Un sorriso è solo un sorriso, anche se di Erika

Ha senso immergere una persona in una situazione giocosa e poi scandalizzarsi se viene anche a lei da sorridere? E che rapporto c’è, fra elaborazione interiore del pentimento e sua manifestazione esterna? Ed è accettabile, infine, che quattro riprese durante una innocente partita di pallavolo siano state sufficienti a riattizzare la sete di pubblica vendetta di cinque anni fa, quando il “mostro” Erika fece la sua comparsa sulla scena?

 

di Marino Occhipinti

 

Nonostante sia passato ormai del tempo, non si è ancora spenta del tutto l’eco suscitata dalla prima uscita dal carcere di Erika De Nardo. Alle molte cose che già sono state dette in televisione e scritte sui giornali, vorrei aggiungere qualche considerazione personale, che ha se non altro la pretesa di fare un po’ di chiarezza su alcuni punti secondo me essenziali.

Anzitutto l’orrore, certo, l’orrore. L’orrore del duplice delitto che Erika ha commesso è fuori discussione, e sicuramente non basta la manciata d’anni trascorsa da quel pomeriggio di sangue del 2001 per attenuarlo, o per renderlo più “comprensibile”. Data la natura del reato posso anche capire – sebbene non l’apprezzi per niente – quella sorta di sete di pubblica vendetta che all’epoca spinse molti a invocare il massimo della pena se non addirittura la morte per Erika e il suo fidanzatino-complice Omar, e a manifestare sdegno poi per condanne ritenute eccessivamente miti. In un paese civile, però, quando si imbocca la via della giustizia (processo, condanna, esecuzione della pena) la si dovrebbe perseguire poi con coerenza e condiviso senso della legalità; con pieno diritto di criticare, certo, ma anche con il dovere di attenersi alle circostanze reali, e di ragionare su di esse con mente fredda, facendo prevalere la serena valutazione degli elementi di fatto sul subbuglio degli umori e delle reazioni “a caldo”.

Erika, tanto per cominciare, non è uscita dall’istituto di Verziano a titolo di premio “personale” – come ripetutamente si è fatto intendere – ma nell’ambito di un’iniziativa “di gruppo” organizzata dal carcere, ovvero insieme ad altre sue giovani compagne di pena, con un programma preciso, rigorosamente delimitato e sotto scorta di agenti della Polizia penitenziaria. E c’è una differenza sostanziale, fra le due cose. Il permesso premio personale è infatti un investimento fiduciario che la Magistratura di Sorveglianza può decidere di fare su un condannato che ha scontato già una parte consistente della sua pena e che ha dato segni di ravvedimento, nell’ambito di un percorso personale di rieducazione e di progressivo reinserimento nella società; il permesso di gruppo, finalizzato a un’attività cosiddetta “trattamentale” (che può avere carattere sportivo, come nel caso di Erika, ma anche culturale, di studio) consiste invece nel momentaneo trasferimento “in esterni” di un blocco di detenuti che continuano però a essere “ristretti” a tutti gli effetti (e infatti a Boffalora, per la famosa partita di pallavolo, Erika e le sue compagne ci sono andate sul “cellulare” della Penitenziaria, mica con mezzi propri). Nel primo caso, tanto per capirci, uno “va a casa” (anche se magari per restarci chiuso, ai “domiciliari”), e quindi esce per quel breve lasso di tempo dal controllo e dalla responsabilità diretta dell’istituzione-carcere; nel secondo invece, per quanto goda per qualche ora di un’apparente libertà, non smette per un attimo di sottostare a quel controllo e a quella responsabilità.

Stando così le cose, la prima domanda da porsi secondo me è questa: perché sono stati così gravemente sottovalutati i prevedibilissimi rischi di spettacolarizzazione (e di fatale, conseguente strumentalizzazione) a cui sarebbe andata incontro Erika alla sua prima uscita dal carcere? Si poteva fare qualcosa, per evitarle le luci della ribalta in un momento così inopportuno? Oppure, se proprio non era possibile tener fuori da quell’oratorio telecamere e macchine fotografiche, non era il caso di sfilare per una volta Erika dal gruppo delle pallavoliste di Verziano, rinviando la sua prima uscita a un’occasione meno pubblica, o quantomeno un po’ meno giocosa?

Questo genere di cautela sarebbe stato tanto più opportuno se si considerano – oltre ovviamente alla “sinistra” notorietà della ragazza – i connotati narcisistici della sua personalità che sono emersi dalle perizie psichiatriche all’epoca del processo, e che rendono con tutta evidenza assolutamente sconsigliabile una sua ulteriore sovraesposizione. (Interpellata in proposito, nei giorni scorsi una nota psicoterapeuta ha osservato che puntare nuovamente i riflettori su Erika, farla sentire importante, ripresentarla nella luce in cui cinque anni or sono fu data in pasto ai mass-media, potrebbe essere gravemente controproducente per lei. Le immagini creano il personaggio, e in questo caso il modello che ne deriva rappresenta un regresso rispetto al complesso percorso di recupero intrapreso dalla ragazza in questi anni di carcerazione).

Altro aspetto da tenere in considerazione, e sul quale fare un po’ di chiarezza: la festosità della cornice in cui è avvenuta la sua prima uscita, che ha inevitabilmente finito per avvolgere Erika e per riproporla agli occhi del mondo (errore clamoroso, ma non suo) in versione giocosa e sorridente. Personalmente non ho alcun dubbio che, per una ragazza di quell’età, anche lo sport e soprattutto il gioco di squadra abbiano un’importante funzione “risocializzante”, tanto più se si considerano gli allarmanti aspetti di anafettività che caterve di psichiatri e psicologi –nelle sedi competenti ma anche sui giornali e in televisione – hanno concordemente sottolineato nell’abbozzare il profilo psicologico di Erika. Impegnarsi in uno sport di squadra, come la pallavolo, significa mettersi in relazione stretta e competitiva con i compagni e con gli avversari, e implica quindi una salutare tensione alla socializzazione; implica anche, di conseguenza, la disposizione a dare sfogo corale alla propria emotività individuale, tant’è che tutti assieme si esulta se si segna un punto e tutti assieme ci si stizzisce se a mettere a segno il punto, invece, sono gli avversari. Se sono queste, come io credo, le dinamiche psicologiche ed emotive del gioco, penso che a inquietare, semmai, avrebbe dovuto essere una Erika immersa in quella situazione di vitalità gioiosa a muso duro, senza una traccia di sorriso e di condivisione delle emozioni e dei sentimenti delle sue compagne. Pretendere in una persona reazioni diverse, o addirittura opposte, rispetto a quelle normalmente suscitate dalla situazione in cui effettivamente si trova, è negare la natura umana.

 

È davvero così inquietante, un sorriso?

E poi: è davvero così inquietante, un sorriso? È davvero così improprio e sconveniente, sulle labbra di una persona che pure si è macchiata cinque anni fa di reati gravissimi? Ed è davvero così certa e implacabile l’equazione: sorriso = assenza di senso di colpa? Piaccia o no riconoscerlo, il sorriso è comunque un’espressione di emotività, e non esclude affatto la lacrima. Anzi, in un certo senso addirittura ne sottintende la possibilità, perché è quantomeno indice di sensibilità, di emotività non pietrificata. E nessuno di noi ha il diritto – per aver visto in quel particolare momento fiorire il sorriso sulle labbra di Erika – di escludere che sia in atto in lei una tormentata e dolorosa presa di coscienza rispetto ai  delitti di cui si è macchiata, e il cui peso si porterà comunque addosso per sempre, anche quando avrà scontato per intero la sua pena e tornerà a calcare in mezzo a tutti noi le strade della vita.

Un’ultima annotazione, solo apparentemente “di colore”. Che riguarda i fin troppi commenti che sono stati riservati in televisione e sui giornali all’abbigliamento alla moda, rigorosamente griffato, sfoggiato dalla ragazza in occasione della sua prima uscita. Io per ovvi motivi non sono mai entrato in un “femminile”, posso assicurare però che anche qui a Padova e negli altri istituti di pena maschili in cui sono stato c’è una tendenza molto spiccata, anche in chi di suo non potrebbe, a “vestirsi firmato”. Al punto che c’è gente che preferisce andare in doccia con un accappatoio Missoni di sesta o settima mano, e ormai sbrindellato, piuttosto che accontentarsi di un analogo capo nuovo di pacca o quasi ma, ahimé, “anonimo”. È un fenomeno che non mi rallegra, ma che certamente non appartiene allo specifico carcerario: è, semmai, un fatale riflesso del condizionamento che la società della visibilità a ogni costo esercita su tutti i suoi figli, compresi quelli che tiene al chiuso delle proprie galere.

Che c’è di scandaloso quindi se l’ingegner De Nardo – persona che merita l’incondizionato rispetto di tutti, per la generosità e il coraggio che l’hanno spinto a non abbandonare la propria figlia, nonostante abbia ucciso sua moglie e l’altro suo figlio – cerca di vestire la carcerata Erika come una qualsiasi altra ragazza della sua età? Certo, si poteva consigliarle di non indossare una maglietta (quella che indossava a Boffalora) su cui campeggia, in inglese, una scritta che grosso modo significa “sono una ragazza fatta per le cose forti”. Scritta innocentemente provocatoria, se appare sulla t-shirt di una qualsiasi altra ragazza, ma inquietante invece se portata a spasso da una che le “cose forti” le ha scritte con il sangue, come Erika. Ma se ha colpa lei ad avere indossato quella sfrontata maglietta, se non ci è arrivata da sola a capire che un capo del genere lei non se lo può proprio permettere (e non solo in un’occasione pubblica, ma nemmeno nel chiuso della propria cella), possibile che nessuno nel suo istituto gliel’abbia fatto notare? Mettiamocelo in testa: non bastano le periodiche sedute con lo psichiatra e con lo psicologo, ammesso che ci siano, e neppure i colloqui di rito con le educatrici. Le persone (e in special modo quelle giovanissime e già “perdute”, come Erika) si educano, e rieducano, anche a partire dalle piccole cose della quotidianità.

 

 

Chi si è macchiato di reati di sangue e ha però scontato la sua pena, ha diritto ad avere un ruolo pubblico?

Il caso di Sergio D’Elia, ex terrorista e ora segretario della Presidenza della Camera, rimette al centro della discussione la contraddizione fra il diritto delle persone condannate a tornare a essere, a fine pena, cittadini come gli altri, da una parte, e dall’altra il dolore e i diritti delle vittime

 

Il tema è di quelli “incandescenti”: capire se chi si è macchiato di reati di sangue, o proviene dalle fila del terrorismo e ha però scontato la sua pena ha diritto ad avere un ruolo pubblico e una importante carica istituzionale o se, piuttosto, deve stare defilato, darsi da solo dei limiti, tenersi lontano dai riflettori. La questione è “esplosa” in occasione della nomina a segretario della presidenza della Camera dell’ex terrorista di Prima Linea Sergio D’Elia. Ed è indiscutibilmente  una questione delicata, soprattutto perché ha a che fare con le vittime di gravi reati, per le quali nel nostro paese c’è spesso scarsissima attenzione. In carcere si è consapevoli che esiste una forte contraddizione fra il diritto delle persone condannate a ricostruirsi una vita a tutti gli effetti, e quindi a tornare a essere, a pena scontata, cittadini come gli altri, da una parte, e dall’altra il dolore delle vittime, che sembra rinnovarsi ogni volta che prendono la parola i “colpevoli”.

Quelle che seguono sono opinioni di chi sta “dall’altra parte”, dalla parte di Caino appunto, e però, in punta di piedi, prova a ragionare su una questione così complessa e dolorosa.

 

 

Il senso di provare a spiegare i torti e le ragioni dei colpevoli

Come farlo perché non sia offensivo per le vittime. La lezione di Olga D’Antona

 

di Stefano Bentivogli

 

Per chi ha commesso reati imparare a misurarsi con le vittime è il problema più doloroso e angosciante. Olga D’Antona, moglie del giurista ucciso dalle Brigate Rosse, è una vittima che ha il coraggio di cercare di dare razionalità e misura al suo dolore. Suo è un intervento puntuale riguardo alle modalità con cui si esprimono e si espongono, proprio attraverso i media, le persone che ai gruppi rivoluzionari dello scorso trentennio hanno aderito e per questo hanno scontato una pena di anni di reclusione.

La posizione di Olga D’Antona non è sicuramente il solito sfogo (sempre legittimo) del parente della vittima che sente dare, a chi le ha tolto una persona cara, spazi e opportunità che rinnovano ogni volta il dolore per la perdita subita. Credo quindi che quelli che come noi si danno da fare, per dare voce a chi è stato o è in carcere, debbano vivere quasi come un senso di dovere quello di ascoltare, riflettere ed avere comunque un grande rispetto per persone come lei. Non c’è difatti un tono vendicativo nelle parole di questa donna, ma non c’è neanche l’esternazione di un perdono o di sentimenti simili che possono anche rimanere fuori dalla discussione. La sua richiesta, ma i toni sono quelli di una protesta vera e propria, è di non far salire in cattedra queste persone sulle quali il giudizio, sia del Tribunale che storico, è stato pesantemente negativo. A me piacerebbe trovare qualcuno delle persone a cui Olga D’Antona si riferisce che prendesse il coraggio di risponderle e decidesse di aprire un confronto civile, che rappresenta l’unica strada per dare soluzione ad un periodo storico ormai passato, ma che ha rappresentato un conflitto sociale non ancora affrontato fino in fondo nel nostro paese.

In questo stesso periodo, si è svolta nella Casa di reclusione di Padova una giornata di studi il cui titolo era “Dalle notizie da bar alle notizie da galera”, organizzata dalla Federazione dell’Informazione dal carcere e sul carcere con lo scopo di produrre degli stimoli, stavolta diretti al mondo dell’informazione tradizionale, affinché la privacy delle persone detenute (o comunque sottoposte a procedimento giudiziario o indagate) e dei loro parenti venga in qualche modo meglio tutelata. Ma più in generale abbiamo voluto porre all’attenzione dell’informazione la necessità di un atteggiamento diverso da quello ormai ricorrente, dalla carta stampata al video, sui temi della giustizia e della pena, un’attenzione tesa a portare nel mestiere dell’informazione un po’ più di obiettività e realtà, cercando di evitare luoghi comuni, stereotipi, addirittura informazioni false perché date senza la benché minima conoscenza delle nostre leggi.

A questo punto potrebbe sembrare che l’appello di Olga D’Antona, a non accettare che gli assassini salgano in cattedra, vada in direzione opposta alla richiesta che invece noi, detenuti ed ex detenuti, continuiamo a fare, che è quella di poter parlare, di poter raccontare come stanno le cose secondo la nostra ottica, di mostrare veramente cosa è il carcere oggi, qual è il divario tra il carcere immaginato, quello previsto per legge e quello reale. E poi le nostre storie provano a spiegare i torti e le ragioni dei colpevoli, perché se non si ha il coraggio di considerare, a prescindere dalla condanna, anche le ragioni dei colpevoli ci accontenteremo sempre di una realtà parziale. Chiaramente non si tratta di ridiscutere le responsabilità di crimini, in genere (proprio quasi tutte) accertate, si tratta di andare un po’ più in profondità, e magari non farlo fare agli ormai numerosi conduttori di programmi su crimini e criminali che spesso prendono il vizio di spettacolarizzare fatti e storie che gran spettacolo non sono proprio.

Vorremmo, e credo di poter parlare anche per tutti gli altri come me che, a partire da un’esperienza di carcere,  scrivono, partecipano a dibattiti, si informano, provare ad essere noi a raccontare, rivisitare la nostra storia, che è la nostra vita, le nostre illusioni, i nostri fallimenti, i nostri sentimenti.

 

Ci sono esperienze dove il dare la parola a detenuti ed ex non assomiglia affatto a passerelle

 

Credo che a questo punto però, posizioni come quella di Olga D’Antona vadano discusse a fondo, perché quelli che hanno avuto una storia di illegalità, pur di gravità diversa, non possono non considerare legittima la protesta di chi, ancora ferito, non percepisce l’intento vero del nostro lavoro. Spesso però ho l’impressione che vi sia anche un difetto di comunicazione, ossia che noi che pretendiamo (e secondo me giustamente) il diritto alla parola, scivoliamo in una specie di retorica del povero carnefice che sa tanto di alleggerimento delle responsabilità personali.

Questo io lo considero grave: quando alcuni di noi finiscono a pontificare, a pretendere di dar lezioni, sia ben chiaro a torto o a ragione, perché a volte le ragioni ci sono, le cose che possono essere dette sono importanti, perdiamo tutti però una grande opportunità di gestione dei conflitti che restano aperti alla fine in modo irrecuperabile. Mi rendo conto però che, a prescindere dai reati commessi, ci sono alcuni compagni che non apprezzano l’invito a mettere in atto quello che ognuno di noi dovrebbe avere, che si chiama un meccanismo di autocensura, o meglio il mantenimento di un profilo non dico basso, ma quantomeno non presuntuoso ed arrogante.

Ma non si può con questo generalizzare: la questione è davvero complessa, e credo sia utile aprire una seria riflessione sulle dichiarazioni di Olga D’Antona. Lo scrivo perché invece ci sono esperienze, quella che conosco meglio è il progetto “Il carcere entra a scuola” realizzato a Padova dalle associazioni Granello di Senape e Tangram, dove il dare la parola a detenuti ed ex, metterli a confronto con gli studenti anche su questioni delicate come i casi di omicidio non assomiglia affatto a passerelle ove esporre il lato eroico del negativo che c’è in ognuno di noi. Si è trattato invece, e spesso si è rivelata un’operazione molto difficile per noi che rappresentavamo il crimine, di avvicinare questi ragazzi alle storie di persone non troppo diverse da loro, persone che però si trovavano a raccontare e rileggere la propria storia, senza farne un romanzo, né un piagnisteo, ma facendone piuttosto un momento di comunicazione tra pezzi di società, che altrimenti rischiano di non parlarsi mai, di non conoscersi, di giudicarsi reciprocamente e basta.

Io personalmente credo che sia molto importante il modo con cui teniamo aperta la comunicazione, ed è proprio sulle critiche di Olga D’Antona che possiamo aprire un nuovo capitolo sul rapporto tra cittadini e legalità, perché questa non continui a restare una questione che divide, che esaspera i conflitti lasciando aperte ferite da una parte e segregando per sempre dall’altra.

 

 

Guai a dimenticare il legittimo risentimento delle persone a cui abbiamo fatto del male

 

di Graziano Scialpi

 

Le polemiche sul caso di Sergio D’Elia, l’ex terrorista di Prima Linea nominato segretario di Presidenza della Camera, hanno sollevato un problema che più volte abbiamo dibattuto nella nostra redazione in carcere. È opportuno che chi ha commesso reati, chi è stato in carcere, chi magari ha ucciso abbia ancora il diritto di parlare in pubblico? È una questione spinosa. In teoria se una persona ha pagato il suo debito alla società non c’è nulla che le impedisca di dire ciò che pensa o fare ciò che vuole. Nulla tranne la propria coscienza… Nulla tranne il rispetto del legittimo dolore e del più che umano risentimento che possono provare le vittime o i loro parenti…

Molti di noi scrivono di carcere, ed esclusivamente di carcere, solo perché hanno la relativa sicurezza che i nostri scritti difficilmente usciranno dal ristretto circuito di quanti si interessano di carcere e, soprattutto, che molto difficilmente il nostro sommesso “metterci in mostra” potrà capitare sotto gli occhi delle persone a cui abbiamo fatto del male. Ed è questo il motivo per cui molti di noi, pur scrivendo, hanno più volte rifiutato di rilasciare interviste televisive, che hanno ben altra visibilità e ben altra invadenza. Sicuramente D’Elia non ha commesso direttamente reati di sangue, sicuramente ha pagato il suo debito, sicuramente si è ravveduto e ha cercato di rimediare ai suoi errori con l’impegno sociale. Tuttavia è difficile non capire la sofferenza dei parenti delle vittime del terrorismo nel vedere che una persona che propugnava un “attacco al cuore dello Stato” che ha causato morti e dolore, ora è divenuto una figura istituzionale di rilievo. Certamente tutti hanno il diritto di rifarsi una vita, di ritornare nella società e cercarvi il proprio ruolo, per questo ci battiamo da sempre, mettersi però sotto i riflettori, e inevitabilmente entrare attraverso la televisione nelle case delle vittime, è un’altra cosa. Ci sono ferite che non si rimarginano mai e che richiedono rispetto.

Ma la censura non può essere stabilita dalla legge, una volta che una persona abbia scontato la sua pena. si deve poter mettere la parola fine a ogni discriminazione e limitazione dei diritti. Dovrebbero però  essere la coscienza e la sensibilità personali a consigliare di mantenere un profilo basso.

 

 

Una persona che ha ucciso non può permettersi di perdere il senso della propria “diversità”

di Marino Occhipinti

 

La nomina a segretario di Presidenza della Camera del deputato radicale Sergio D’Elia, ex componente del gruppo terroristico Prima Linea che ha scontato in passato molti anni di prigione per reati connessi a gravi fatti di sangue, anche se non da lui direttamente commessi, ha riacceso nelle settimane scorse una polemica che, regolarmente, si ripropone ogni qualvolta una persona che ha violato il quinto comandamento – non uccidere – espiata la propria pena si riaffaccia in società in una dimensione pubblica. La sostanza del dibattere si riassume essenzialmente nel seguente quesito: un omicida torna a essere una persona in tutto e per tutto uguale alle altre, una volta che abbia saldato il suo debito con la giustizia, o continua a gravare – su di lui e prima ancora in lui – il peso di una diversità irrimediabile?

Io non me la sento di dare fiato alle coscienze altrui, ma alla mia sì. E a questo quesito – che mille volte mi sono posto non in linea di principio ma come parte direttamente in causa, essendo io stesso un omicida – rispondo senza il minimo dubbio che chi uccide i conti non può mai saldarli fino in fondo. Sia perché il male che ha commesso ha la prerogativa dell’irrimediabilità (l’espiazione della condanna anche più pesante non restituisce la vita a chi per mano sua l’ha persa), sia perché uccidendo ha infranto quello che per tutti, in ogni angolo del mondo su cui batta il sole della ragione e della pietà umana, è il valore più alto: il primato assoluto della vita. Per questo credo che la condanna scontata e il pentimento più sincero possono e anzi debbono restituire alla società degli “ex” ladri, degli “ex” rapinatori, degli “ex” truffatori, cioè persone affrancate dalla colpa per il fatto stesso d’averla espiata, ma non degli “ex” assassini. Chi ha ucciso ha comunque e per sempre ucciso, e dell’ombra della propria colpa non potrà mai liberarsi del tutto, né agli occhi del mondo né – e tanto meno –agli occhi di se stesso.

Con questo non voglio dire che una volta tornato libero dopo lunghi anni di galera un omicida debba ridursi a vita da catecumeno, camminando radente i muri e abbassando gli occhi ogni volta che incrocia qualcuno. Voglio dire soltanto che non può permettersi di perdere il senso della propria “diversità” e che, quantomeno, deve imparare a mettere la sordina alle proprie esuberanze, rendendosi conto che le sue parole e i suoi comportamenti se leggeri rischiano di suonare vanesi, se biliosi allarmanti, se azzardati irresponsabili, se moralmente discutibili, provocatori e inquietanti. Non è una questione di auto-censura ma di misura e, semmai, di auto-educazione, perché tornare a vivere fra gli altri dopo essersi macchiati di un delitto così grave è un po’ come rinascere dal proprio stesso massacro, e occorre “rieducarsi” molto di più di quanto facciano, o aiutino a fare, la galera e la sua discutibile più ancora che carente pedagogia.

Per quel che mi riguarda, in tutti questi anni di carcere ho quasi sempre mantenuto la tendenza a scegliere le ultime file della platea piuttosto che le prime, ma non me la sento di dire che questa sia una ricetta valida per tutti, perché in fin dei conti anche il mio è comunque stato un percorso non lineare. Infatti, per lunghi anni, mi sono attentamente nascosto: se nella redazione di Ristretti Orizzonti, nella quale svolgo la mia attività di redattore-detenuto, entrava un giornalista, o una tv, mi rendevo “invisibile”, soprattutto e proprio per il timore della strumentalizzazione.

Adesso però ho maturato la convinzione, ed anche in questo sono stato aiutato, che sia forse più dignitoso “mostrarsi” – pur con tutte le debolezze ed i disagi del caso – e fare i conti con la realtà piuttosto che continuare a tenere la testa infilata sotto la sabbia, o peggio ancora nel pantano. Però, per arrivare a tale comportamento, ho dovuto prima imparare ad accettarmi, ed anche questo è un cammino a volte lungo e doloroso. Così, pur continuando a rifiutare categoricamente qualsiasi proposta di intervista che abbia come oggetto la mia vicenda giudiziaria, ho pian piano iniziato a scrivere e firmare articoli con un “taglio” comunque generale, legati alla detenzione, ai reati ed a chi li ha commessi.

Tornando al discorso di base, non bisogna comunque dimenticare che ci sono persone che hanno ucciso, e magari ucciso in giovane età, e che dopo avere espiato una lunga condanna tornano in società con una consistente aspettativa di vita e con l’idea di avere ancora cose importanti e degne da dire e da fare. In questi casi capisco che sia molto più difficile, scegliere l’ombra; e che in fondo non sia neppure giusto sceglierla in via pregiudiziale, perché esistono persone che hanno davvero saputo distillare dal male che hanno fatto (e almeno giudizialmente pagato) risorse di sensibilità, di maturità, di passione umana e civile che possono tornare utili anche agli altri. Ciò non di meno anche su queste persone continua a gravare il peso di una colpa che non si estingue, ed è giusto pertanto che al coraggio di esporsi uniscano la prudenza e il buon gusto di non sovraesporsi, rischiando così di trasformare la visibilità nella sua narcisistica degenerazione: il protagonismo, che nel loro caso sarebbe imperdonabile.

 

 

Se uccidi non puoi essere più lo stesso anche nel chiuso della tua coscienza

 

di Altin Demiri

 

È raro che uno si cacci in guai seri tutto d’un tratto. In genere nei guai ci si finisce alzando ogni giorno un po’ di più il livello della propria sfida alle norme di comportamento della vita “regolare”. Le prime volte va quasi sempre tutto bene e allora subentra una specie di febbre incosciente che ti spinge a osare sempre un poco di più.

Il grave reato che mi ha portato in prigione, l’omicidio, non è il prodotto fatale di quel clima, e lo dimostra il fatto che la maggior parte dei miei amici di allora non sono diventati assassini. Ma di quel clima è comunque figlio, perché io non avrei mai ucciso se la parte razionale della mia personalità non fosse stata oscurata da quel progressivo, ubriacante distacco dalla vita “regolare”.

Un uomo che uccide non può essere più lo stesso agli occhi degli altri, ma non può esserlo più anche nel chiuso della propria coscienza. È una consapevolezza che mi pesa ogni giorno addosso, e di cui so che non mi libererò neppure quando tornerò libero fra i liberi. Ma proprio perché sono consapevole della gravità del mio delitto, credo di poter dire che un reato di sangue avviene quasi sempre senza che ci sia una premeditata intenzione in chi lo commette. Nel mio caso è stato senz’altro così (una rissa, nata per futili motivi; un crescendo confuso di tensione, il sangue alla testa, un gesto irrimediabile, che mai avrei commesso dieci minuti prima o dieci minuti dopo), ma lo è anche nella maggior parte dei casi di cui sono venuto a conoscenza, parlando nei miei dodici anni di galera con persone che si sono macchiate di analoghi delitti.

Questa considerazione non toglie gravità alle nostre azioni, ma le rende più “umane” di come in genere vengano astrattamente giudicate. Il più delle volte Caino non è poi tanto diverso da Abele: è animato dalla stessa sensibilità e si riconosce negli stessi valori, nonostante un devastante offuscamento di quella sensibilità lo abbia portato, un giorno, a calpestare quei valori nel modo più atroce. Giusto che paghi; ma giusto, anche, riconoscergli comunque di essere un uomo.

Quando in carcere di recente ho incontrato gli studenti di molte scuole, sono convinto di avere fatto una cosa buona a parlare del mio reato, anche se mi è costato, perché non è affatto facile dire “io sono un assassino” davanti a una platea di facce che hanno gli occhi puntati su di te. Sono sicuro però che la mia sincerità ha lasciato qualcosa dentro a chi ha voluto capire. Ai ragazzi, giovani come ero io quando ho commesso il mio reato, non me la sento di dare consigli. Un invito, però, lo voglio rivolgere. Ed è l’invito a godersi fino in fondo, ora per ora, la libertà, perché vi assicuro che nessuno come chi l’ha persa è in grado di apprezzare il suo valore. E non dimenticare, però, che non esiste libertà senza responsabilità. Io l’ho capito troppo tardi, e ora ne pago le conseguenze.