Editoriale

 

Informare da dentro è un’impresa titanica

ma quanto è difficile raccontare anche la libertà!

 

di Ornella Favero

 

Il primo articolo che ho ricevuto da un detenuto per quel giornale che avevamo appena iniziato ad inventare, nel lontano 1997, e che poi si sarebbe chiamato “Ristretti Orizzonti”, conteneva al suo interno una  strana espressione, “nuovi giunti”, che io diligentemente avevo corretto in “nuovi arrivati”. Quando poi ho capito che “nuovi giunti” era un modo, un po’ burocratico e un po’ semplicemente assurdo, di definire le persone che entrano in un carcere per scontare una pena, ho tratto da quella prima esperienza di scrittura contaminata dal linguaggio della burocrazia un utile insegnamento, a cui ne sono seguiti molti altri, che in anni di accanite discussioni nella redazione di Ristretti ho poi messo a punto, digerito, rielaborato.

Il primo insegnamento è stato che il “dentro” e il “fuori” usano addirittura linguaggi diversi perché sono mondi lontani, divisi, poco comunicanti, e serve un lavoro di pazienza certosina per ricucire, o meglio per cucire un legame serio tra queste due realtà, facendo conoscere davvero la galera a chi sta fuori: e questo è stato anche il primo fronte su cui noi di “Ristretti Orizzonti” ci siamo messi in gioco fin dall’inizio con passione e anche con fantasia.

Il secondo insegnamento è stato che è difficile abbattere i tabù, i luoghi comuni, i pregiudizi che esistono da una parte e dall’altra, tra i cittadini liberi e tra i detenuti. Io ho sempre pensato che sia indispensabile, in particolare per chi sta in carcere, sbarazzarsi di tutti quei vittimismi, quelle manie, quegli atteggiamenti “conservatori” tipici della vita carceraria, che impediscono spesso di guardare con sguardo critico al proprio passato, ma anche al futuro e a quella che sarà la vita dopo la galera. Ho capito però che per cambiare qualcosa nella mentalità delle persone detenute servono tempi lunghi, una grande costanza e la consapevolezza da parte di tutti di operare in una situazione complessa, dove chi viene da fuori come me deve entrare togliendosi dalla testa idee di salvezza e redenzione, e accettare di confrontarsi, scontrarsi, ma soprattutto di esserci con lo spirito critico e la ricchezza di opinioni che solo il mondo “libero” può portare davvero dentro il carcere. 

Il terzo insegnamento è stato che fare informazione dalla galera in modo corretto, equilibrato, attento, e farla lavorando con persone che per lo più di informazione non si sono mai occupate,  e per le quali la correttezza e l’equilibrio sono concetti piuttosto astratti e lontani,  è una sfida titanica, resa ancora più dura dal fatto che l’informazione che viene da fuori, dai giornali “grandi”, non è esattamente un esempio di sfolgorante qualità. Basti pensare all’ultima “perla” estiva: tutti i media a gridare la notizia dell’arresto a Milano di quindici semiliberi per attività criminali di vario genere, che il giorno dopo non erano più quindici ma due, mentre gli altri erano dei cittadini “comuni” che con la galera non avevano nulla a che fare. Poi un ragazzo della nostra redazione legge il nome di uno dei due semiliberi arrestati e dice: “Ma come, lui è stato riportato in carcere ancora tre anni fa, era con me a San Vittore, ci giocavo a scacchi insieme”. Morale della favola: la notizia non esisteva, i due semiliberi erano stati arrestati qualche anno fa, e sono stati “riciclati” di recente da giornali e televisioni solo perché l’inchiesta che li riguardava si è conclusa questa estate. Evidentemente faceva comodo tornare a parlare di detenuti che lavorano all’esterno e commettono reati.

Ma la lezione più dura e più importante di tutta questa esperienza di “Ristretti” l’ho avuta in quest’ultimo anno, da quando abbiamo aperto una sede esterna dell’associazione che è il nostro editore: la lezione è che fare volontariato in carcere è infinitamente più “facile” e gratificante che occuparsi dei problemi del “dopo”. Io ci ho sbattuto la faccia brutalmente, su tutto quel percorso a ostacoli che chiamiamo “reinserimento”, e sto faticosamente imparando che fuori, per chi arriva dalla galera, la vita è molto più dura di quanto generalmente si immagina, e di conseguenza lo è in parte anche per quelli che tentano, come stiamo facendo noi di Ristretti, di occuparsi seriamente di chi esce in misura alternativa o a fine pena. Il fatto è che dentro si può almeno sognare, e spesso anche sognare in grande (“Se voglio sognare di possedere una barca” mi ha detto un detenuto, “visto che so che non ne avrò mai una preferisco almeno permettermi di sognare uno yacht da 30 metri piuttosto che una bagnarola da 2 metri con motore a 4 cavalli”) un sogno non te lo nega nessuno, ma poi fuori l’impatto con una realtà, dove i garantiti sono sempre meno e i disperati sempre di più, è davvero traumatico. Ed è traumatico anche per noi volontari, che dentro la galera, bene o male, troviamo uomini e donne alle quali è l’istituzione a porre un’infinità di limitazioni e di paletti, ma fuori… fuori bisogna discutere, lottare, misurarsi con i vecchi comportamenti, con la difficoltà di persone abituate a modelli di vita, che non possono più essere gli stessi, con la frustrazione e con la rabbia, con la paura di non farcela, con i rischi della libertà. È una fatica, quella del “dopo”, ma è anche la battaglia nella quale noi di Ristretti Orizzonti intendiamo impegnarci con la stessa forza e la stessa passione con la quale ci impegniamo da anni “dentro”.

 

 

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