Parliamone

 

Quando un gruppo di criminali decide di fare qualcosa di utile

Difficile racchiudere in un’unica formula la bizzarra alchimia che ha consentito

a un gruppo di galeotti di dare vita e far crescere una realtà ormai apprezzata in tutta Italia

 

di Graziano Scialpi

 

Cinquanta numeri e nulla è cambiato. Certo sono aumentate la competenza e la professionalità, ma il dato di fondo rimane: la redazione di Ristretti Orizzonti continua a pullulare di simpatici farabutti. Un branco di canaglie che una volta nella vita, in forza di qualche misteriosa alchimia, ha deciso di usare la propria intelligenza e le proprie capacità non per combinare guai, ma per fare qualcosa di utile e costruttivo per se stessi e per gli altri. E la cosa più stramba è che ci hanno preso pure gusto a farlo.

Il senso comune dice che a tirare fuori dalle celle una ventina tra pregiudicati e pluripregiudicati recidivi con sul groppone qualche secolo di condanne complessive e a metterli in una stanza sotto il “controllo” di una sola donna non ne può venire nulla di buono. E invece ne sono saltati fuori un ottimo giornale, un sito internet completissimo, tre libri pubblicati, e poi guide per detenuti e per insegnanti, ricerche, convegni, progetti per aiutare i senza fissa dimora, prevenzione della devianza nelle scuole e chi più ne ha più ne metta… A pensarci bene non sembra molto logico, ed è ancora più incredibile se si considera che, per partecipare a questa avventura, molti hanno rinunciato a un lavoro retribuito, e tutti rinunciano alle ore d’aria e alla possibilità di andare al campo sportivo e alla palestra. Eppure è innegabile che è quello che è accaduto e accade quotidianamente.

Qual è il segreto di tanta proficua laboriosità da parte di persone, molte delle quali non hanno mai lavorato in vita loro? Forse è solo la voglia di fare qualcosa di utile senza piangersi addosso, o forse è stato il sentirsi responsabili per la fiducia accordata, forse è stata la voglia di continuare (o per molti di esserlo per la prima volta) in qualche modo a essere parte attiva della società pur essendo rinchiusi dietro le mura di un carcere… Chissà, forse è qualcosa nell’acqua o nell’aria di Padova… Difficile trovare un’unica spiegazione per una realtà il cui successo è reso ancora più sconcertante dal fatto che si è verificato non in una delle capitali italiane, ma alla periferia “dell’impero” (più volte abbiamo scherzato in redazione sul fatto che anche noi facciamo parte della “locomotiva Nord-Est”).

Certo è che in questi anni in redazione si è instaurata una disciplina e un’etica del lavoro di gruppo che viene “tramandata” dai “vecchi” redattori ai nuovi arrivati che magari, come spesso è accaduto, avevano chiesto di entrare a far parte di Ristretti solo per uscire dalla cella e che poi si sono “innamorati” di questo lavoro mettendoci tutto il loro impegno. A tal punto che spesso il lavoro viene portato anche “a casa”. Grazie al nuovo Regolamento penitenziario, molti redattori possono disporre ora di un computer portatile che consente loro di lavorare anche in cella, dilatando a dismisura la produttività possibile nelle poche ore in cui è possibile scendere in redazione.

Un altro punto di forza di Ristretti, che in questi anni non è cambiato, è che in tutti i dibattiti, in tutte le discussioni che si fanno in redazione, si cerca sempre di tenere ben presente anche gli altri punti di vista. Ovvio che Ristretti Orizzonti è un giornale del carcere, fatto da carcerati e che parla di problemi del carcere, ma non dimentichiamo mai che ci sono anche le vittime dei reati, che ci sono regole ed esigenze sociali, che ci sono le leggi e le esigenze della sicurezza. Questo è un aspetto talmente importante del lavoro che un redattore (il sottoscritto) si è arrogato lo specifico compito di far sì che non venga mai dimenticato.

Oltre alla grafica, infatti, la mia specialità è “sostenere l’altro punto di vista”. Quando la redazione si riunisce intorno al lungo tavolo per discutere qualche argomento o problema particolare io fingo di avere qualcosa di importante da fare al computer, oppure mi aggiro sornione per la stanza e aspetto con aria distratta il momento giusto. Non appena si crea un certo consenso intorno a un’opinione mi “risveglio” improvvisamente e piombo nel dibattito con la delicatezza di un avvoltoio, ergendomi a granitico difensore dell’opinione diametralmente opposta. Così, anche se di tanto in tanto devo difendere il punto di vista del carcerato (di solito non ce ne è bisogno, la redazione è gremita di carcerati decisi a sostenere il loro peculiare punto di vista), il più delle volte indosso i panni del Ministro della Giustizia, dell’Opinione Pubblica, del Magistrato di Sorveglianza del Direttore e lancio i miei strali senza pietà. Secondo alcuni, con questo sistema metterei alla prova la bontà dell’opinione in questione, portandone alla luce le pecche e le contraddizioni che erano sfuggite nel dibattito e costringendo i suoi sostenitori a difenderla con le unghie e con i denti.

Secondo altri (tutti gli altri tranne me), lo farei semplicemente per rompere le scatole.

Ristretti mi ha aiutato ad affrontare una pena che non offriva Orizzonti

Frequentare un’attività come quella della redazione ed entrare quindi

in quotidiano contatto con persone che vengono “da fuori”

è un potente incentivo a riappropriarsi della propria vita

 

di Marino Occhipinti

 

Detenuto dal 1994, sono stato trasferito in questo istituto nel 2000. La prima richiesta che già allora rivolsi alla “mia” educatrice – pur rendendomi conto che non poteva essere accolta – fu proprio quella di partecipare alle attività della redazione di Ristretti Orizzonti. Domanda respinta (visto che la mia condanna all’ergastolo comportava anche la pena accessoria di nove mesi di isolamento diurno, sette dei quali ancora da scontare), ma che sta a indicare almeno quanto sia radicato e oserei quasi dire antico il mio interesse per questa rivista.

In Ristretti mi ero imbattuto infatti fin dal suo primo numero (giunto nel mio precedente carcere di straforo, grazie a un’intraprendente volontaria) e poi avevo continuato a procurarmelo, perché interessato dai temi che trattava ma forse più ancora dal tono con cui quei temi venivano di volta in volta affrontati: si avvertiva infatti, nelle pagine della rivista, una volontà di approfondimento che superava la denuncia fine a se stessa e la lamentela, ingredienti prevalenti se non unici nelle altre pubblicazioni carcerarie che mi era capitato di leggere in precedenza. L’obiettivo (sempre più chiaro di numero in numero, ma già implicito nella scelta stessa di una testata provocatoriamente contraddittoria: cosa c’è di meno “ristretto” di un “orizzonte”?), era evidentemente quello di far respirare la galera oltre le mura che la contengono, dimostrando che una più o meno lunga permanenza dietro le sbarre può trasformarsi in un’opportunità di crescita umana e culturale se non si consente all’istituzione carcere di spegnerti, oltreché di punirti.

Quando finalmente cessò il mio periodo di isolamento diurno e potei finalmente avere accesso alle cosiddette “attività trattamentali”, mi affrettai a rinnovare la mia richiesta di entrare a far parte della redazione con convinzione ulteriormente rafforzata. A spingermi, probabilmente, erano motivazioni più confuse di quelle che mi inducono ancora oggi, dopo tre anni e mezzo abbondanti, a continuare a impegnarmi con entusiasmo e determinazione in quest’avventura. Credo però che una cosa mi fosse ben chiara, già allora: che da solo non ce l’avrei fatta a sopravvivere a una pena apparentemente senza “orizzonti” come la mia, e che Ristretti mi dava la possibilità di uscire dal mio guscio annichilito e di confrontarmi con altri, detenuti e volontari, in un progetto comune, che sarebbe cresciuto nella misura in cui ciascuno di noi vi contribuisse con il meglio del suo impegno e della sua intelligenza. Una sfida, certo; ma anche un atto d’amore, di rinnovata fiducia in me stesso e negli altri.

 

La differenza tra un carcere dove entrano i volontari ed un carcere “chiuso” è abissale

 

Prima di venire qui a Padova avevo conosciuto – e vissuto sulla mia pelle per sei interminabili anni – un tipo di galera del tutto “impermeabile” alla cosiddetta società esterna, tant’è che solo nell’ultimo periodo avevano iniziato a entrarvi, grazie all’impegno di Fra Beppe Prioli, alcuni volontari che gestivano un corso di legatoria, uno di chitarra e… null’altro. Si trattava di un primo, timido tentativo di aprire le porte al mondo esterno che tuttavia ebbe un effetto salutare per i detenuti, fino allora abituati a oziare fra lunghe partite di scopa all’asso o tornei di ping-pong. In pratica, in quell’istituto, per anni le uniche possibilità di contatto con il mondo esterno si erano limitate a qualche raro incontro con gli operatori penitenziari (rigorosamente di sesso maschile) e ai colloqui con i familiari.

In un carcere così rinserrato in se stesso, privo di attività trattamentali che comportino la presenza costante di volontari, i detenuti sono costretti di fatto a trascorrere almeno venti ore al giorno chiusi in cella, in una castrante monotonia illuminata soltanto – almeno per chi ha una condanna non troppo pesante da scontare – dalla consolatoria prospettiva del fine-pena, che prima o poi comunque arriverà. In un carcere dove entrano i volontari, invece, si ricomincia a respirare con i polmoni del mondo esterno, perché la loro stessa presenza ha l’effetto di rompere il circuito chiuso dello spento tran-tran quotidiano, aiutando i detenuti a riappropriarsi di se stessi e della propria voglia di sentirsi cittadini di un mondo che ha chiuso a chiave i loro corpi, è vero, ma non le loro intelligenze e tantomeno le loro anime.

Per rendersi conto di quanto sia vivificante l’aria fresca che ogni giorno entra in carcere attraverso i volontari, è sufficiente osservare quanto le sezioni ci mettano poco a tornare amorfe e stantie nei giorni di chiusura delle attività, e in particolare di domenica e, peggio ancora, in occasione delle prolungate chiusure festive. Gente che quando frequenta le attività si rade, si passa il gel sui capelli e indossa con piacere i suoi capi migliori, quando è costretta a languire in cella fa fatica perfino a pettinarsi e s’infila addosso il primo straccio di tuta che gli capita a tiro. E chissenefrega di “farsi belli”, se non si può fare altro che tirar sera fra le quattro mura ottuse della propria cella! Frequentare qualche attività, ed entrare quindi in quotidiano contatto con persone che vengono “da fuori”, non è insomma un “diversivo” – sia pure salutare – ma una sfida al proprio orgoglio e un potente incentivo a riappropriarsi della propria vita, imponendosi degli impegni da rispettare, dei programmi da perseguire, delle scadenze da onorare.

 

Il confronto è importante per facilitare lo sviluppo di una coscienza critica

 

Prima ancora di entrare a fare parte del gruppo di Ristretti, per un breve periodo frequentai il laboratorio di legatoria e mi capitava praticamente ogni giorno di passare davanti alla redazione. Vedendola regolarmente affollata di persone impegnate in discussioni anche accese, mi ponevo sempre la stessa, stupita domanda: “Ma cos’avranno da dirsi questi qui, per riunirsi tutti i giorni?”. Una domanda destinata a restare senza risposta fino a quando, alcuni mesi dopo, entrato anch’io a far parte della redazione, non mi ritrovai risucchiato in quel clima di discussione permanente, spesso accanita e talvolta addirittura infuocata. Solo allora mi resi conto di quanto sia importante – per far maturare le proprie idee e comunicarle proficuamente all’esterno – farle uscire dal loro guscio e metterle a confronto con quelle degli altri; e solo allora cominciai a capire che il lavoro di redazione – e in special modo di una redazione fatalmente “ristretta”, come la nostra – consiste prima di tutto nell’affrontare ogni tema, anche il più scottante, con apertura mentale totale, liberandosi da ogni pregiudizio e soprattutto dai propri, che generalmente sono i più duri a morire.

Poi, soltanto in un secondo momento, viene la parte “tecnica” dell’attività redazionale: che consiste nello scrivere articoli (e prima ancora nell’imparare a scriverli, che è nient’affatto facile) e nel confezionarli graficamente in una rivista ordinata, accattivante e ben equilibrata nel succedersi delle sue varie parti. Ma il momento di “sblocco”, di uscita dal proprio particolare, è comunque di gran lunga il più importante, specie per persone come me – e come la gran parte di noi – che hanno alle loro spalle storie che le hanno segnate in profondità e più o meno lunghi periodi di carcerazione “blindata”. Non ci si deve stupire, perciò, se basta un nulla per innescare dibattiti anche molto accesi: chi non conosce il carcere, per esempio, troverebbe senz’altro singolare che, recentemente, siamo riusciti a discutere animatamente anche di un argomento apparentemente risibile come il fatto di dover fare la doccia con le mutande addosso. Ma ragionare sul carcere, e sulla nostra vita in carcere, vuol dire anche mettere a fuoco queste apparenti “scemenze”, perché la nostra quotidianità è scandita da un succedersi ininterrotto di apparenti “scemenze” di cui occorre comunque avere consapevolezza, se non si vuole accettare di vivere da automi: anch’esse fanno parte della “pena”, e il fatto di doverle comunque subire non deve esentarci dal vederle con senso critico.

Ovvio però che la partecipazione alla discussione, e l’infervoramento, raggiunga livelli molto più alti quando si affrontano temi più gravi e talvolta drammatici: quando, parlando per esempio di un grave fatto di cronaca, siamo fatalmente portati a confrontarci con il nostro passato, magari con i nostri stessi reati, sconfinando talvolta in “revisioni critiche” tutt’altro che rituali, perché non richieste ma frutto di una nostra personale volontà di capire e di approfondire, a volte anche “contro” noi stessi; oppure quando la discussione verte su temi intimi e spudoranti, come la negazione della sessualità e tutto ciò che essa comporta nella vita di persone sane e perlopiù nel pieno della propria vitalità.

 

Un’impresa che, oltre a rendere più sopportabile la galera, mi ha aiutato a crescere, umanamente e culturalmente

 

Ormai sono uno dei “vecchi” della redazione, perché per (sua) fortuna di tanto in tanto qualcuno ci lascia per passare a “miglior vita” (magari anche solo l’articolo 21 o la semilibertà, in attesa della libertà tutta intera). Il mio “debutto” avvenne quando era in stampa il Numero d’Argento, il 25°, e ora partecipo da veterano alla preparazione di questo Numero d’Oro, il 50°. Un traguardo davvero notevole per una rivista nata e cresciuta in carcere, per iniziativa di un pugno di volontari e di detenuti e con un budget di partenza talmente risicato che – come ha candidamente ammesso poco tempo fa uno dei fondatori della rivista (forse perché “il reato è ormai prescritto”?) – per spedire uno dei primi numeri al Papa si dovette utilizzare una busta e un francobollo “riciclati”.

Neppure ora navighiamo nell’oro, per carità, ma siamo divenuti una realtà forte, consolidata, credibile, ed è questo soltanto che per noi conta. E che mi spinge – se devo trarre un bilancio personale da quest’esperienza – a provare un senso d’orgoglio per il lavoro che siamo riusciti a fare tutti insieme, detenuti e volontari, senza mai lasciarci scoraggiare dalle difficoltà e dalle incomprensioni che naturalmente non sono mancate, come sempre accade nelle cose della vita. E, con l’orgoglio, c’è in me anche la gratitudine per Ornella e per le tante persone che, in ruoli diversi e magari in tempi diversi, hanno partecipato con me a un’impresa che, oltre a rendermi più sopportabile la galera, mi ha aiutato a crescere, umanamente e culturalmente.

La mia speranza, ma in fondo anche la mia convinzione, è che questa mia e nostra crescita interiore si rispecchi nel nostro giornale, e che esso diventi sempre più capace di interpretare l’impegno e la passione civile di chi lo scrive e di chi lo legge.

50 numeri e tanta, tantissima galera

Attualmente siamo ventuno detenuti a lavorare in redazione e, sommando le condanne, si superano i duecentocinquanta anni di galera, senza contare un ergastolo. Questo è dovuto anche alla presenza di un buon numero di stranieri, che alza di molto la media delle condanne

 

di Elton Kalica

 

Fare un giornale dal carcere non ha niente di nuovo. Decine sono le testate sparse tra le carceri italiane, giornali che sono prodotti rigorosamente da detenuti, poi redatti e stampati con l’aiuto dei volontari. Ma fare un giornale che raggiunga il suo cinquantesimo numero senza alcuna interruzione ha certamente qualcosa di straordinario, visto che pochi ci riescono. In realtà, tanti giornali non solo non hanno avuto la nostra fortuna di sopravivere così a lungo, ma addirittura parecchi tentativi sono falliti sul nascere, oppure si sono spenti dopo appena qualche numero. Quante volte abbiamo visto, felicemente, nascere giornali carcerari ricchi di storie interessanti e di idee, e poi, con rammarico, li abbiamo visti puntualmente chiudere.

Noi di Ristretti conosciamo bene le cause, e, se dobbiamo cercare di trovare qualcuno, o qualcosa, a cui imputare questi spiacevoli effetti ci risulterà assai semplice. Basta andare per esclusione. Sicuramente non si può puntare il dito contro il lavoro dei volontari. L’Italia è un paese di volontari dove ogni città, o paesino che sia, ha un’associazione di volontari che opera nel sociale, e vi sono sempre più numerosi quelli che sono attivi all’interno del carcere più vicino: sono persone sempre disposte ad aiutare il prossimo, ma anche cariche d’inventiva e capacità umana. Perciò, se un giornale non riesce a prendere il volo, oppure cade appena decollato, non è certo per la cattiva organizzazione dei volontari.

L’altra variabile che rimane da considerare sono i detenuti. Sono loro l’anima, da cui il giornale prende l’energia per sopravvivere, perché sono loro il motore che produce la pregiata informazione, mentre i volontari sono certamente dei buoni timonieri, che non si possono però esprimere al meglio senza una macchina funzionante. Ma allora, se è colpa dei detenuti se tanti giornali si sono eclissati, cosa abbiamo di diverso noi di Ristretti Orizzonti, e altri giornali come noi, che portiamo avanti una nave così “inaffondabile”? Sarà la nostra bravura, la volontà, la passione o che altro?

Sicuramente queste caratteristiche ci sono – di certo non sono mancate nemmeno a quelle persone che ci hanno creduto, e che poi hanno visto fallire i propri tentativi – ma in realtà la verità è un’altra, e molto semplice. La corazza della nave Ristretti Orizzonti è fatta di anni di galera. Di persone che portano insieme sul groppone centinaia di anni di galera, e che hanno deciso di investirli in un modo produttivo. Prima di tutto in se stessi per rafforzarsi le spalle e la mente, e poi sul lavoro della redazione per mantenere in vita il giornale dedicandogli passione e amore, con la convinzione di fare la cosa giusta.

Fare un giornale in un carcere giudiziario, dove si entra e si esce con il ritmo delle stagioni, comporta naturalmente difficoltà logiche. A meno che non capiti un arresto in massa di giornalisti, o di gente ben istruita e con la voglia di passare le giornate in redazione, le probabilità del buon esito del giornale sono minime. Un carcere giudiziario non è l’ambiente ideale per fare nascere un giornale, poiché la gente vi fa poca galera, e passa quel breve periodo d’isolamento combattendo con le ansie dell’attesa, e le angosce del processo. In questo modo, i tentativi dei volontari di mettere su un’attività si rivelano sempre dei lavori basati sul brevissimo tempo, e condizionati dalla composizione momentanea della popolazione detenuta.

Alla Casa di reclusione di Padova, fino a qualche tempo fa, veniva mandato chi aveva una condanna superiore ai cinque anni, e solo da questa massa di condannati è potuta emergere quella dozzina di persone che hanno fondato Ristretti Orizzonti. Un dato certo è che, mettendo insieme le loro sentenze, si superavano i duecento anni di galera, con in più qualche ergastolo: un ingente capitale “immobile” da investire con profitto in qualsiasi attività.

 

Oggi, guardando indietro, vediamo le centinaia di anni di galera che hanno portato nella redazione i detenuti

 

Però c’è da tenere in considerazione anche un dato assai rilevante. Con grande consapevolezza noi detenuti siamo riusciti a togliere tutti questi anni all’ozio della branda e del televisore a colori, e abbiamo trovato il coraggio di sbatterli con franchezza intorno ad un tavolo per sfruttarli con lo studio e con il lavoro, sono stati questi due momenti importanti che ci distinguono da tanti altri nostri compagni di sofferenza che continuano a trovare difficile abbandonare le telenovele, e i talk show.

Tuttavia, non si può negare che questa nostra esperienza ha, in seguito, contagiato decine di persone. E lo fa tuttora. Ma, purtroppo, i detenuti coinvolti potevano essere molti di più, conosco delle persone intelligenti e con una notevole quantità d’anni di galera da fare, ma che non sono riuscite a rinunciare alla propria branda, o semplicemente non sono abituate a regalare il proprio tempo, sicuramente per niente prezioso, a un ideale che, di conseguenza, paga soltanto idealmente.

E gli stranieri, ringraziando i loro misfatti e la “generosità” dei giudici nel dare gli anni di pena a iosa, hanno accumulato abbastanza galera da diventare spesso delle colonne portanti per Ristretti Orizzonti

L’altra fortuna della nostra redazione è stata quella di non essere mai rimasta vuota. A riempirla sono stati italiani, albanesi, romeni, turchi, tunisini, marocchini, e quasi tutti hanno messo insieme quella tolleranza conosciuta solamente da chi ha fatto tanti anni di carcerazione, con l’obiettivo di fare una corretta informazione, di produrre un buon giornale.

Attualmente siamo ventuno detenuti a lavorare nelle attività di Ristretti Orizzonti e, sommando le nostre condanne si superanno i duecentocinquanta anni di galera, senza contare un ergastolo. In realtà, questo è dovuto anche alla presenza di un buon numero di immigrati, che alza di molto la media delle condanne, ed è un elemento che va a rafforzare l’importanza che gli anni di galera giocano nella vita del nostro giornale, soprattutto per quanto riguarda il coinvolgimento degli stranieri.

Superare dapprima le difficoltà che comportano sia la lingua italiana sia la mentalità e la cultura, per poi formarsi, e acquisire abbastanza competenze da poter lavorare in un giornale, significa impiegare degli anni. E gli stranieri di Ristretti Orizzonti, ringraziando i loro misfatti e la generosità dei giudici nel dare gli anni di pena a iosa, hanno accumulato abbastanza galera da diventare spesso delle colonne portanti per Ristretti Orizzonti. Affianco agli italiani, i detenuti stranieri hanno imparato a scrivere articoli, a curare le pagine web, a impaginare il giornale, a organizzare la spedizione e a fare perfino interviste per corrispondenza: difficile trovare, in un carcere giudiziario, persone con la capacità di svolgere questi compiti, sicuramente vitali per un giornale, se non si ha il tempo di insegnarglielo.

Oggi si festeggia il cinquantesimo numero del nostro giornale, indubbiamente una fonte di soddisfazione per chi vi ha contribuito per anni. Certo che le feste di anniversario ti lasciano sempre un retrogusto amaro, perché si pensa al tempo andato.

Noi di Ristretti Orizzonti oggi, guardando indietro, vediamo le centinaia di anni di galera che hanno portato nella redazione i detenuti, e ci rallegra solo l’idea di avere avuto la fortuna di essere capitati in un carcere dove i tanti anni di galera creano la condizione giusta per produrre un giornale importante, ma certo se penso che potevo capitare in un Paese dove i giudici danno gli anni di pena con il contagocce e dove i detenuti li espiano per la maggior parte in misure diverse dal carcere, l’amarezza è grande.

Più che un lavoro un’esperienza di vita

Su quel PC avrò passato un milione di ore! A volte mi sembrava di assomigliare a Leopardi con il suo studio matto e disperatissimo, ma a forza di provare e riprovare ho imparato a costruire pagine Web, a fare i Cd-Rom e poi i siti Internet: così è nato www.ristretti.it

 

di Francesco Morelli

 

Ristretti Orizzonti esiste da oltre otto anni: più che un lavoro è un’esperienza di vita, attraverso la quale ho potuto tirare fuori delle risorse che erano sotterrate nella stupidità e soprattutto imparare tante cose nuove. Per tentare un bilancio di questi otto anni devo distinguere il periodo trascorso “dentro” dal 1998 al febbraio 2004, rispetto agli ultimi diciotto mesi, nei quali sono stato ammesso al lavoro esterno. All’interno del carcere la nascita della redazione ha significato per tutto il gruppo, non solo per me, l’apertura di spazi di relazione e apprendimento fino ad allora sconosciuti, almeno a Padova. I riconoscimenti ovviamente non c’erano ancora, quindi il fatto di partecipare a quella attività era una bella scommessa, voleva dire rinunciare alle ore d’aria e anche ai lavori “domestici” assegnati dall’amministrazione, visto che gli orari coincidono, in cambio di una possibilità remota… molto remota.

Comunque io mi divertivo, in particolare nel conoscere i compagni stranieri, che aiutavo a scrivere, in italiano, le loro fantastiche e fantasiose storie di emigrazione: Imed, Nabil, Tarad, Abdul e tanti altri… Nel 2000 ottenni una borsa lavoro (2.500.000 lire) e spesi tutto per comprare un PC portatile. Era appena uscito il nuovo regolamento penitenziario, che consente di tenere il “portatile” in cella, e fui forse il primo detenuto d’Italia ad averne uno. Su quel PC avrò passato un milione di ore! A volte mi sembrava di assomigliare a Leopardi con il suo studio matto e disperatissimo, ma a forza di provare e riprovare ho imparato a costruire pagine Web, a fare i Cd-Rom e poi i siti internet: così è nato www.ristretti.it.

A novembre 2001 ottengo il primo permesso premio, dopo 12 anni di detenzione, ma con altri 18 da scontare, per partecipare ad un convegno nazionale dei giornali dal carcere a Firenze. Nei due anni successivi, alterno il lavoro in redazione a permessi, comunque legati all’attività, ed a Venezia, dove ha sede l’associazione editrice del giornale (Il Granello di Senape), costruisco il sito internet, per l’associazione stessa e per la cooperativa “Il Cerchio”, che ad essa è strettamente legata.

Nel 2003, l’associazione vince il “Premio Nazionale della solidarietà” e andiamo a ritirarlo al Quirinale dal presidente Ciampi. C’è il presidente del “Granello di Senape”, il presidente della cooperativa “Il Cerchio”, Ornella, che coordina la redazione, Giulia, una compagna detenuta a Venezia ed il sottoscritto: forse è la prima volta che dei detenuti entrano al Quirinale… E il giornale è stato determinante nella scelta di darci il premio, ecco i riconoscimenti che nel 1998 erano inimmaginabili!

 

Il mondo è una prigione che ci siamo costruiti da soli

 

Febbraio 2004: vengo ammesso al lavoro esterno e apre la nostra sede nel mondo “fuori”. La mia vita cambia di colpo: la sera rientro in carcere, però la sezione semiliberi assomiglia ad un dormitorio più che al braccio di un penitenziario. Qui i compagni hanno altri problemi molto simili a quelli delle persone libere, gli alti e bassi con mogli e fidanzate, il carovita e gli stipendi che non bastano mai, le faccende giudiziarie passano in secondo piano. Un po’ alla volta, anche per me, cambiano le priorità, gli orizzonti mentali, oggi non me la sentirei di scrivere un articolo su problemi strettamente carcerari, perché non sono più così centrali per me, non mi coinvolgono tanto intimamente da spingermi a sviscerare certe riflessioni. Per forza di cose il rapporto con la redazione interna è diverso, viviamo in mondi diversi ed io non posso fingere di essere un volontario, che in qualche modo fa da anello di congiunzione tra il fuori e il dentro. Il dentro l’ho sperimentato abbastanza a lungo per avere bisogno oggi di guardare altrove, e non è certo il mondo della moda, o altre realtà simili, quello che mi interessa!

Il mondo che ho trovato fuori è fatto di povertà e solitudine sempre più diffusa, di lavoro incerto, di prospettive zero, anzi sotto zero… So bene che per chi sta dentro queste parole contano poco, perché la sola cosa importante è di poter uscire: la pensavo anch’io così! Ma ho cambiato idea in fretta. Sul numero zero del giornale avevamo scritto “Il mondo è una prigione, ma una prigione modello”. Penso che avremmo potuto scrivere anche così: “Il mondo è una prigione che ci siamo costruiti da soli”.

Un’esperienza nata dall’incontro di tante culture,

e nutrita di cibo diverso da quello della “casanza”

In redazione abbiamo imparato a discutere di tutto ciò che per pudore,

rassegnazione, tabù, senso dell’opportunità, spesso viene taciuto

 

di Nicola Sansonna

 

Sono uno dei soci fondatori di Ristretti. E Ristretti è certamente qualcosa di anomalo, che va spiegato. È una rivista nata da un progetto editoriale in continua evoluzione, all’interno di quel mondo carcerario, che invece è sempre simile a se stesso, ma se stimolato in maniera intelligente permette la crescita di esperienze veramente interessanti. Cinquanta numeri di Ristretti sono un traguardo notevole, ma ancora sono tante le cose da dire e da fare, e noi proveremo a farle.

Molti amici fuori dal carcere sostengono che lavorare in carcere, per il carcere, proporre attività, portare dove è possibile al suo interno frammenti della sociètà più sensibile, equivale a legittimare l’uso che si fa del carcere stesso. Io però non condivido questa linea di pensiero, che ha pure una sua nobile fondatezza, perché mi domando quale sarebbe allora la soluzione, se persone come i volontari che hanno contribuito a fare “Ristretti” a partire da una redazione dentro la galera avessero deciso di non fare niente in carcere per non “puntellare” con la loro attività l’istituzione penitenziaria. Dovrebbero lasciare marcire e crepare nell’inedia e nella depressione chi ha la sfiga di esserci finito dentro, magari per un reato grave, o magari solo perché si è comprato un pezzo troppo grosso di fumo? Certo è illegale. Come illegale dovrebbe essere la violenza, la disperazione, la povertà, l’esclusione sociale, che sicuramente fanno anche più danno.

In carcere poi trovi lo sfigato che, convinto di fare il colpo della sua vita, se la rovina del tutto, come ci trovi anche il grande malavitoso. Vuoi invece trovare il politico corrotto, i bancarottieri, i grandi evasori fiscali, quelli che non pagano i contributi alle colf, agli operai, quelli che sfruttano la miseria assumendo in nero i clandestini, pagandoli con un posto letto in una baracca e qualcosa da mangiare e buttandoli per strada quando non gli servono più? Siamo spiacenti, di queste ultime categorie il carcere è poco provvisto, gente fortunata… loro.

Chi ha soldi sta bene dappertutto, anche in carcere riesce a rendersi la vita meno schifosa, e certamente ci resta dentro il meno possibile, mentre gli sfigati ci crepano! Oppure si fanno la loro galera con dignità e rassegnazione, o tentano di reagire studiando, impegnandosi. Molti invece proprio non ce la fanno, alcuni, e sono parecchi, si suicidano, impazziscono, si auto-lesionano, nel migliore dei casi si rincoglioniscono, io mi metto in questa categoria, se fosse vero il contrario non avrei certo scontato tutta questa galera… anche se ciò è frutto delle mie scelte sbagliate… forse era più conveniente darsi alla politica, rende molto di più e in carcere si va molto di rado (con tutto il rispetto per i politici onesti, penso che sugli altri, i disonesti, si possa ironizzare, anche perché una delle caratteristiche di Ristretti è appunto l’ironia, e l’autoironia, che non sfocia mai nella critica volgare fine a se stessa).

 

Siamo qui, 50 numeri dopo quel primo incontro tra quattro persone intorno ad un tavolo di scuola elementare carceraria

 

Al carcere si può cercare di reagire, ma con intelligenza! Questo è il messaggio che ha portato Ristretti nelle carceri italiane: obiettività per quanto è possibile, moderazione nei toni, ironia ed autoironia ma soprattutto forza nei contenuti e determinazione nel raggiungere gli obiettivi. Ristretti è nato in carcere dall’incontro di persone con culture ed estrazioni sociali diverse, e si è nutrito, come un bambino avido di cibo “diverso” da quello che passa la “casanza”, della cultura e dell’intelligenza di chi viene dall’esterno, a partire da Ornella Favero, che è stata con alcuni di noi fra i “soci fondatori” di Ristretti. Le nostre litigate sono state proverbiali, il confronto è sempre stato aperto a 360 gradi su tutto ciò che si può affrontare francamente in una discussione, ma anche su tutto ciò che per pudore, rassegnazione, tabù, senso dell’opportunità, spesso non viene affrontato. Noi abbiamo cercato di fare del nostro meglio, anche se non sempre è stato semplice.

Molti gli amici incontrati sulla nostra strada, molte anche le critiche, i tentativi di metterci in difficoltà. Ma… siamo qui, 50 numeri dopo quel primo incontro tra quattro persone intorno ad un tavolo di scuola elementare carceraria in un’aula affollata tra ragazzi di tutte le nazionalità che ritagliano giornali per farne una rassegna stampa. Siamo qui con la nostra carica emotiva e la nostra gioia e voglia di fare. Ed anche se so che i ringraziamenti e le leccatine subdole da Ristretti sono banditi, dico grazie a chi ci ha sostenuti sin dal primo momento. Ai nostri lettori ed a tutti quelli che come me si illudono, sperano, credono davvero che un altro mondo è possibile!

Ristretti è stato da subito anche una nostra creatura

Un percorso che mi ha aiutato a uscire dalla “galera dentro la galera”,

da quel giro vizioso in cui è facile entrare quando

hai contatti solamente con persone che stanno come te

 

di Andrea Andriotto

 

Otto anni fa, quando per le prime volte ci riunivamo per riuscire a mettere insieme idee e scritti per realizzare il primo giornale dal carcere di Padova, non immaginavamo nemmeno che quelle riunioni incasinate, fatte in un’aula dove si svolgeva un’altra attività (la Rassegna Stampa), avrebbero portato a quello che c’è oggi: una vera e propria redazione all’interno di un carcere, un sito tra i più visitati del settore e le molte altre iniziative per avvicinare il dentro con il fuori.

Ricordo ancora chi con spocchia sosteneva convinto che questo giornalino non sarebbe sopravissuto più di un anno… e invece eccoci qui con il cinquantesimo numero. Avevo 23 anni ed ero detenuto da due quando partirono i primi incontri ed iniziarono ad uscire le prime idee…

La fortuna di Ristretti è stata quella di cominciare la sua storia nel posto giusto al momento giusto. C’è stato un incontro di forze che ne ha permesso, o quanto meno agevolato la nascita. Sicuramente la determinazione di Ornella, “la capa”, ma anche la disponibilità da parte dell’allora direzione del carcere, l’interesse vivo da parte di alcuni operatori e anche il coinvolgimento del gruppo di detenuti che oltre ad essere interessati e incuriositi da questa nuova iniziativa… vedevano ancora lontana la prospettiva di uscire: e così abbiamo avuto modo di appassionarci e affezionarci all’iniziativa, e contemporaneamente garantire una continuità.

Ristretti era anche roba nostra, era anche una nostra creatura… In otto anni la redazione e le attività sono decisamente cresciute, migliorate, si sono allargate… Noi abbiamo contribuito alla crescita di Ristretti, e automaticamente Ristretti ha contribuito alla nostra crescita, o almeno ha contribuito alla mia, di crescita, con il lavoro, il confronto, gli incontri, gli scontri, il continuo contatto con l’esterno. È stato il modo migliore per impegnare tutti quegli anni di galera…

Mi ha tenuto in vita. Mi ha permesso di imparare ad usare il computer, per esempio. A confrontarmi e a rapportarmi con gli altri in modo diverso, quasi naturale. Mi ha aiutato ad uscire dalla cella, ma non tanto dalla cella intesa come le quattro mura, ma dalla galera dentro la galera, da quel giro vizioso in cui è facile entrare quando hai contatti solamente con persone che stanno come te, che vivono i tuoi stessi disagi e le tue stesse disperazioni… quella galera fatta di luoghi comuni, di cattiveria compressa, di sotterfugi e di odio verso quasi tutto quello che rappresenta la società. La stessa società che ti costringe e ti isola all’interno di quelle quattro mura. Mi ha aiutato a sopravvivere.

 

Essere in continuo contatto con teste pensanti non può far altro che bene

 

Le persone che hanno partecipato negli anni alla redazione sono sempre state selezionate, oltre che per la pena (si privilegiavano persone con pene lunghe) anche per capacità e cultura, per cui molti di quelli con cui sono stato a contatto mi davano qualcosa, mi trasmettevano delle conoscenze, delle idee. Erano stimolanti per un ragazzo poco più che ventenne che aveva voglia di uscire da quella galera.

Ricordo con piacere il vecchio Claudio, un uomo che avrebbe potuto essere mio padre e che mi ha aiutato molto, forse a volte inconsapevolmente, mi ha trasmesso delle competenze, ma anche, e non è poco, la carica per andare avanti, per riuscire a mantenere una dignità pur essendo consapevole che in carcere si può essere alla mercé di persone che la dignità non sanno nemmeno cosa e dove stia. Di lui ricordo che mi diceva sempre: “Non risolvi i problemi piangendoti addosso!”.

Ma sono tante le persone che mi hanno lasciato qualcosa. Penso anche alle competenze tecniche, strettamente legate al lavoro di redazione… Come non posso dimenticarmi di Massimo, che mi ha dato le basi di quello che so oggi. Competenze che poi ho lasciato a mia volta in redazione alle persone che adesso sono là al posto mio.

Massimo era un tipo un po’ difficile, non era semplice stargli vicino, ero uno dei pochi che riusciva a lavorarci assieme, ma era preparato, sveglio e intelligente. Appena ho capito il tipo non me lo sono fatto scappare. Da Massimo ho imparato molto, a livello tecnico intendo, perché umanamente, devo dire la verità, era un po’ carente, guardava molto a se stesso e molto poco ai bisogni degli altri.

E non sto qui a fare la lista di tutte quelle persone che non mi sono state indifferenti e che mi hanno lasciato qualcosa, sono comunque tante. Lavorare in redazione mi ha permesso pure di essere più a contatto non solo con l’esterno, ma anche con l’istituzione, con gli operatori per esempio, il che non è cosa da poco in galera, dove si fatica a comunicare con chi dovrebbe decidere per te, o di te.

 

La forza del gruppo è stata il fatto di non accontentarsi mai

 

Nel corso degli anni ho cambiato diverse mansioni all’interno della redazione.Mi sono occupato per un periodo di scrivere delle iniziative che si svolgevano all’interno del carcere. Non avevo mai fatto un’intervista in vita mia, scrivevo come potevo… ma mi divertivo a fare domande agli altri. Nonostante tutto è piacevole ricordare di quando dovevamo spedire i primi numeri di Ristretti. Le etichette stampate e incollate con il vinavil una ad una sulle buste, i bolli leccati sino a rimanere senza saliva…

I primi computer che abbiamo avuto a disposizione erano del 1990, poco più che macchine da scrivere, ma funzionavano, e per noi che di computer ne sapevamo niente andarono più che bene per un po’ di tempo. Poi abbiamo iniziato ad evolverci, ad informatizzarci, abbiamo preso il primo computer nuovo per iniziare a fare grafica.

Con Massimo abbiamo creato il database per gli indirizzi degli abbonati (innovazione non da poco se si pensa che sino ad allora usavamo solamente il programma di scrittura). Ma tutto è stato sempre in evoluzione, credo sia stata anche questa la forza del gruppo, il fatto di non accontentarsi mai di quello che ci eravamo conquistati. Dalle iniziative alla gestione degli spazi concessi dalle istituzioni. Ogni anno c’è sempre qualcosa di più e di nuovo da fare.

Il bello di Ristretti e dell’associazione Il Granello di Senape è proprio il fatto che non ci si è mai fermati e limitati a scrivere solo il giornale. Certo il giornale è la prima creatura del gruppo, una delle più riuscite, ma non posso non pensare alle altre iniziative, come “Il carcere entra a scuola”, che dà un’informazione in modo diverso e riesce a “raggiungere le orecchie” delle persone che forse non avrebbero mai avuto modo di avvicinarsi all’argomento carcere e devianza, penso agli studenti soprattutto, ma anche ai loro insegnanti, che pure loro spesso hanno bisogno e voglia di confrontarsi.

Ho fatto parte della redazione interna per tutto il tempo della mia carcerazione, sino a quando sono stato ammesso al lavoro all’esterno. Nonostante sia difficile avere nostalgia della galera, ci sono stati momenti trascorsi in redazione che ricordo e continuerò a ricordare con piacere.

Cinquanta di questi numeri!

Dal limitato interesse a passare qualche ora fuori dalla cella,

si arriva poi a confrontarsi con la realtà del carcere in maniera nuova ed attiva:

questo è un po’ il senso dell’esperienza della redazione di Ristretti Orizzonti

 

di Stefano Bentivogli

 

Non avrei mai immaginato di trovarmi ad organizzare la mia giornata di detenzione, la mia settimana, i miei permessi premio tenendo presenti i miei impegni con la redazione di Ristretti Orizzonti. Mi sono avvicinato a questa attività perché collaboravo col Tg 2 Palazzi con il ruolo di cameraman, ma la redazione di Ristretti mi attraeva moltissimo, lì c’era veramente la possibilità di informarsi, approfondire, discutere e poi scrivere, che con Ristretti significa stabilire un rapporto di scambio continuo con l’esterno, perché veramente si riesce ad avere contatti con persone con le quali fuori non mi sarei mai immaginato di potermi confrontare.

Non sono uno dei fondatori, e mi sono trovato ad utilizzare anni di lavoro fatto dai miei compagni e dai volontari, un lavoro non semplice e davvero delicato, il tentativo di trasformare i detenuti in un soggetto nuovo, uomini e donne che pensano, parlano, si confrontano: persone in cammino. Ed oggi, con il suo cinquantesimo numero, la rivista ricorda la storia di una realtà che probabilmente, quando è iniziata, nessuno avrebbe mai immaginato potesse arrivare a tanto. Non è difatti la storia del solito giornalino frutto dell’impegno di qualche volontario, sostenuto dal direttore dell’istituto, dove i detenuti pubblicano i loro scritti tanto per fare esercizio artistico, oppure di una valvola di sfiato per tutte quelle persone che non hanno altri spazi ove lasciare i loro messaggi di rabbia, dolore e speranza.

La redazione di Ristretti, pur nelle sue diverse fasi di crescita, è una vera e propria iniziativa culturale, perché sin dai suoi primi numeri ha sempre tenuto come prioritario l’obiettivo di aprire un canale di comunicazione con il mondo fuori, sapendo che di questi esperimenti ne sono stati fatti tanti, e che purtroppo parecchi sono falliti o sopravvivono per inerzia.

Ristretti ha ancora una grande spinta propositiva, forse perché lo sforzo di non essere autoreferenziale continua a mantenerlo, ed oggi con la vivace gestione di progetti sul territorio, soprattutto con le scuole medie superiori ed inferiori di Padova, ha posto le condizioni per cui il carcere è diventato un luogo dove poter andare a “mettere il naso”, a conoscere e capire meglio, creando così nuove sensibilità ed interesse decisamente in controtendenza rispetto alle spinte della cultura dominante.

Per chi non sa nulla di carcere è difficile capire quale elemento di novità la rivista ed il sito rappresentino al livello ai quali sono oggi arrivati. Un esempio è che nel mese di maggio di quest’anno la Casa di reclusione di Padova ha ospitato 600 persone arrivate per un convegno sulla salute mentale, ma il senso di apertura verso l’esterno si coglie ancora di più nei continui incontri che la redazione organizza: scrittori, giornalisti, registi, magistrati, avvocati, studenti, ma anche semplici cittadini che sono entrati in contatto con noi e sono riusciti a venire a trovarci al di qua del muro.

Ma qual è il significato più profondo delle attività di Ristretti? Ognuno di noi che vi partecipa gli dà il suo, proprio perché, fatto salvo il compito principale di informare dal carcere e sul carcere, c’è veramente per ognuno la possibilità di metterci del proprio, e molto spesso dal limitato interesse ad utilizzare un computer e passare qualche ora fuori dalla cella, si arriva poi a confrontarsi con la realtà del carcere in maniera nuova ed attiva.

Per me il rimettermi a scrivere è stato molto importante, ma non lo scrivere in sé e per sé, perché ogni tanto recupero i miei primi scritti durante la detenzione e quando leggo quei fogli mi spavento. È stato invece lo scrivere aiutato dal leggere (studiare in alcuni casi), e poi discutere e confrontarmi tentando di dare un po’ di ordine a quello che avevo in testa, non fosse altro per rendere comprensibile agli altri quello che volevo dire. E poi questo confronto non limitarlo al recinto che la galera ci impone, ma portarlo fuori e con le persone di fuori rivederlo.

Lo scrivere per me è stato il miglior modo di dare un minimo di spessore alle riflessioni che il carcere tutti i giorni mi proponeva, ma che in genere tentavo di lasciar scorrere via, per sentire meno la sofferenza e l’inutilità del posto, delle regole, delle limitazioni nelle quali si è costretti a vivere. Ci vuole veramente un grande sforzo per non cadere nella tentazione di buttare via tutto e tutti, per non inaridirsi e passare il tempo ad accumulare solo rabbia, rinunciando a dare a momenti, che sono comunque la nostra vita, un minimo di significato almeno per noi stessi.

 

La redazione è stata una delle poche occasioni dove mi sono sentito coinvolto come persona che aveva ancora qualcosa da dire e da dare

 

La redazione in questo per me è stata uno strumento formidabile, perché dopo un po’ di tempo che uno fa la vita di galera i discorsi e le riflessioni che si fanno sono sempre gli stessi, tanto che restano spesso uguali di fronte ad un carcere che invece cambia ad un velocità impressionante, e noi detenuti che senza un minimo di confronto serio rischiamo di diventare dei fossili che si parlano addosso di cose di scarso interesse.

Io trovo che tante ore passate attorno ad un tavolo, insieme a volontari lì presenti con la voglia di confrontarsi, e non di convertire le mele marce della società ai sani principi del vivere civile, e neanche con l’atteggiamento di consolare e compatire dei poveri sventurati vittime di intangibili “problemi sociali”, abbiano prodotto molto più scambio e cambiamento reciproco che i colloqui con gli educatori, ormai sempre più rari e finalizzati alle “scadenze trattamentali”.

Non voglio dire che attività come quella del giornale possano essere un valido antidoto contro la recidiva, magari fosse così semplice, sono certo però che per me è stata una delle poche occasioni dove mi sono sentito coinvolto come persona che aveva ancora qualcosa da dire e da dare, e questo riconoscimento mi stimolava a fare qualcosa di più, a mettere me stesso al lavoro cercando di confrontarmi con le esperienze degli altri.

Io trovo che il successo che Ristretti ha avuto finora sia molto legato al voler superare la vecchia immagine del giornalino scritto dai poveri detenuti sofferenti, perché, quando la redazione si riunisce, non ci si concede questo spazio ipocrita e si preferisce piuttosto scontrarsi, anche animatamente, mettersi in gioco, anche se spesso è difficile e pericoloso.

Ci siamo resi conto così che la realtà del carcere italiano stava cambiando radicalmente e che la redazione poteva essere un momento per capire meglio cosa stava succedendo. Per me sono stati momenti di crescita personale notevoli, perché difficilmente fuori, e me ne sono reso conto in questo primo periodo di affidamento in prova durante il quale continuo a collaborare con la rivista, esistono possibilità di conoscenza e confronto così coinvolgenti come quelle avute in redazione. E poi io ho ritrovato energia nell’entrare a far parte di questa bolgia di penitenti più o meno convinti, protagonisti dell’incredibile e dell’inverosimile, oppure protagonisti dell’emarginazione e dell’invisibilità sociale e poi improvvisamente della pubblica pericolosità.

Qui io ho dovuto provare a cercare me stesso, scontrandomi con i miei limiti, quelli degli altri e una legge da rispettare con la quale dobbiamo confrontarci comunque, anche se fuori tutta questa ansia di legalità non la si respira nella vita quotidiana, anzi sembra sempre una cosa che riguardi gli altri e mai i tanti comportamenti illegali che invece si danno sempre più per scontati.

Ristretti Orizzonti oggi rappresenta proprio il tentativo, attraverso il racconto e la testimonianza, di superamento dell’immagine del carcere tradizionale e del detenuto che ormai non esistono più. Non è più la prigione dove le guardie conducono ladri simpatici e maldestri, è la terra di nessuno blindata per i migranti, la comunità terapeutica per i tossici irriducibili, il contenitore per le tante diversità che non hanno più diritto di cittadinanza.

Ma Ristretti Orizzonti è anche il ricordare alla gente libera i diritti dei reclusi, proprio di quelli che devono scontare una pena e perdono per legge la libertà, tutti quelli che sembrerebbe quasi legittimo dimenticare in nome della colpa. Continuando ad avere sempre attenzione anche a loro forse si può mantenere la rotta in direzione di una società basata sulle garanzie e sui diritti, piuttosto di quell’altro modello di società che sembra ormai sempre più proiettata ai divieti ed alle limitazioni, perché proposte di libertà non riesce più a farne.

La redazione e io: perché mi sono detto “Voglio farne parte”

Ristretti Orizzonti è giunto al suo cinquantesimo numero,

mentre io ho visto partorire soltanto gli ultimi sei

Ricordo come se fosse ieri la mia conoscenza con questo giornale

e la voglia di farne parte

 

di Altin Demiri

 

Appena arrivato nel carcere di Padova mi hanno messo in una cella con uno che fumava come un turco. Io non ho mai fumato, e vivere all’improvviso con un fumatore mi era impossibile. Con questa motivazione ho chiesto alla direzione di essere messo in una cella con un compagno che non fumasse. Dopo qualche settimana, la mia richiesta è stata esaudita, e mi hanno messo con Francesco Morelli. Mi sono reso subito conto che oltre ad essere uno che non fumava, Francesco era anche un ragazzo intelligente e disponibile. La considerai una fortuna, anche perché cominciai a imparare molto da lui. Lui era uno dei detenuti fondatori di Ristretti Orizzonti, e da anni se ne occupava a tempo pieno. E io vedevo una forte passione e serietà in questo impegno.

 

Un giorno, mentre mi trovavo ai passeggi, un agente mi ha invitato a recarmi all’area scolastica

 

Aveva anche un personal computer in cella, e in tutto il periodo della nostra convivenza l’ho visto ogni notte davanti al suo computer fino alla mattina per sistemare il sito di Ristretti Orizzonti. Ricordo in particolar modo che lo vedevo lavorare a una ricerca sui detenuti che morivano nelle carceri d’Italia. Tutto ciò mi incuriosiva molto, e così spesso gli domandavo cose per capire di più su queste sue attività. E lui, sempre educato e disponibile, non si è mai sottratto al compito di spiegarmi non solo l’importanza di questa attività per quanto riguarda l’informazione, ma anche come era bello farne parte e lavorarci. Tutto ciò mi affascinava.

Vedevo Francesco occuparsi anche di studi giuridici, e allora mi avvicinavo per sbirciare le carte, le nuove leggi che lui leggeva con interesse, e che mi spiegava con pazienza. Io poi andavo ai passeggi e informavo a mia volta i miei paesani che ne parlavano con i compagni di cella, cosicché diventava una catena informativa in tutto il carcere, e a volte gli argomenti trattati nel giornale venivano a conoscenza dei detenuti prima che il giornale stesso venisse stampato.

Spesso “sfogliavo” nel suo computer il sito di Ristretti Orizzonti, che contiene più di seimila pagine di testimonianze e informazioni riguardo a leggi e regolamenti attinenti il mondo del carcere e la giustizia, e mi accorgevo dell’utile lavoro che questa redazione svolgeva per i detenuti. Ho conosciuto così il perché della passione e della volontà di Francesco, ho visto la sua soddisfazione, ma soprattutto ho capito che questo giornale combatteva per il miglioramento della vita dei detenuti e li informava dei loro diritti.

Francesco mi aveva parlato anche della presenza di stranieri e specialmente di albanesi come me, che svolgevano un ruolo fondamentale in questa redazione. In poco tempo avevo scoperto una realtà che mi incuriosiva molto, perciò ad un certo punto ho deciso che dovevo fare parte di questo giornale. Dovevo imparare per poi cercare di dare il mio contributo. La voglia di fare era enorme, e aspettavo con ansia l’autorizzazione del direttore. Poi un giorno, mentre mi trovavo ai passeggi, è venuto l’agente e mi ha invitato a raggiungere l’area scolastica. Ero stato autorizzato. Finalmente facevo parte di questo gruppo.

 

Quello che conta è anche lo spirito umano che il giornale fa crescere in chi ci crede

 

Certamente all’inizio avevo delle difficoltà come tutti i nuovi arrivati, non avevo nessuna esperienza di scrittura, ma poi ho conosciuto meglio Elton, il mio paesano, che si è dimostrato subito disponibile e mi è stato molto d’aiuto costruendo per me un percorso di scrittura. Con questo voglio dire che ho trovato da subito un ambiente caloroso e amico. E quindi mi sono inserito perfettamente sia nel lavoro serio che questa attività impone, e sia nello spirito umano che il giornale fa crescere in chi ci crede. Ho dovuto fare uno sforzo enorme per non “rimanere ultimo” e per più di un anno mi sono dedicato con tutte le forze a raggiungere e poi tenere il passo degli altri miei compagni che sono certamente più bravi di me.

Ed ecco che in questo cinquantesimo numero di Ristretti Orizzonti, ci sono anch’io, a tenere fede al nostro impegno di fare una corretta informazione e ad affrontare insieme ai miei compagni i problemi più importanti, che interessano a molti. Ma non sarà difficile, perché questo giornale non si è mai sottratto alle tante questioni che pongono i detenuti, al ragionamento, alla discussione e alle loro rabbie.

Un lavoro importante lo fanno anche i volontari, persone che non hanno pregiudizi, ma ci considerano semplicemente degli esseri umani che hanno sbagliato. Volontari che hanno anche come obiettivo dare pari opportunità a noi stranieri, e rendere accessibili a tutti i benefici e le misure alternative. Io in loro non vedo l’indifferenza, non vedo la convenienza nel selezionare le persone detenute, e anche rispetto ai permessi premio da loro ho sempre sentito dire: “Mi prenderò se necessario una fregatura, piuttosto che non provare a dare una opportunità di cambiamento”. Loro non ci guardano dall’alto verso il basso, loro credono nel cambiamento delle persone, e noi, in questi volontari, abbiamo trovato il nostro sorriso, la sincerità e quel contatto umano che non appartiene di solito al carcere.

Per tutti questi motivi voglio ricordare l’importanza che il giornale ha avuto nel cambiare la mia vita. Oggi mi sento un’altra persona. Ascolto i telegiornali e so di che cosa stanno parlando. Mi siedo intorno ad un tavolo con altre dieci persone e sono capace di reggere il confronto su diversi argomenti. Alla mattina mi sveglio con l’idea di scrivere qualche articolo, e alla sera vado a dormire riflettendo su norme, leggi e comportamenti da analizzare.

Un’esperienza culturale che mi ha arricchita molto

Ho sentito che avrei voluto impegnarmi nel volontariato, senza però avere chiaro a quale settore del sociale mi sarei rivolta. Avevo solo un gran desiderio di prendermi cura della verità della condizione umana, che andasse oltre il mio ambito familiare

 

di Gabriella Brugliera

(volontaria di Ristretti)

 

Ahmet, come sempre singolare nei suoi interventi, nel mezzo della discussione-commemorazione per l’uscita del 50° numero di Ristretti Orizzonti, butta là una domanda succinta, però per me anche molto significativa: “Sono solo curioso di farmi dire da voi detenuti qual è stata la molla che vi ha spinto a voler portare all’esterno le vostre esperienze; e inoltre che cosa ha spinto i volontari della redazione ad avvicinarsi al mondo del carcere, in particolare, e soprattutto al volontariato”.

Io che normalmente ho difficoltà ad intervenire, sia per un senso di inadeguatezza, sia perché mi sembra sempre che gli altri abbiano cose da dire molto più interessanti delle mie, ho sentito che avrei voluto cogliere ad ogni costo questa occasione per comunicare le motivazioni che mi hanno spinto ad impegnarmi nel volontariato, senza però avere un’idea chiara a quale settore del sociale mi sarei rivolta. Avevo solo un gran desiderio di prendermi cura della verità della condizione umana, che andasse oltre il mio ambito familiare.

Entrare in una struttura del volontariato mi metteva tuttavia timore; intuivo che avrei dovuto adeguarmi ad una disciplina ed alla logica per cui, io donna, mi sarei forse trovata a fare quello che ci si aspetta che una donna faccia: occuparmi di mansioni di cura e di assistenza, mentre io volevo mettere in gioco le competenze di organizzazione e la capacità di mediazione che avevo guadagnato con il mio lavoro (e che adesso comunque ho un po’ perso).

Volevo misurarmi in un compito sociale, non tecnico e ripetitivo, secondo le mie vere capacità, sapevo inoltre che non avrei dovuto aspettarmi alcuna gratificazione come ritorno: aver bisogno, infatti, è una verità della condizione umana, perciò non c’è umiliazione nella dipendenza, né ha senso la pretesa di gratitudine da parte di chi si prende cura di tale verità.

Nei momenti più “ideologizzati” della mia vita, anch’io, come molti altri, ero convinta che, prestando volontariamente la propria opera, ci fosse il rischio di avallare l’inefficienza dello Stato, ma ben presto mi sono resa conto che questo ci ha portato a diventare più indifferenti, disponibili a manifestare in piazza per la pace, o in solidarietà di un popolo, ma incapaci di un vero gesto generoso.

Ho quindi cercato di lavorare dove il mio sentimento mi spingeva con maggior forza: i bambini, nei campi nomadi, sempre i bambini in comunità di madri tossicodipendenti che si sottoponevano ad un percorso di recupero per ottenere la patria potestà, e proprio per l’esperienza acquisita con i bambini emarginati, mi è stato chiesto se fossi disponibile ad entrare in carcere alla Giudecca dove c’erano alcune madri detenute con i figli.

Da qui è incominciato il mio percorso in carcere: ho conosciuto Ornella, le ragazze della redazione, ed ho incominciato ad identificare attraverso i loro scritti, i detenuti della redazione “maschile” di Ristretti. Ho capito immediatamente che questa era davvero un’esperienza di forte impegno e soprattutto un’esperienza culturale che mi avrebbe arricchito. Ho quindi chiesto alla “Capa” se sarei potuta entrare nella redazione di Padova. E questo è tutto, ma proprio tutto.

Un’opportunità per chi non crede di aver già capito tutto

Il punto di vista sul nostro giornale di un lettore particolare, quello che ci ha contattato tempo fa con una lettera curiosa, che iniziava con un “Egregio signor ladro” ed era diretta a chi lo aveva derubato

 

di Alberto Verra

 

Se dovessi definire “Ristretti” con una parola, sceglierei la parola opportunità, un’opportunità per tutte quelle persone che, pur vivendo situazioni molto diverse, non credono di avere già capito tutto. Dopo aver letto un numero di “Ristretti”, un mio conoscente (tra l’altro vittima di reato recentemente) si/mi domandava come era possibile che una persona arrivasse al punto di finire in prigione. Ci siamo messi così a fare alcune considerazioni sulla “meccanicità” della persona e sulla possibilità, reale o meno, di adoperare il libero arbitrio, e siamo arrivati alla conclusione che finire in prigione è una cosa che può capitare a tutti, un po’ come una malattia. Con ogni probabilità una considerazione del genere non sarebbe stata possibile senza gli spunti avuti da questo giornale.

Sempre, quando due mondi distanti si incontrano senza la pretesa di aver capito tutto, si aprono opportunità di arricchimento per entrambi. Come messaggi in bottiglia che contengono piccoli frammenti di un’umanità sconosciuta alla maggior parte delle persone, così appaiono gli articoli più belli di “Ristretti”, che illuminano indirettamente anche il lavoro di molte persone che operano nel carcere. Chi ha la fortuna di essere in grado di leggerli, non può che interrogarsi sulla natura umana e, se è onesto con se stesso, cercare di darsi delle risposte che non sono affatto facili. Cosa porta a commettere reati? L’egoismo, la suggestione di un’ideologia, l’illusione di un sogno o forse più semplicemente le abitudini e gli atteggiamenti sbagliati, la non capacità di soffrire di fronte alle avversità della vita? Ecco, leggere “Ristretti” può aiutare a trovare qualche embrione di risposta.

Da parte mia l’unica “risposta” che mi sono riuscito a dare è che il libero arbitrio esiste solo nelle piccole scelte quotidiane, quelle che non sembrano determinanti, ma che in realtà poi portano a non poter più scegliere. Questo secondo me vale per ogni situazione della vita, ma è una risposta che sono pronto a cambiare se qualcuno me ne fornisce di migliori. “Ristretti”, dunque, può essere un’opportunità per noi che siamo fuori per comprendere meglio aspetti della realtà che viviamo, e che finora semplicemente ignoravamo, speriamo che molti sappiano/vogliano approfittarne.

E poi può essere una opportunità per le persone recluse per tentare di vivere in modo costruttivo, per quanto possibile, questa parte della loro vita, purtroppo per questi ultimi non molti potranno approfittarne. Spero che le autorità del nostro Paese si accorgano di quanto possono essere interessanti per tutti esperienze come quella di Padova, e che quindi in qualche modo le sostengano ed eventualmente si adoperino perché si possano allargare ad altre realtà.

 

 

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