinserirsi nella società, ma la fortuna che ci è capitata con l’indulto non sarà del tutto dispersa se i giornalisti sapranno per lo meno conservare questa duplice visione del dopo-carcere.

 

La “caccia al recidivo”

 

Usciti in 16mila, ne rientra uno ogni ventiquattro ore (Il Cittadino)

Esce dal carcere con l’indulto, trovato con un fucile e arrestato (Corriere Veneto)

Libero con l’indulto, torna dentro per un nuovo furto (Il Resto del Carlino)

Libero per indulto. Arrestato per scippo (Corriere Veneto)

Esce dal carcere e ruba in Comune (La Provincia Pavese)

Era uscito con l’indulto. Aggredisce una ragazza (Corriere della Sera)

Escono di cella con l’indulto: subito arrestati per spaccio (Il Resto del Carlino)

Indulto, dopo 15 giorni torna in cella per furto (Corriere della Sera)

Libero grazie all’indulto, due rapine in mezz’ora: arrestato (Il Mattino di Napoli)

Effetto indulto: in manette 22enne accusato di estorsione (La Gazzetta del Mezzogiorno)

Libero con l’indulto, denunciato per droga (Corriere della Romagna)

 

Il “registro delle disperazioni”

 

Allarme per gli scarcerati, tra suicidi e overdose (L’Unità)

Bussa al carcere: voglio tornare nella mia cella, qui sto meglio (La Padania)

Liberata con l’indulto, muore di overdose dopo due settimane (Il Gazzettino - Udine)

Dopo l’indulto si fa riarrestare per scappare dal fratello (La Tribuna di Treviso)

Gli stranieri escono dal carcere e trovano un ordine d’espulsione (Redattore Sociale)

Gli ex carcerati perdono il lavoro (Il Sole 24 Ore)

Esce con l’indulto e va sotto un treno, forse è suicidio (Ansa)

Un ex detenuto: dove vado? Ho 66 anni e sono solo (Il Messaggero)

Libero da 24 ore trovato morto, forse per overdose (Ansa)

Scarcerato al mattino tenta il suicidio la sera stessa (La Stampa)

Gli ex detenuti chiedono lavoro in piazza (La Sicilia)

Con l’indulto hanno lasciato la galera persone

con tante, troppe difficoltà

 

di Nicola Sansonna

 

Quando ormai non ci credeva più nessuno, ma soprattutto con una celerità da lasciare tutti spiazzati è stato concesso questo indulto, di cui godrò, fortunatamente, anch’io. Normalmente sono impegnato, da detenuto che lavora all’esterno, nella gestione dello sportello di “Avvocato di strada”, un servizio di assistenza legale gratuita per i senza dimora, che è stato coinvolto, insieme ad alcune associazioni di volontariato, dall’Assessorato alle Politiche sociali del Comune di Padova nell’organizzazione di uno Sportello per le persone uscite con l’indulto, e che si chiama, non a caso, SOS Indulto, viste le emergenze disperate a cui cerca di dare risposta.

Da questo particolarissimo punto d’osservazione abbiamo cercato, volontari e operatori, di capire davvero le esigenze diversissime delle persone che hanno finito così bruscamente di scontare la pena, per poi dare delle risposte concrete, senza creare illusioni (e so bene quanto sia facile, dopo la gioia di essere di nuovo liberi, “bruciarsi” a confronto con una realtà molto diversa da quella che avevamo lasciato al momento dell’ingresso in carcere). Dove andare a dormire, dove mangiare, schede telefoniche per contattare i familiari, ticket di viaggio per chi non ha i soldi per tornare a casa: queste sono le piccole risposte che riusciamo a dare.

Se la situazione degli italiani non è rosea, per gli stranieri poi è spesso al limite della sopportazione umana. Tra i casi che stiamo seguendo ce ne sono alcuni che spiegano bene che, più che feroci criminali, con l’indulto hanno lasciato la galera persone con tante, troppe difficoltà. Mi viene in mente quello che ci ha detto un ragazzo tunisino, Mohamed: “Appena sono uscito dal carcere mi girava la testa perché non sapevo né cosa fare né dove andare, così mi sono seduto a duecento metri dalla galera come inebetito”. Qualcuno fortunatamente gli ha consigliato di passare allo sportello. Ora ha l’obbligo di firma, non può lasciare il territorio nazionale, ha bisogno di una sistemazione lavorativa, ma intanto ha un posto per dormire e pasti alle Cucine Popolari.

Abbiamo incontrato poi un tunisino che ha scontato 13 anni di galera, e ora ha deciso che la scelta più saggia è tornare al suo Paese, ma non ha passaporto e in questo clima di allarme perenne difficilmente trova un imbarco se non ha i documenti a posto. Lo abbiamo aiutato ad andare all’ambasciata e, grazie all’interessamento dell’Assessorato alle Politiche sociali, potrà avere un biglietto aereo per la Tunisia. Altro caso è quello di un ragazzo marocchino con la famiglia in Italia ma con l’espulsione, ora ci stiamo attivando per cercare una soluzione da un punto di vista legale, e forse c’è qualche spiraglio per lui e per i suoi cari per non finire inesorabilmente separati. Un altro ragazzo, malato di diabete, non aveva l’insulina, ma quando gliel’hanno data è subito saltato fuori un altro problema, che l’insulina va tenuta in frigo e lui naturalmente vive in condizioni di assoluta precarietà.

Per quel che riguarda il lavoro, sono in tanti ad aver bisogno di trovare un’occupazione solida, ora stiamo raccogliendo i loro dati e li segnaleremo ai servizi sociali, alle cooperative, alle aziende artigianali, sperando che la città risponda, e cercando in breve tempo una soluzione vera che dia la possibilità a chi ha le carte in regola di iniziare una vita normale. Una vita fatta di lavoro, di impegno, ma anche della bellezza della libertà riconquistata, dell’autodeterminazione, della voglia di ricominciare e rimettersi in gioco, facendo, si spera, tesoro degli errori passati.

 

 

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