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Certezza della pena o certezza del recupero?

 

La finalità dell’esecuzione della pena deve essere l’inclusione, e non l’esclusione delle persone.

 

Alessandro Margara è considerato uno dei padri della legge Gozzini. Magistrato di Sorveglianza, è stato, per un periodo troppo breve, Direttore del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria. Ora è in pensione, ma è più che mai attivo sui temi della difesa dei diritti delle persone "escluse". Quello che segue è il suo intervento a Venezia, isola di San Servolo, alla Festa del volontariato penitenziario organizzata dall’associazione Il Granello di Senape.

 

Certezza della pena o certezza del recupero? Il tema è stimolante, nel senso che mette di fronte due formule. Una formula pacifica, condivisa, spendibile e spesa troppo frequentemente, che è quella della certezza della pena, cioè una di quelle formule con cui si sciacquano la bocca un po’ tutti quanti, che trova approvazione comunque. Molti di coloro che la usano non sanno cosa vuol dire, ma questa è una cosa secondaria, soprattutto di questi tempi, in cui molti dicono cose che non sanno.

L’altra è una formula che potremmo cominciare a spendere, che però non ha la stessa "moralità": la certezza del reinserimento. Si dice, anche, una politica di inclusione sociale, anziché di esclusione sociale.

"Certezza della pena" cosa vuol dire? Questa formula la si può usare così, un po’ come un pass partout logico, che sembra voler dire molto… ma se "certezza della pena" vuol dire inflessibilità della pena, o almeno tendenza all’inflessibilità, si contrappone in sostanza con quella che è la flessibilità della pena, che è la possibilità che la pena abbia una durata conseguente all’andamento dell’esecuzione della stessa, cioè possa interrompersi prima del termine stabilito, ed essere sostituita da modi di esecuzione diversi da quelli che erano previsti inizialmente.

 

Ricorrentemente, con tempi che variavano dai tre ai cinque anni, arrivavano i condoni e le amnistie.

 

La pena inflessibile è stata la bandiera, la prospettiva, l’impostazione unica delle normative precedenti alla riforma del 1975. Il Codice penale del 1930 prevedeva, in effetti, un’unica formula di uscita dal carcere prima del fine pena, ed è la sostituzione della pena in carcere con una forma diversa, la libertà vigilata, attraverso lo strumento della liberazione condizionale, che era data dal Ministro della Giustizia. Un provvedimento molto raro, come poteva essere anche il provvedimento di grazia, che non modificava nella sostanza il funzionamento dell’esecuzione della pena, che rimaneva tendenzialmente rigido.

Ma quando si dice "tendenzialmente rigido" si dimentica che, ricorrentemente, con tempi che variavano dai tre ai cinque anni, arrivavano i condoni e le amnistie, che buttavano fuori tutti quanti, senza discriminazioni e scelte, ed erano quelli gli strumenti con i quali si riduceva la popolazione detenuta quando cresceva troppo. Flessibilità o inflessibilità della pena?

La risposta sta non soltanto nell’articolo 27 della Costituzione, quanto nella interpretazione sistematica, continua, che ne ha fatto la Corte costituzionale. La Corte costituzionale, fin dal 1974, disse che c’è un diritto del condannato a che sia valutato se la parte di pena che ha scontato è servita a prepararlo ad un processo di recupero sociale all’esterno, in forme che devono essere diverse dall’esecuzione della pena in carcere.

Questa sentenza fu quella con cui - sulla base del diritto a veder valutata la possibilità che il condannato fosse già pronto per l’uscita - la liberazione condizionale, prima data dal ministro, diventava di competenza di un giudice, che in un primo tempo venne individuato nella Corte d’Appello e poi, con la legge Gozzini, nel Tribunale di Sorveglianza.

Questa prima sentenza della Corte Costituzionale stabilisce che la flessibilità della pena è il modo, l’utilizzo, l’impostazione, con cui l’esecuzione della pena dev’essere attuata, e in tante sentenze successive, che cominciano dal 1985 e continuano tuttora, il discorso della Corte Costituzionale si articola meglio, e dice che non solo la pena deve essere flessibile, ma questa flessibilità, questo sistema di prova controllata con cui la pena si esegue, devono essere seguiti da una struttura che svolge, al tempo stesso, una funzione di controllo, di recupero e di sostegno.

Quindi ci deve essere un sistema che convive col sistema carcerario, perché il carcere c’è, c’è anche una fase dell’esecuzione della pena, che in linea di massima va fatta in carcere, però accanto a quel sistema ci deve essere un altro sistema, quello delle misure alternative al carcere, il sistema chiamato "area dell’esecuzione penale esterna", il quale si organizza con personale che ha la specifica funzione di controllare e sostenere la persona condannata.

La Corte è dettagliata, dice addirittura che, quando si ricostruirà la validità del percorso che la persona ha fatto all’esterno, si dovrà vedere se certi insuccessi sono legati alla mancanza di efficacia del sistema esterno, per esempio se questa persona ha perso il lavoro, se la perdita del lavoro ha coinciso con la perdita della correttezza dell’inserimento sociale, etc.. Si dovrà tenere conto di questo, per valutare se veramente tutti gli sbagli, tutta la responsabilità deve essere attribuita a lui, se realmente tutta la pena deve essere nuovamente espiata, a partire dal momento in cui si era interrotta per la concessione della misura alternativa.

Sembra chiaro che sono due sistemi diversi: da una parte, pena fissa, pena inflessibile, pena che porta la persona, fino alla fine, nelle condizioni in cui si trova in carcere, dall’altra pena flessibile, che valuta il percorso interno del soggetto, che decide ad un certo momento se questo percorso debba cambiare e, al posto del carcere, del trattamento penitenziario interno, debba esserci un trattamento penitenziario esterno che dà alla persona la possibilità veramente di misurarsi, fuori dal carcere, con le difficoltà della sua situazione, e di superarle. Pensare che il reinserimento si leghi all’uso del bastone del carcere, è lontano dalla realtà.

In una valutazione spontanea, che una persona può fare su chi sconta una pena, si dice "È bene che stia in galera, perché solo così impara e solo così, quando uscirà, sarà un’altra cosa, sarà un’altra situazione". Questo discorso può andare bene per chi valuta le cose da fuori, ma mi sembra chiaro che una persona che ha fatto tutta la sua pena in carcere, che è stata dentro per non poco, quando esce non è che trovi le cose molto diverse da quelle che erano prima di entrare. Pensare che il reinserimento si leghi all’uso del bastone del carcere, nei suoi confronti, è lontano dalla realtà. Il discorso, molto più semplice, è che l’inserimento si realizza attraverso un periodo di prova controllata e sostenuta, quello di cui la Corte Costituzionale ci parla.

Sostanzialmente il primo quesito, quello della certezza della pena, è un quesito a cui costituzionalmente si deve rispondere di no. Se "pena certa" vuol dire "inflessibile", non può essere inflessibile. Per la Costituzione, per l’integrazione articolata che ne ha dato, in tantissime sentenze, la Corte Costituzionale, la pena deve essere flessibile e deve servire alla inclusione delle persone. Includere o escludere le persone? Noi abbiamo ragionato, la Corte Costituzionale ragiona, e in tanto tempo si è pensato, con abbastanza tranquillità, che la finalità dell’esecuzione della pena dovesse essere l’inclusione, e non l’esclusione delle persone.

Invece abbiamo sempre colto i processi di carcerazione come processi di esclusione delle persone. Le persone ricevevano una stigmatizzazione, dalla quale non riuscivano a liberarsi, che le accompagnava poi nel resto dell’esistenza. Erano detenuti, o ex detenuti in procinto di tornare detenuti… questa era la loro vicenda esistenziale, in tanti casi, cioè nei casi sicuramente prevalenti.

Il concetto di inclusione è stato via via sempre più contestato da quella che oramai è la parola con cui si fa bella figura: la parola "sicurezza". Senza aggettivi. Perché invece la parola "sicurezza", in tutte le politiche sociali degli ultimi 30 anni, è apparsa ripetutamente, ma veniva sempre accompagnata dall’aggettivo "sociale". Sicurezza sì. Ma che sia "sicurezza sociale"

Tutti gli Enti locali avevano un Assessorato alla sicurezza sociale. Sicurezza sociale voleva dire cercare di costruire le condizioni per cui c’era una vivibilità dell’ambiente in cui si stava, e cogliere gli aspetti critici che queste situazioni urbane e sociali presentavano, perché così potessero essere rimossi. La sicurezza sociale lavorava in particolare sulle situazioni di disagio, di emarginazione, proprio per eliminarle, proprio per includere quello che era nella situazione reale escluso.

Invece ora il discorso diventa diverso. Diventa quello di una sicurezza che deve essere sicurezza, che coglie i punti deboli e, diversamente dai bei manifesti che sono usciti, per chi cade non c’è nessuno che vada a raccoglierlo e a rimetterlo in piedi. Chi cade le busca, le prende, chi cade è colui che disturba la situazione sociale generale, di persone che sono garantite, nel senso che vivono una situazione normale, una vita tranquilla e, molto spesso, non sono ricchi signori, sono anche persone modeste, che vivono una vita tranquilla, integrata, e queste persone sono disturbate da chi è escluso.

Sono la maggioranza, ovviamente, mentre dall’altra parte ci sono i tossici, gli stranieri senza arte né parte, o con arte e parte ma sempre stranieri, quelli che vivono nella precarietà, le persone che hanno problemi di ordine psichico, di insufficiente integrazione sociale. Ecco, allora, i poveri barboni massacrati di questi giorni, e qui bisognerà vedere bene perché accadono queste cose. Tutte queste sono persone che non c’entrano, con la politica complessiva, e quindi ci dev’essere questa scopa che spazza via e che le mette al margine.

Ci sono molte situazioni in cui si sviluppa una politica di questo genere, come gli Stati Uniti, dove ci sono due milioni e duecentomila detenuti e dai sette agli otto milioni di persone in trattamento alternativo alla detenzione. E questi sono trattamenti che, se non seguiti puntualmente, si risolvono in ulteriore detenzione.

Ecco, questi numeri enormi, in quel particolare sistema, funzionano come "bombe intelligenti" che colpiscono in un largo raggio, quello della precarietà, della povertà, della non collocazione sociale, e lentamente questo raggio viene colto, visto, definito e, in qualche modo, distrutto, nel modo in cui si distrugge socialmente una persona, escludendola nelle galere.

Il problema è che questa esplosione diventa sempre più grande, fino a che sarà difficile difendersi da essa. Siccome poi le politiche sociali sono state sospese per un problema di spese e di costi, va detto anche che negli Stati Uniti invece la spesa per la sicurezza è incredibile, sta superando ogni livello, fino a che si renderanno conto che è essa stessa insostenibile.

Collaborare per scrivere una carta dei diritti sociali, una carta normativa che, poi, renda possibile difenderli. Per finire, riprendo alcune considerazioni che mi sono venute in mente di ritorno da Torino, dove c’è stato un incontro organizzato dal gruppo Abele nel quale il mio collega Pipino ha parlato dei diritti sociali, ed è venuta fuori l’idea di collaborare per scrivere una carta dei diritti sociali, una carta normativa che, poi, renda possibile difenderli.

Anche i detenuti sono portatori di una serie di diritti, cominciando dal diritto alla salute fino al reinserimento sociale. E noi sappiamo che, quando finisce la carcerazione, comincia una corsa ad ostacoli fra tutte le particolari esigenze di chi ha una pena accessoria, una misura di sicurezza, le patenti che non vengono ridate, la pena pecuniaria che si esegue non si sa bene quando, non si sa bene come… Di questa corsa a ostacoli non ci siamo mai occupati, ma il diritto al reinserimento sociale è proprio da inserire nella carta dei diritti sociali. Ecco, la mia proposta è questa: proviamo a costruire una carta dei diritti delle persone condannate.

 

Alessandro Margara

 

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