Riflessioni dopo il convegno

 

Provare a cambiare pelle è difficile

di Daniele Barosco, Ristretti Orizzonti

 

Ho riletto l’intervento di mia sorella Jenny al convegno, quando dice “Mio fratello Daniele ha partecipato proprio qui in questo carcere al progetto di Ristretti Orizzonti e ha iniziato a parlare di sé, finalmente, perché con noi non riusciva proprio a parlare di cosa avesse fatto”. Penso e ripenso a quanta difficoltà ci sia nel comunicare all’interno della nostra società ed anche delle nostre famiglie.

Parto dal fatto che nessuno di noi è perfetto, quindi se ognuno di noi fa un profondo esame di coscienza ed entra nel proprio io più profondo, qualcosa di non limpido e trasparente forse lo trova. Ma parlarne è sempre complicato.

È chiaro che il reato commesso da una persona può condizionare la vita degli altri componenti della sua famiglia, nel mio caso quella di mia sorella e degli altri famigliari, ma esserne consapevoli e rispondere delle conseguenze delle proprie scelte sbagliate non è mai facile. Ricostruire poi dei rapporti stabili e duraturi che facciano riassorbire delle ferite così profonde ed a volte ancora sanguinanti non è scontato, ma ci si può provare con un po’ di umiltà e capacità di ragionare e confrontarsi con la famiglia, senza voler sempre fuggire dalle proprie responsabilità.

La sofferenza e le difficoltà che mia sorella ha incontrato ed incontra, come quelle di tutti i famigliari delle persone detenute, servono almeno a far capire anche alle vittime dei reati quanto siano complicate le storie che ci sono dietro ogni reato e quanto sia complessa la pena stessa.

Non intravedere solamente odio, afflizione estrema, rancore e male, può aprire la strada ed il cuore a sentimenti e riflessioni capaci di far emergere altri aspetti della pena, simili o vicini a quelli che ha visto mia sorella, con occhi indulgenti, ma anche molto fermi sulle sue posizioni di persona credente, che non mi ha mai fatto “sconti” ma sa anche il valore del perdono.

La sofferenza generata ai nostri famigliari, oltreché alle vittime del reato stesso, per non essere riusciti a “pensarci prima” di compiere i reati, come ci ricordano spesso gli studenti con cui noi nel progetto che facciamo con le scuole ci siamo confrontati, fa capire quanto complesso sia ricostruire delle relazioni dopo un terremoto emotivo le cui conseguenze sono del tutto imprevedibili ed impreviste.

Nell’ottica di dare un senso alla pena, quello di riparare e rigenerare sani rapporti con le famiglie del detenuto, ma anche con i famigliari delle vittime dei reati commessi, è sicuramente un obiettivo ambizioso, ma se veramente perseguito io sono convinto che sia raggiungibile.

Cercare la via del dialogo è un atto di coraggio fatto da entrambi, famigliari delle persone che hanno commesso un reato e famigliari delle vittime del reato stesso. A volte mi pare che ci si dimentichi una verità così semplice: che la rabbia e l’odio nel cuore non generano sicuramente una società migliore e più coe­sa e non riducono le probabilità di recidiva. La rabbia e l’odio spingono solo a tenere in galera fino all’ultimo giorno le persone, cosa poco utile per la società, sia dal punto di vista della sicurezza in generale, sia da un punto di vista strettamente economico, visti i costi di mantenimento di una struttura pachidermica come il carcere.

In carcere però ci finiscono spesso persone disagiate, emarginate e prive di mezzi, come le loro famiglie. Quindi come si può riflettere sulla ricostruzione di rapporti con famiglie, che sono in chiara e permanente difficoltà, e sul delicato rapporto con il reato e la vittima dello stesso, se non si arriva a mettere insieme il pranzo con la cena?! Anche qui dovremmo aprire una lunga riflessione sulla giustizia per i poveri e per gli altri... meno poveri e meno puniti, e sul fatto che parlare di assunzione di responsabilità da parte delle persone detenute è un’opera titanica, nel contesto attuale delle carceri.

Io sto affrontando, da semilibero, giorno per giorno un percorso lento, quasi estenuante di recupero e ripristino della mia vita e delle relazioni che servono per non farla ripiombare in un incubo. Credo che, se non riuscissi a ritrovare la mia famiglia, i miei colleghi di lavoro, una relazione sentimentale stabile, non saprei neppure dire quale sarebbe il mio scopo finale in questo mondo così preso dai suoi ritmi frenetici e dalla spasmodica corsa al successo, ai soldi, alle scorciatoie, tutte cose che mi riportano indietro nel tempo, quando anche la mia vita era fatta così, e alla fine mi ha regalato solo sbarre e mura di cinta.

 

Il carcere di oggi deresponsabilizza, spegne il cervello

 

Un ruolo fondamentale secondo la mia esperienza lo hanno anche i magistrati, che osservano la persona e le concedono o meno le possibilità di confrontarsi con l’esterno attraverso le misure alternative. Trovare spazi adatti alla riflessione sul reato, alle conseguenze che ha portato alla propria famiglia ed a quella delle vittime nel carcere di oggi è un’impresa quasi impossibile senza un aiuto esterno, senza un reale sostegno da parte di persone che ti aiutino a capire e farti capire.

È solo nel duro confronto giornaliero con la famiglia, con il lavoro, con la responsabilità verso gli altri, con la scuola e la cultura la chiave di volta che può indurre la persona che ha sbagliato a recuperare se stessa e recuperare le emozioni positive nei confronti degli altri.

Un carcere chiuso, inutile, privo di relazioni con l’esterno che ti mettano alla prova sul serio, che ti sollecitino a svegliarti, è deleterio. Serve solo a riprodurre il clima fertile per ricommettere gli stessi sbagli di prima o a peggiorarne le conseguenze.

Io ho avuto la fortuna di avere vicino mia sorella e la mia famiglia, i miei parenti e gli amici che mi hanno aiutato e mi aiutano ogni giorno, non solo materialmente, questo si sarà capito. E voglio ricordare anche la redazione di “Ristretti Orizzonti”, tutti i volontari ed amici esterni della redazione, ora che sono fuori, perché sono consapevole che è importante ricordarsi che gli altri esistono non solo quando servono, dobbiamo ricordarci di loro e dei nostri famigliari anche quando siamo riusciti a venir fuori da un’esperienza negativa, a vincere le nostre paure, ad uscire dal tunnel dell’odio e della violenza.

Provare a “cambiare pelle” quando si è adulti con storie pesanti come le nostre è difficile, impegnativo, quasi impossibile. Ho detto “quasi”, non a caso, l’opportunità bisogna saperla cogliere e qualcuno può e deve proporla, come il magistrato ad esempio, e gli operatori del carcere, e le famiglie, quelle del detenuto e forse anche quelle delle vittime, possono accettare questa sfida, i volontari possono appoggiarla. Perché provare a spezzare le catene che legano odio e carcere, dolore e vendetta, male e reato è sempre molto difficile, ma farlo da soli lo è ancora di più.

Il carcere di oggi deresponsabilizza in quanto spegne il cervello e lo proietta solo sulla pura sopravvivenza quotidiana, non lascia gli spazi necessari al vero e profondo senso di una pena umana, cioè di una pena che faccia cambiare veramente nelle persone detenute il modo di saper ascoltare gli altri, siano essi i propri famigliari o i famigliari delle vittime del reato.

Di questo credo si dovrebbero occupare le istituzioni, per una politica della sicurezza e della giustizia lungimirante, ma forse questo non interessa a nessuno.

 

 

Ci sono parole e gesti che lasciano il segno

 

di Maurizio Bertani, Ristretti Orizzonti

 

Il convegno di quest’anno, “Spezzare la catena del male” ha sicuramente avuto un impatto fortissimo sul mio senso di responsabilità, o meglio sulla mia irresponsabilità. Già il convegno 2008, “Sto imparando a non odiare”, dedicato all’ascolto del dolore delle vittime, e il convegno 2009, “Prevenire è meglio che imprigionare”, dove dall’ascolto siamo riusciti ad arrivare a un dialogo con le vittime e a una comune idea di come fare prevenzione, avevano segnato una tappa importante nel riconoscimento dell’altro, ma quest’anno l’incontro mi ha toccato corde personali lasciando un segno indelebile.

Porre al centro dell’attenzione i miei famigliari nelle condizioni di vittime, in primo luogo di me stesso, che sono un autore di reati di cui mi assumo la piena responsabilità, in un confronto con le vittime che hanno subito un male reale, intimo e fisico, è stato molto difficile, perché non sono del tutto equiparabili le due condizioni di vittime. A equipararle infatti si correrebbe il rischio di commettere un errore simile a quello che commette la società quando equipara i miei famigliari alle mie stesse condizioni di autore di reato. Penso a mia moglie, mio figlio, i miei nipoti, fratelli e sorelle. Quante volte sono stati additati non come persone, ma “sai quella è la moglie, o il figlio, il nipote, il fratello, la sorella di quello che è in carcere per rapina”, in una sorta di attribuzione di una colpa, che non c’è, né penalmente, né moralmente?

Il nostro confronto è avvenuto con vittime che hanno subito direttamente il reato, quindi un torto, un’offesa a volte sfociata nella perdita di un famigliare, di una persona cara, vittime con una elevata sensibilità e con un senso civico collettivo eccezionale, vittime che si pongono il problema, pur nel loro dolore, del rispetto degli altri. Penso a Maria Agnese Moro, a Sabina Rossa, a Silvia Giralucci, a Giorgio Bazzega, tutte persone accomunate dal fatto di aver avuto il padre ucciso dalle Brigate Rosse. Penso a Lorenzo Clemente, marito di Silvia Ruotolo, uccisa nelle strade di Napoli durante un conflitto a fuoco fra bande rivali della camorra. Ma penso anche a tutti coloro che hanno subito un danno dai miei comportamenti e dai miei reati, sia materialmente che, soprattutto, psicologicamente, non avendo io per fortuna avuto vittime per reati di sangue.

Così i pensieri girano vorticosamente intorno a tutte queste persone, agli esperti di mediazione penale, ai rappresentanti delle istituzioni che sono intervenuti al convegno e alle oltre 500 persone che vi hanno partecipato con attenzione dall’inizio alla fine, che hanno ascoltato detenuti, famigliari di detenuti e vittime e tutte si sono poste il problema di considerare i famigliari dei detenuti come vittime, se vogliamo secondarie rispetto alle vittime reali, ma pur sempre vittime, in primo luogo dei propri congiunti detenuti, e poi delle istituzioni e della collettività.

Ecco, tutto questo è stato come ricevere un pugno alla bocca dello stomaco, si rimane senza fiato a scoprire che in fondo al loro dolore queste persone non provano né odio né rancore, ma riconoscono che i famigliari dei detenuti sono sia durante la carcerazione, che anche dopo, delle vittime, che le responsabilità delle azioni criminali sono di chi le commette e non anche dei loro famigliari, che quindi non dovrebbero affatto subire lo stesso trattamento riservato ai loro cari in carcere.

 

Le vittime non possono avere un ruolo nell’esecuzione della pena

 

È importante anche che le vittime, andando oltre qualsiasi naturale desiderio di vendetta, riconoscano che vi sono delle leggi per chi commette reati, che in base a queste leggi vengono emanate condanne che vanno rispettate, che ci sono altre leggi che riguardano l’esecuzione di quelle condanne e che anche quelle vanno rispettate, e che non devono essere le vittime ad avere la responsabilità o essere ago della bilancia per il rientro nella società di quel detenuto, che ha rotto quel patto di convivenza civile attraverso il reato. Ma che questa responsabilità se la devono assumere le istituzione in quanto tali, in primo luogo il carcere che attraverso educatori, assistenti sociali, psicologi, criminologi, stabilisce le modalità del percorso risocializzante e rieducativo intrapreso dal detenuto, che viene poi sottoposto al controllo e alla valutazione del magistrato di Sorveglianza, che a sua volta stabilisce se e quando quel detenuto è nelle condizioni di non essere più la stessa persona che ha commesso quel reato, anni prima, e di poter iniziare un rientro graduale nella società.

Le vittime ci hanno detto che non possono essere loro a dire qualcosa su questi percorsi, e che ricevere lettere con richieste di perdono a volte può essere causa di dolore inutile e ria­prire ferite che il tempo non ha mai forse cancellato ma almeno sopito sì, perché non si può mai capire se chi le scrive è mosso da un vero e serio pentimento per il male fatto, o se é spinto solo dal desiderio di dare la scalata a una possibile libertà.

E ancora ci hanno detto che durante la detenzione i famigliari dei detenuti hanno il diritto di essere vicini concretamente ai loro congiunti, su una popolazione di detenuti di quasi 70.000 persone ci sono in media 5-6, componenti per famiglia, quindi almeno 350.000 persone a cui viene negato il diritto fondamentale ad avere un rapporto decente con il loro caro.

In tutte queste riflessioni, in tutti questi pensieri, che vorticano nella mente e nell’animo di un autore di reato, si pone una domanda insistente. Di fronte a queste persone ferite nel loro intimo più profondo, che mi parlano di leggi da rispettare, che mi parlano di umanità, che si assumono la loro responsabilità anche nei confronti di quella parte di società che con la sua devianza ha fatto del male, che affermano che i famigliari di un detenuto non devono pagare per le sue colpe e che vanno rispettate le loro esigenze di avere con i loro cari dei rapporti affettivi che non siano umilianti, come spesso avviene attualmente. Di fronte a tutto questo, una domanda continua a vorticare nella mia mente: Posso io autore di reato non assumermi, e non parlo penalmente, ma moralmente, tutte le mie responsabilità, responsabilità verso quelle persone a cui con i miei reati ho causato del male, responsabilità verso la società per aver rotto con i miei comportamenti devianti quel patto fondamentale di convivenza civile, la responsabilità di aver trasformato i miei famigliari in vittime?

Sono convinto che quel vuoto allo stomaco causato dal pugno di quel dialogare fra vittime e famigliari dei detenuti non mi permetterà di trattare con leggerezza o superficialità quei miei comportamenti, che ogni volta mi hanno portato in carcere e dei quali moralmente è ormai tempo che prima con me stesso e poi verso gli altri, mi assuma la totale responsabilità.

Non conosco il mio domani e non sono in grado di sapere che cosa mi riservi, ma la consapevolezza del mio passato e il dialogo con “l’altro”, con le persone che prima non sapevo rispettare, forse possono ancora migliorare anche il mio futuro.

 

 

 

Io e il convegno “Spezzare la catena del male”

 

di Filippo Filippi, Ristretti Orizzonti

 

Io credo di non aver mai partecipato ad un convegno, quantomeno in carcere, la mia prima volta è stata proprio la Giornata di studi “Spezzare la catena del male”. In ogni caso è stata un’esperienza che definirei di “carcerazione impegnata”, impegnata in modo costruttivo, nel senso che nei giorni precedenti e successivi si è dovuto lavorare tutti sodo, perché esso potesse svolgersi in una Casa di Reclusione oramai sempre più sovraffollata e che soffre anch’essa dei gravi tagli economici e di mancanza di personale. Anche qui infatti si percepisce tangibilmente lo sfascio delle carceri, ma nonostante ciò, con il contributo di tutti (e dico proprio tutti!), qui la situazione paragonata al resto del panorama carcerario è la meno peggio. E vale la pena sottolineare pure il ruolo delle Polizia Penitenziaria (e addetti ai lavori), nel riuscire comunque a mantenere in funzione un carcere ove si possano ancora svolgere attività di questi tempi “rivoluzionarie”, come appunto il convegno. Ma anche, quotidianamente, Ristretti Orizzonti, il TG 2 Palazzi, la biblioteca, la Rassegna Stampa, la scuola (alfabetizzazione, medie, medie superiori, università) le cooperative che sono splendide realtà, tutte attività che in parte possono far assomigliare il carcere di Padova a un carcere impegnato, più trasparente, dove è possibile intraprendere il difficile e faticoso percorso di “spezzare la catena del male” cominciando da coloro che il male l’hanno fatto e che prima o poi (salvo il ripristino della pena di morte o della legge del taglione), scontata la loro condanna dovranno uscire.

Per questo dobbiamo ricordarci sempre che le persone che lavorano o fanno volontariato quotidianamente in galera, quando lo fanno con dedizione, sacrificio ed impegno e non per un tornaconto personale, non sono affatto le “cenerentole” dei vari settori ai quali appartengono, ma sono in un certo senso l’anello ultimo della società, che all’interno delle galere vedono arrivare persone che sono state “macinate” dalla vita, e tentano, dove possibile, di rimetterle su una via anche solo più consapevole o quanto meno di limitare i danni futuri che da esse ci si potrebbe aspettare.

Detto questo confesso di essere rimasto molto colpito e quasi intimorito dalla portata del titolo dato a questo convegno e dallo spessore e dalla profondità interiore delle persone che sono intervenute (i cui interventi solo in parte sono riuscito a seguire, a causa del fatto che non sono più abituato a stare in mezzo a tutta quella gente).

Per un attimo mi è sembrato che ”guardie e ladri” si fermassero mettendo da parte i loro ruoli e le loro rivendicazioni, i torti subiti e quelli fatti, sedendosi intorno a un tavolo per vedere assieme cosa si potrebbe fare per il bene di tutti. Per qualche fuggevole momento ho pensato che queste persone debbano essere… matte o semplicemente più evolute di noi poveri umani sempre pronti a badare al nostro piccolo orticello e al nostro tornaconto.

In particolare mi ha colpito la figlia di Aldo Moro, Agnese Moro, che è stata toccante e di una sincerità disarmante. Ma anche la sorella di Gentian, che è detenuto con noi, ha parlato mettendosi veramente la mano sul cuore, e investendo il fratello di una grande responsabilità sulla sua futura uscita ed i suoi comportamenti una volta riacquistata la libertà.

E poi Ilaria Cucchi, con il suo tragico lutto sul quale si vuole stendere un pesante velo con il solito rimbalzo di responsabilità all’italiana sulla morte di suo fratello Stefano. Prima il sordo dolore di lei e della sua famiglia per avere un famigliare che inizia con le droghe, poi il ragazzo che piano piano sembra, anche con l’aiuto delle comunità, uscirne un po’ fuori, e poi, poi quello che è successo, che tutti intuiamo ma che nessuno ha il coraggio di dire chiaramente, sollevando il velo sul valore che ha la vita di un tossico o di qualche altro genere di categoria reietta.

Anche l’intervento di Giorgio Bazzega, ragazzo al quale le Brigate Rosse hanno ucciso il padre poliziotto, è stato estremamente interessante, mi ha colpito la sua disarmante sincerità, che, per persone che hanno subito quello che ha subito lui, credo sia il presupposto fondamentale per l’inizio di qualsivoglia tentativo di riappropriarsi di uno straccio di serenità interiore. Lui nell’immane fatica di “deporre le armi” dell’odio, durante alcune fasi di questo percorso ha finito per ricorrere anche a qualcosa che lo anestetizzasse o che apparentemente rendesse a lui la vita meno insostenibile, la cocaina. È poi riuscito a liberarsi delle “stampelle chimiche”, arrivando anche ad intrattenere un dialogo con gli ex terroristi, grazie a una presa di coscienza che la rabbia, la rabbia inesplosa ”dentro” fa male!

Ho sentito discorsi molto interessanti sulla pena, le sue finalità e soprattutto sulle vittime dei nostri reati ed il loro lunghissimo calvario, il dolore per la perdita di un famigliare o comunque di una persona amata.

Tenendo conto del periodo di deriva sociale che stiamo attraversando, è significativo che in carcere si approfondiscano questi aspetti, visto che il Parlamento non pare più essere luogo consono ad affrontare questioni così complesse e importanti.  

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