Volontariato

 

Quanto pesano le responsabilità

dell’informazione sul disastro delle carceri

Un sovraffollamento che nasce anche da un corto circuito tra informazione,

reazione dell’opinione pubblica ed effetti che questa reazione

ha sull’atteggiamento degli operatori del sistema penale e penitenziario

 

di Stefano Anastasia, Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia

 

Sebbene in forma indiretta, anche noi della Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia siamo una fonte importante per l’informazione sul carcere, anche se ciò avviene più attraverso il rapporto diretto con le persone che attraverso quello con i media. Il nostro è un ruolo molto particolare, che definirei “anfibio” data la nostra collocazione a mezza strada fra il “fuori” e il “dentro”, e che consente a noi volontari più che ad altri di rappresentare all’esterno senza filtri e quasi in tempo reale gli stati d’animo, i fermenti e le tensioni che si sviluppano dietro le sbarre. Si tratta di una funzione delicata, che richiede da parte nostra una buona dose di senso critico e di misura, perché nel portare all’esterno umori e istanze della popolazione carceraria si corre talvolta il rischio di “tradirle”, o quanto meno di non cogliere certe sfumature che nell’ottica esterna possono magari apparire secondarie e che invece, viste da dentro, assumono grande importanza.

Benché abbia alle proprie spalle una lunga e meritoria storia di presenza nelle carceri, il volontariato penitenziario italiano si è misurato in questi ultimi dieci-quindici anni con situazioni nuove e complesse, che lo hanno spronato a superare i limiti generosi ma angusti in cui si svolgeva tradizionalmente la sua attività, per manifestarsi attraverso forme del tutto nuove di sostegno e di stimolo alla popolazione reclusa, e di raccordo fra il “dentro” e il “fuori”. Esemplare, in proposito, è stata proprio l’esperienza rappresentata, qui a Padova, da Ristretti Orizzonti, una pubblicazione – nata sotto l’impulso del volontariato – che non si è limitata a raccogliere gli sfoghi dei detenuti ma che ha puntato, fin dai suoi primi numeri, a dare un carattere propositivo alla propria azione, responsabilizzando così i suoi redattori-detenuti e mettendoli in relazione viva e dinamica con l’istituzione penitenziaria e con il mondo esterno.

Io ho ormai una certa esperienza di carcere, e vorrei ricordare che questi benedetti 62.000 detenuti che riempiono le carceri italiane – come mai prima d’ora era accaduto nella storia dell’Italia repubblicana – sono destinati a rappresentare un record soltanto temporaneo se la classe politica non si affretta a imboccare la via di politiche radicalmente diverse da quelle che sono state perseguite in questi anni. I 62.000 detenuti di oggi costituiscono infatti il punto d’arrivo – transitorio, ripeto, perché destinato a crescere in assenza di scelte decise e coraggiose – di una lunga rincorsa che ormai dura da sette-otto anni e che io, come tutti quelli che si occupano attivamente di carcere, ricordo perfettamente. Tutto cominciò con una accesa e insistente campagna di stampa innescata, nell’estate del 1999, da un grave, clamoroso delitto commesso da un detenuto in regime di semilibertà. Televisione e giornali hanno iniziato a battere senza sosta sulla questione della “incertezza della pena”, contribuendo in modo decisivo a diffondere nella pubblica opinione la fallace convinzione che le maglie dell’esecuzione penale nel nostro paese sono troppo larghe, e che le misure alternative servono non a recuperare persone, favorendo il loro inserimento graduale in una regolare vita sociale, ma semmai a mettere in libertà anzitempo e senza alcun controllo ladri, rapinatori e assassini.

Fatto sta che, a partire da quell’estate 1999, la popolazione dei detenuti in Italia, a legislazione immutata, ha cominciato a crescere al ritmo di mille unità al mese, e parallelamente ha iniziato a inasprirsi l’atteggiamento con cui gran parte dell’opinione pubblica segue le vicende della giustizia penale in Italia. Tale inasprimento ha riguardato ovviamente anche e soprattutto gli operatori del settore, a tutti i livelli di responsabilità e di intervento: dagli agenti di polizia, che sono diventati più solleciti, o per meglio dire più affrettati, nel fermare “sospetti” per strada, agli stessi magistrati di Sorveglianza, che hanno preso a interpretare in maniera sempre più restrittiva l’Ordinamento penitenziario, concedendo le misure alternative a quote nettamente più limitate di detenuti. Anni di totale assenza di scelte politiche lucide e coraggiose, in un contesto di pubblici malumori sempre più diffusi e spesso anche montati da campagne di stampa di sapore forcaiolo, hanno insomma avuto l’effetto di ingolfare le carceri di un numero impressionante di detenuti e di indurre gli operatori della giustizia, a tutti i livelli, a dare un’interpretazione sempre più angusta e restrittiva al proprio ruolo professionale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, al punto che oggi solo chi non vuole vedere può ancora ostinarsi a negare la gravità non più sostenibile della situazione in cui versa il sistema penitenziario italiano.

Quella attuale è una situazione di evidente, assoluta emergenza, a cui si può porre momentaneo e parziale rimedio – in attesa di una riforma complessiva della giustizia penale, che limiti il ricorso alla detenzione ai soli casi per cui è davvero necessario – con un provvedimento di clemenza già troppo a lungo negato. Sfoltire la popolazione carceraria con un indulto e un’amnistia è necessario non solo per ripristinare quegli standard minimi di vivibilità che un paese che si considera civile ha il dovere di garantire a chiunque, condannati compresi, ma anche per rimettere gli istituti penitenziari nelle condizioni di poter effettivamente assolvere alla funzione non meramente afflittiva, ma anche e soprattutto rieducativa, che la nostra Costituzione gli affida.

La televisione e i giornali hanno certamente qualche responsabilità se in questo paese è diventato così difficile parlare in modo obiettivo ed equilibrato di giustizia penale e di carcere. Ed è appunto per questo che considero importante che al convegno odierno abbiano aderito autorevoli rappresentanti dell’Ordine dei Giornalisti, della Federazione nazionale della stampa e dello stesso Ufficio del Garante della privacy. Questo paese è sull’orlo di un baratro, per quel che riguarda la dignità delle persone detenute; e per evitare di cadere in questo baratro occorre un grande senso di responsabilità da parte di tutti, a partire da coloro che nei prossimi giorni saranno chiamati a discutere in Parlamento di indulto e di amnistia per finire al cosiddetto uomo della strada, che per farsi un’opinione su temi così delicati ha bisogno di un’informazione corretta e completa, che coltivi in lui una serena attitudine alla riflessione piuttosto che la paura e il pregiudizio. Il mio augurio è che il confronto fra carcere e informazione promosso oggi da Ristretti Orizzonti possa rappresentare il punto di inizio di un modo più equilibrato e costruttivo di comunicare i temi della giustizia e del carcere, che sappia coniugare il diritto-dovere di informare con il rispetto della verità e della dignità personale delle persone private della libertà.

 

 

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