Dentro & Fuori

 

"Tutti in galera"

 

Scrittori che fanno i calciatori, giornalisti che rincorrono detenuti, detenuti che parlano bene e calciano anche meglio: una giornata particolare nella Casa Circondariale di Padova

"Tutti in galera": strano titolo per una giornata di festa nella Casa Circondariale di Padova, organizzata dal Centro Sportivo Educativo Nazionale, ma un titolo significativo perché, in un momento in cui le carceri sono abbandonate davvero da tutti, portare dentro scrittori e giornalisti, quelli che più e meglio si occupano di comunicazione, è importante. E così è entrato Alessandro Baricco in qualità di calciatore, per partecipare a un triangolare con in campo scrittori, giornalisti e detenuti, e sono entrati altri scrittori, tra i quali Carlo Lucarelli e Davide Pinardi, a discutere con i detenuti e poi a sfidarli, con poca fortuna, a calcio. Alla tavola rotonda di fronte ai detenuti c’erano anche gli assessori (Sebastiano Arcoraci e Vera Slepoj per la Provincia, Raffaele Zanon per la Regione) e altri rappresentanti della società civile. Tutti in galera.

La testimonianza che segue è di un "nuovo giunto" per un giorno, lo scrittore Davide Pinardi, che il carcere lo conosce bene perché per anni ha insegnato a San Vittore.

 

Una globalizzazione "ristretta"

 

Una giornata sudamericana. O asiatica. Araba oppure centro-africana. Ma anche un po’ europea… comunque decisamente italiana. Insieme veneta e mediterranea.

In apparenza mancavano nord-americani ma c’erano anche loro, da qualche parte nel grande cortile. Io ho sentito parlare inglese con accento yankee. E poi molte facce slave e qualche biondo del nord.

Insomma una giornata globale, a ben vedere. Certo una globalizzazione alquanto singolare.Una globalizzazione "ristretta" in un cortile con alte reti attorno e guardiole di vigilanza. Tutti insieme in un luogo solo. In ogni caso una giornata divertente e allegra (rispetto alla norma). Indubbiamente per tutti una parentesi in qualche modo insolita.

Per alcuni è stato, come sempre, rimanere chiusi in gabbia; ma almeno facendo qualcosa di un po’ diverso. Non una grande consolazione ma un passatempo.

Per altri, per quelli che venivano in visita dall’esterno, un’esperienza di vita e di comprensione, visto che certi mondi non si capiscono se non li si vedono di persona, con i propri occhi, i propri sensi. Le descrizioni altrui sono inutili, bisogna visitarli certi luoghi, sentirne gli odori, gli spifferi, i tagli di luce e i giochi di colore. O, per meglio dire, i giochi di grigiore…

Nel carcere circondariale di Padova la giornata di sabato 28 settembre è passata in questo modo: alla mattina una tavola rotonda alla presenza di tutti i detenuti e con la partecipazione diretta, aperta e incisiva, di alcuni di loro; al pomeriggio invece un grande torneo di calcio internazionale, un triangolare, tra giornalisti padovani, nazionale italiana scrittori e due selezioni interne del resto del mondo, una con giocatori della sezione A e una della B.

La tavola rotonda della mattina è stata molto interessante: io però ero uno dei partecipanti e quindi il mio giudizio non è probante (ma la maggior parte del pubblico ha seguito con un certo interesse, a volte anche con passione…).

Chi ha fatto la migliore figura, a mio parere, sono stati decisamente i detenuti. Anche gli altri intervenuti hanno detto cose interessanti, alcune ben meditate, altre meno. Gli organizzatori della giornata, per esempio, sono stati davvero in gamba. Ma i detenuti ci hanno messo la loro quotidianità reale, le loro sensazioni dirette, il loro vissuto, le loro storie. Loro erano lì al 100 per 100 con il corpo, con la testa, con il cuore, con l’anima. Non all’80 per cento, al 60, al 32, all’11 per 100… Non è una critica, è un dato di fatto: chi non è dentro al carcere giorno e notte, chi non dipende totalmente dall’istituzione, non può sentirsi dentro totalmente. Qualcosa in lui gli scappa via, cerca di star fuori dalla gabbia…

E poi i rappresentanti dei detenuti non hanno commesso un errore che credo sia molto facile commettere: non l’hanno buttata sul pietismo. Sono stati concreti, precisi, diretti, realistici (soprattutto Gianfranco). Hanno parlato di questioni pratiche: la necessità che il giudice di sorveglianza possa essere più presente, il carrello vivande che a volte è sporco, il bagno per i parenti in visita che è sempre rotto, il desiderio di un maggior rispetto delle tradizioni alimentari delle varie etnie. E dal concreto sono partiti per esprimere il loro desiderio di un indulto (non soltanto annunciato nel teatrino della politica ma veramente messo in atto).

Ascoltando le loro parole, sentendo quanto lì mi dicevano esperti e conoscitori del problema, mi sono continuato a domandare: perché in Italia l’opinione pubblica è tanto intollerante e severa con gli emarginati, gli stranieri, quelli che arrivano da lontano inseguendo sogni e che hanno tante attenuanti ai loro errori? Perché, al contrario, è così comprensiva con i potenti, con la classe dirigente, con chi sfila portafogli dalle tasche non una volta sola ma tutti i giorni, suonando un piffero allegro?

Poi è venuto il triangolare di calcio. Ovviamente hanno stravinto le squadre di casa. Le ragioni del trionfo sono evidenti. Un po’ perché conoscevano il terreno di gioco (terreno o sassaia?)

Un po’ perché di età media assai più bassa. Soprattutto perché provviste di un organico con molti buoni giocatori e alcuni fuoriclasse. Si sono visti tiri al volo, tunnel, passaggi di tacco, interventi acrobatici: prodezze sottolineate dai vivissimi applausi di un pubblico appassionato e non fazioso ma amante del bel gioco. Insomma, una bella giornata, o almeno meno brutta del solito per alcuni. Grazie a chi l’ha resa possibile.

 

Davide Pinardi

Fra’ Beppe un frate poco obbediente che entra in tutte le carceri

 

Anche in quelle che sembrano dimenticate da Dio e dagli uomini. Di solito durante l’estate gli incontri nelle carceri tra operatori, volontari, e detenuti diventano molto rari sino ad azzerarsi. Fra’ Beppe Prioli è fra i pochi che pensano che i problemi del carcere non vanno in ferie, e così questa estate è venuto a trovarci in redazione e a "confortarci". Per chi è detenuto da molti anni il suo è un nome famigliare. Ma cosa ha spinto Fra’ Beppe ad occuparsi dei detenuti, e cosa sta facendo attualmente? Queste ed altre domande gli abbiamo posto, e parlare con lui è sempre e comunque un’esperienza piacevole, per la carica d’umanità e simpatia che riesce a trasmettere.

 

Fra’ Beppe, sono molti anni che sentiamo parlare di te. Ci vuoi dire chi sei esattamente?

Ho 59 anni e sono 39 anni che frequento gli istituti di pena. Ho scoperto il carcere perché leggendo, per caso, Famiglia Cristiana, nel 1963, trovai la notizia che un giovane della mia stessa età, 20 anni, era stato condannato all’ergastolo. Mi ha colpito e mi ha fatto riflettere anche per la mia scelta, perché non avevo ancora deciso di essere frate. Appena ho potuto gli ho scritto di nascosto: ho subito trasgredito alle regole dei frati. La mia prima visita in carcere l’ho fatta a Porto Azzurro.

Da allora, che l’ho visto, non ho più mollato questo mondo qui. E se oggi sono frate devo dire grazie a Dio del dono che mi ha fatto, grazie a tutti gli amici che ho incontrato e che incontro, che mi danno la carica, la forza di continuare, ma anche uno scopo alla mia vocazione, e poi grazie alla pazienza dei frati, che ne hanno tanta verso di me, perché non obbedisco mai.

 

Abbiamo letto il tuo libro, Fratello lupo. Da cosa nasce questo soprannome?

Era un periodo in cui si davano dei giudizi drastici, tipo: quando uno prende l’ergastolo, non si può più riscattare. Allora mi è venuta l’idea. Con don Ciotti, ho detto: ma come, io è una vita che seguo gli ergastolani che poi escono, alla fine (per fortuna tutti escono), e ho visto persone riscattate. Tra i quali uno che io ricorderò sempre, che è stato un po’ il mio maestro, un maestro che mi ha insegnato ad entrare in carcere, e poi come muovermi, come ascoltare, mi ha suggerito lui che da solo non potevo fare niente, mi ha suggerito lui di far nascere l’Associazione la Fraternità di Verona, nel 1968: Pietro Cavallero. Lui certo ha fatto le sue trasgressioni, però ha saputo riscattarsi, tra l’altro anche facendo dieci anni di volontariato.

Lui non ha cercato giustificazioni per quello che ha fatto, ma quello che mi ha più colpito è che ha chiesto perdono alla città di Milano. Allora era giusto far conoscere all’opinione pubblica, al di là del male (perché il male non va giustificato), la comprensione.

 

Perché nel carcere l’unica cosa che trovo positiva, anche se lo dico "tra virgolette", è che ferma le persone, che le fa pensare. Ma non risolve i problemi. Quando mi ferma e mi fa pensare, se non ci sono però degli operatori che mi danno una mano, chi mi aiuta a riscattarmi?

Io sono sempre in crisi, quando vado in un istituto dove sento persone che fanno una lunga carcerazione senza uno scambio con persone all’esterno. Ci sono istituti dove la presenza della comunità esterna non esiste. Allora io frequento questi istituti, proprio perché la società esterna lì non entra. Ma il carcere ci appartiene, il carcere oggi è società.

 

Quanti istituti hai "frequentato" in Italia?

Io, in questi 39 anni, ho frequentato, direi, 250 istituti. Solo che adesso, nel ritornare, trovo i nuovi istituti, e vado in crisi perché le vecchie strutture avevano i loro problemi, però erano più a misura d’uomo. Nei nuovi istituti, in queste strutture immense, mi sembra che qualcosa impedisca un rapporto immediato. Ci sono dei vantaggi, però ci sono anche molti svantaggi.

 

Sei potuto entrare in tutti gli istituti o in qualcuno ti hanno impedito l’accesso?

No, sono entrato in tutti gli istituti. Nessuno può impedirmi di entrare. Accetto le condizioni, ma quello di entrare in carcere è un diritto - dovere come cittadino, ma anche come francescano. A volte faccio chilometri, anche 1000 Km, per un colloquio solo. È giusto che dia a chi me lo chiede un segnale: per te esisto.

 

Abbiamo saputo che tu - ed altri frati francescani - vi siete recati nel carcere di Tolmezzo. Cosa ti ha spinto sulle montagne, cosa sei andato a fare?

Noi Frati Minori Francescani del Veneto siamo entrati a Tolmezzo. Ovviamente, dopo aver chiesto l’autorizzazione al Ministero, all’ufficio trattamento detenuti, e aver messo quell’ufficio a conoscenza del programma che volevamo svolgere. Hanno espresso parere favorevole sia l’Ufficio trattamento di Roma, che il direttore, il dottor Pirruccio. Un gruppo di giovani frati, una ventina, ha voluto fare un’esperienza in Carnia, una Carnia abbandonata dal clero e priva oggi della presenza dei frati. C’era una vecchia abitudine, che ogni famiglia vedeva un frate entrare casa per casa, ma questo accadeva 50 anni fa. Allora questi giovani frati invece di andare in ferie altrove, si sono recati in Carnia per un mese. Così ho pensato: "In Carnia c’è un carcere, Tolmezzo, ed è giusto, cari frati, che noi entriamo in quel carcere".

Siamo andati in Carnia in sette religiosi, e la missione era impostata su tre punti: l’accoglienza, cioè conoscersi, l’ascolto, l’annuncio della parola di Dio. Però volevamo dare anche un messaggio francescano: Francesco si è incontrato con i lebbrosi; Francesco faceva accoglienza ai briganti; Francesco ha avuto l’incontro con il lupo di Gubbio.

 

Secondo te c’è discriminazione da parte della società nei confronti del carcere?

Secondo me oggi non ci sarà la lebbra in Italia, però ci sono i cosiddetti "lebbrosari". Quando vedo un carcere lontano 20 km. dalla città, per me è un lebbrosario, perché vuol dire che lì ci sono persone che non interessano a nessuno. Quando sono stato al carcere di Teramo, per esempio, ho preso un taxi, e dopo mezz’ora di viaggio ho chiesto all’autista dove mi stava portando: "In galera…guardi che è parecchio fuori", mi ha risposto.

Quando siamo arrivati al carcere ho parlato col direttore, col cappellano e un ispettore, e gli ho detto: "Ma secondo voi questa struttura appartiene alla città oppure no, e se appartiene alla città perché costruirla così fuori, lontano?". Ecco allora perché noi francescani siamo andati a Tolmezzo, ed abbiamo trovato un carcere disposto ad accogliere la nostra iniziativa, pur con tutte le sue misure di sicurezza. Aver trovato il carcere aperto ci ha permesso di portare il nostro messaggio, tanto ai detenuti comuni che a quelli dell’alta sicurezza. In particolare a questi ultimi, perché sono detenuti che si sono dati delle regole loro stessi, e non a caso in quei tre giorni avevano le celle aperte e non c’è stato alcun problema. Siamo stati a Tolmezzo il 29, 30 e 31 luglio, entravamo alle nove del mattino ed uscivamo alle cinque del pomeriggio, eravamo sette frati, e non è stata una cosa da poco.

Abbiamo pranzato in corridoio, un lungo tavolo con 50 persone, e tutto è andato bene, ognuno si è preso le sue responsabilità per il ruolo che aveva: noi come volontari, e le persone detenute, che sono rimaste correttamente nel loro ruolo, comprendendo appieno il significato della nostra presenza. Ci hanno chiesto l’ascolto, ci hanno presentato alcune richieste di un volontariato più professionale, maggiormente preparato. Poi ci hanno chiesto delle attività all’interno e delle opportunità lavorative all’esterno, e per ultimo l’accoglienza alle famiglie che vengono da lontano, affinché trovino un punto di riferimento.

Ecco allora che la nostra presenza non è stata solo in carcere, ma siamo andati in parrocchia, abbiamo parlato anche con il parroco di Tolmezzo ed abbiamo già studiato delle soluzioni. Adesso dovrei incontrarmi con il vescovo di quella cittadina, monsignor Brollo, e poi con il sindaco, quindi faremo un convegno per dire alla città di Tolmezzo che c’è una struttura, il carcere, che ci appartiene.

Dobbiamo vedere noi dall’esterno quale risposta possiamo dare ai cittadini che si trovano all’interno, tutto qui. In carcere siamo tutti uguali, ma ci sono detenuti che vivono in maniera diversa dagli altri, con un regime molto più duro a causa delle strutture e dei reparti in cui per legge sono tenuti, ci riferiamo all’alta sorveglianza, al 41 bis, il cosiddetto "carcere duro", ed è difficilissimo per chiunque incontrarli.

Sono situazioni delicatissime, noi abbiamo chiesto soltanto di celebrare una messa e di pregare con loro, e ci è stato concesso. Abbiamo voluto dare un segnale importante: che per noi francescani l’uomo, in qualunque situazione si trovi, non può essere privato della parola di Dio. 

Quella che segue è una lettera scritta dai detenuti
della sezione ad Alta Sorveglianza di Tolmezzo

 

Ai Frati Francescani, a Fra’ Beppe Prioli, agli operatori e a quanti hanno reso possibile "l’impossibile"

 

La solitudine è uno dei mali del nostro tempo, capita spesso che, pur stando in mezzo a tante persone, ci si senta soli. Abbiamo tutto ciò che desideriamo nella vita, ma spesso ci manca una cosa importante che non si può comprare, ma solo costruire: il rapporto personale sincero con le persone che ci circondano. Quando questo manca, ci si sente terribilmente soli perché incompresi dagli altri

I mass-media offrono un’immagine distorta della realtà. Sembra quasi che la società sia fatta solamente da persone sane, belle e felici.

In realtà ci sono persone che per vari motivi, vecchiaia, malattia, handicap o detenzione, vengono emarginate e lasciate sole senza un valido motivo, solo perché vengono viste come diverse, quasi contagiose o inutili. Invece, e parliamo per esperienza personale, basta davvero poco per avvicinare gli altri e scoprire che ogni persona racchiude in sé una grande ricchezza.

Spesso basta un piccolissimo gesto di solidarietà, un sorriso, perché sia chi lo compie, sia chi lo riceve, si sentano meno soli.

Noi detenuti della sezione Alta Sorveglianza sentiamo il dovere di ringraziare: l’associazione La Fraternità e gli operatori che hanno consentito a dei meravigliosi frati di portarci un sorriso.

Noi sappiamo quanto sia importante anche un piccolo gesto. Perché si può ricominciare daccapo solo se si è sopravvissuti. E i gesti, piccoli o grandi, un amore immenso o una semplice carezza sulla guancia, aiutano a sopravvivere.

La speranza è che giornate come queste non restino episodi isolati. Incontrare i Frati Francescani Beppe, Paolo, Dario, Stefano, Federico, Lorenzo, Marco e il cappellano del carcere Don Giampiero, e stato per noi molto importante. Speriamo che rappresenti quanto prima la realtà quotidiana e non l’eccezionalità del momento. Dunque, grazie! A nome di noi detenuti, della sezione Alta Sorveglianza di Tolmezzo.

 

A cura di Nicola Sansonna e Claudio Darra

 

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