Attenti al libro

 

Piccoli gulag

Sentieri e insidie delle comunità terapeutiche

 

recensione di Stefano Bentivogli

 

“È come stare in galera”. Così si dice di certe comunità. Ma ci sono anche tante piccole realtà disponibili ad aiutare a costruire, giorno dopo giorno, il recupero di un po’ di benessere e dignità senza etichette. Se ne parla in un libro dal titolo molto esplicito, “Piccoli Gulag”.

“Il carcere è il luogo delle privazioni e del controllo. La comunità è il luogo del controllo e delle privazioni. Entrambi territori dell’imposizione, non sono però la stessa cosa. La galera costringe all’ozio forzato, la comunità al suo contrario: il lavoro forzato, anche nei confronti di se stesso”. Quando tra “utenti”, o potenziali tali, si deve dare un giudizio su una comunità terapeutica considerata ufficialmente dura, il primo paragone è proprio quello con il carcere. “È come stare in galera”, oppure “È peggio del carcere”. Questo si usa dire quando, arrivati nei termini previsti dalla legge, “passeggiando all’aria” nel cortile di qualche penitenziario, ci si consulta con i compagni per chiedere la disponibilità all’accoglienza in qualche struttura terapeutica dove essere affidati fino al giorno del fine pena.

In quanti si sta per stanza? Ci sono le donne? Quante sigarette si possono fumare ogni giorno? Si può bere vino durante i pasti? Dopo quanto si può andare a casa in permesso? È obbligatorio lavorare? I parametri di confronto diventano automaticamente quelli del regolamento interno degli istituti di pena e frequentemente il carcere, simbolo della sofferenza inflitta a titolo retributivo, gabbia ben chiusa per garantire la sicurezza della gente onesta, appare molto più sopportabile di tante comunità terapeutiche.

Di questo si discute tra detenuti prima di farsi passare il fantomatico indirizzo della struttura alla quale scrivere la solita letterina: un piccolo romanzo della propria vita in genere molto meno drammatico di quella che è stata la triste realtà, un’esplicita richiesta d’aiuto (perché da soli non ce l’abbiamo mai fatta e non ce la faremo mai), una solenne promessa di volontà di cambiamento della propria vita. Ma carcere e comunità non sono la stessa cosa, il cosiddetto “lavoro su se stesso”, vera prerogativa dell’ambiente terapeutico, è obbligatorio e forzato e prescinde dall’obiettivo finale che, da una realtà all’altra, può assumere i connotati della cura o della redenzione: ma di questo, al momento di scegliere la comunità, non si accenna nemmeno.

“Piccoli Gulag” di Cecco Bellosi racconta degli uomini e delle donne che, in quindici anni di lavoro come operatore, ha incontrato e conosciuto. Un racconto particolare, tutto pieno della sensibilità di un uomo che comincia a lavorare nelle comunità terapeutiche essendo ancora in regime di semilibertà, dividendo così le sue ventiquattro ore tra il carcere, dove sconta una pena, e queste strutture dove la reclusione, pur attenuata, viene praticata perché presupposto di un percorso di liberazione dalla droga. Il racconto è quello di chi ha vissuto gli anni nei quali le persone tossicodipendenti e l’Aids hanno cominciato a riempire le carceri, e queste persone le ha seguite poi, con il Testo Unico sugli stupefacenti, che prometteva in modo ipocrita la restituzione della libertà a patto che guarissero passando per le comunità di recupero.

Dalle prime esperienze di aiuto, nate dalla buona volontà, in genere di religiosi, che si ponevano come primo obiettivo quello di aiutare in qualunque modo questi ragazzi ormai considerati persi, si sono sviluppate vere e proprie strutture forti sia economicamente che politicamente. Fortunatamente, per ora, senza eliminare tante piccole realtà che invece mantengono la loro caratteristica di accoglienza senza doppi fini e disponibilità a costruire, giorno dopo giorno, il recupero di un po’ di benessere e dignità senza etichette. Magari come nelle storie raccontate da Cecco Bellosi, che non avevano nemmeno davanti la solita prospettiva da testimonial del “…e vissero felici e contenti”: casa, famiglia, figli, lavoro. Davanti invece c’era la certezza imminente, perchè fino ad un po’ di anni fa era così, che la fine stava arrivando, che l’Aids avrebbe comunque vinto la sua battaglia e che tutto sarebbe finito, senza senso, così come tutto era iniziato.

 

Il sollievo di trovare anche piccole comunità senza ambizione di redenzione dalla colpa

 

Chi le comunità le ha frequentate veramente, ed ha conosciuto anche il carcere, ritrova in questo libro uno scorcio di verità. Le persone dipendenti da sostanze, dall’essere originariamente molto simili alle altre, rischiano di trovarsi improvvisamente a precipitare, oltre che nel dramma di doversi procurare una sostanza illegale, in una specie di labirinto fatto di teorie, terapie, stereotipi, ambienti, regole, dove la loro dignità di persone, invece di venir recuperata e valorizzata, finisce per essere stritolata, usata, strumentalizzata. Il Testo Unico sugli stupefacenti del 1990, marcatamente proibizionista e conseguentemente criminalizzante per i consumatori di droghe, salvava in qualche modo questa sua facciata duramente repressiva con la possibilità di abbandonarsi tra le braccia della comunità di recupero.

Ma il panorama dell’offerta di redenzione comprendeva veramente di tutto: le catene di San Patrignano, gli eredi dei Dodici Passi, veri e propri istituti religiosi, ma anche tanti apprendisti stregoni che sostanzialmente riproponevano i loro percorsi di salvezza come validi solo perché avevano funzionato per loro.

“Ogni sera si svolgeva un piccolo supplizio. A tavola, al momento del caffè, invece di scambiare quattro chiacchiere venivano scambiate accuse. Le più piccole mancanze: il passaggio da una mano all’altra di una sigaretta, il panino sgranocchiato al di fuori degli orari canonici, la sosta non autorizzata sul lavoro diventavano occasioni per processi istruiti da piccoli, improvvisati Torquemada”. E chi ci è passato non dimentica facilmente la sacralità di questa “terapia”, guai a metterla in discussione perché era un chiaro segno di scarsa volontà di cambiamento, perché tutto aveva a che fare col tuo problema di dipendenza, tutto fino all’inverosimile. Eppure le comunità hanno rappresentato, nel bene o nel male, qualcosa di importante, soprattutto le realtà piccole, quelle senza ambizione di redenzione dalla colpa, quelle sempre disposte a sostenere principi che fossero solo quelli dell’umanità, dell’accoglienza e della solidarietà.

Hanno rappresentato luoghi di incontro di una generazione che ha pagato l’ipocrisia di una società moralista fino alla disumanità, che ha messo al margine, in carcere, e contribuito alla sepoltura di tanti e tanti giovani che avevano l’unica colpa di far uso di droghe e di non riuscire a smettere. Cecco Bellosi in “Piccoli Gulag” racconta la sua storia con questa gente, tecnicamente suoi utenti, ma evidentemente suoi compagni di strada, perché vittime come lui dell’istituzione totale dove “la ginnastica dell’obbedienza”, come la definiva Fabrizio De Andrè, quella praticata dalle istituzioni quali il carcere, non può mai provocare crescita e tantomeno cambiamento.

 

 

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