Tutela della privacy

 

Bilanciare i diritti fondamentali delle

persone detenute con il diritto di cronaca

Anche chi è coinvolto in un procedimento giudiziario ha diritto al rispetto

Così come ha diritto poi, se finisce in carcere, ad alcuni spazi di riservatezza

Di questi diritti poco tutelati parla Mauro Paissan, giornalista

e componente dell’Ufficio del Garante della privacy

 

di Mauro Paissan, giornalista e componente dell’Ufficio del Garante della privacy

 

Privacy nel carcere e presunta privacy sul carcere

 

Associare il tema della privacy alla vita interna al carcere può sembrare un paradosso.

Infatti è proprio nel carcere – come sappiamo e soprattutto come sapete – che la persona detenuta è sottoposta a pesanti restrizioni non solo della libertà di circolazione, ma anche della libertà di corrispondenza e di comunicazione. Così come, sempre in base alla legge, è sottoposta a ispezioni, nelle celle e sulla persona, e al monitoraggio elettronico affidato alle telecamere. Tutti questi aspetti incidono, peraltro, proprio sul contenuto del diritto alla privacy, che è sia diritto al controllo sulle informazioni che riguardano ciascuno di noi sia tutela dell’identità e, soprattutto, della dignità della persona (come afferma, con solennità, il Codice privacy del 2003 tra i principi generali).

Anche se queste restrizioni sono giustificate dalla necessità di proteggere valori e diritti egualmente tutelati dal sistema costituzionale – primo fra tutti la repressione dei reati – esiste un ambito incomprimibile di riservatezza che spetta a ciascuno. È proprio in questa dialettica – tra potere punitivo dello Stato e tutela della dignità di ogni persona umana – che dovrebbero trovare riconoscimento anche all’interno del carcere, quantomeno in regime ordinario, alcuni spazi di riservatezza (ulteriori rispetto a quelli già conquistati): mi riferisco, ad esempio, alla richiesta di garantire spazi di intimità che consentano di mantenere una continuità di rapporti affettivi con il proprio partner. Ma non è questo l’oggetto del convegno. Qui parliamo di come si informa sul carcere e sul detenuto. E di come bilanciare i diritti fondamentali delle persone detenute con il diritto di cronaca.

 

Sulle condizioni di vita dei detenuti e sul rispetto dei loro diritti, l’opinione pubblica ha il diritto di conoscere la realtà ed i mezzi di informazione hanno il diritto/dovere di svolgere il proprio compito. Ad esempio, il fatto che l’immagine di un recluso non possa essere diffusa senza il suo consenso (e questa è una regola base) non ha nulla a che vedere con l’esercizio della libertà di stampa sulle condizioni delle carceri nel nostro paese. Alcuni giornalisti in un appello del marzo scorso affermano che il Ministero dell’Interno vieta agli operatori dell’informazione l’ingresso nei centri di permanenza temporanea in nome del diritto alla privacy degli immigrati. In questo caso, e se il Ministero ha effettivamente risposto così, la riservatezza non c’entra nulla: basta non rendere identificabili le persone rinchiuse o chiedere il loro consenso.

Insomma è meglio sgombrare il campo da un primo possibile equivoco: la disciplina sulla privacy non è un ostacolo allo scambio di informazioni tra dentro e fuori l’istituzione carceraria.

 

Mezzi di informazione e cronaca giudiziaria. Le regole

 

Le norme sulla privacy incidono invece sul modo con il quale i mezzi di informazione trattano la cronaca giudiziaria. Le regole su questo aspetto sono in parte poste dalla legge, in parte dal codice deontologico dei giornalisti del 1998 che è stato approvato con la partecipazione del Garante privacy, in parte da altri documenti prodotti dagli stessi giornalisti come la Carta di Treviso del 1990 sui minori, la Carta dei doveri del 1993.

Esistono già, dunque, regole e principi. È comunque utile la proposta di una specifica Carta dove far confluire tutte le indicazioni che, in modo non organico, sono presenti nel nostro sistema; e dove introdurre aspetti ancora non esplicitamente riconosciuti, penso principalmente al cosiddetto diritto all’oblio, che vedremo più avanti.

L’approvazione di una Carta, oltre al valore di un impegno dei giornalisti sul piano della deontologia professionale, sarebbe anche una utile occasione per sensibilizzare il mondo dell’informazione (senza nulla togliere all’esercizio del diritto di cronaca) al rispetto dei diritti di chi si trova esposto, insieme ai propri familiari, alla cruda esibizione dei propri fatti di vita di fronte alla pubblica opinione (e spesso alla pubblica curiosità).

Cercherò di esporre brevemente queste regole e questi principi, cominciando dal momento nel quale può iniziare il coinvolgimento della persona, con la diffusione di sue fotografie o immagini.

 

Pubblicazione delle foto

 

La foto segnaletica, per le modalità e le circostanze nelle quali viene realizzata, generalmente rende un’immagine negativa del segnalato. Per questo anche se tali foto vengono esposte nel corso di conferenze stampa tenute dalle Forze dell’Ordine, i giornali possono pubblicarle solo per finalità di giustizia o di polizia (ad esempio in caso di evasione). Lo stesso Dipartimento di pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno, in una circolare del 1999 e poi del 2003, invita a diffondere le foto segnaletiche solo in casi limitati e a tutelare la riservatezza e la dignità delle persone coinvolte in attività di polizia. Ma questa è forse una delle disposizioni che con maggior frequenza vengono violate, basta guardare qualche TG in una qualsiasi giornata per rendersene conto.

C’è poi il divieto di pubblicare, senza il consenso dell’interessato, l’immagine della persona in manette (salvo che la pubblicazione sia necessaria per segnalare abusi: caso Tortora) e anche immagini di persone in stato di detenzione (salvo che esistano motivi di interesse pubblico o per finalità di giustizia o di polizia). La ragione di queste limitazioni ed il criterio principale che fa decidere della pubblicabilità o meno di determinate foto o immagini (e, più in generale, di qualsiasi notizia), è sempre il rispetto della dignità della persona. Che può essere lesa anche dalla diffusione di immagini di operazioni di arresto di ricercati o indagati. Qui entra in gioco un altro principio fondamentale, quello della responsabilità del giornalista, cui è sempre affidato il compito (e, appunto, la responsabilità) di valutare se pubblicare immagini di questo tipo.

Ulteriori immagini collegate ad indagini o processi in corso di svolgimento possono essere ricavate da documenti di identità, da album di famiglia, o dalle aule giudiziarie. In quest’ultimo caso c’è una disciplina specifica dettata dal Codice di procedura penale, che prevede l’autorizzazione del giudice e il consenso degli interessati. Il giornalista dovrà comunque procurarsi le immagini senza compiere illeciti e senza utilizzare sotterfugi o inganni (sottrazione a parenti), e sempre che la loro diffusione sia essenziale per una migliore comprensione del fatto di cronaca e non per soddisfare una semplice curiosità. Va infine ricordato, a questo proposito, che nelle carceri (come negli ospedali) secondo il Codice deontologico valgono le stesse regole che tutelano il domicilio. Nessuno può essere ripreso, senza il suo consenso, nel corso ad esempio di un servizio sul sistema carcerario.

 

Nomi delle persone nelle cronache giudiziarie

 

I giornalisti possono pubblicare i nomi di persone indagate o arrestate solo rispettando le norme sul segreto investigativo poste dal Codice di procedura penale. Ma anche nel caso in cui non si applichino le disposizioni sul segreto rientra ancora una volta nella responsabilità del giornalista che le informazioni pubblicate siano complete, esatte ed aggiornate. Ciò significa, ad esempio, spiegare con precisione se ci si trova nella fase delle indagini preliminari o se vi è già stato rinvio a giudizio; e se vi è stata condanna in quale fase di giudizio si trova coinvolta la persona protagonista del fatto di cronaca. La completezza dell’informazione è importante anche per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’esistenza di garanzie fondamentali in un paese democratico, prima fra tutte la presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva ma anche il diritto alla difesa e ad un giusto processo. Inoltre spetta ancora alla responsabilità del giornalista decidere se pubblicare le generalità complete di chi si trova coinvolto in una indagine ma in una fase ancora del tutto iniziale, tenendo peraltro conto della gravità dei reati contestati.

In alcuni casi si dovrà evitare di diffondere i nomi di indagati o sottoposti a giudizio per proteggere la riservatezza di altre persone coinvolte nell’indagine, anche al di là delle ipotesi in cui ciò è imposto dalla legge a protezione della identità di minori e di vittime di violenza sessuale. Esempio: nome di padre responsabile di violenza su figli.

 

Questo vale anche nel caso di diffusione del nome di condannati: in linea generale la pubblicazione è consentita, anche se è necessario tener conto che ciò potrebbe mettere in difficoltà (quando non espressamente vietato dalla legge) testimoni o vittime del reato. Inoltre i condannati potrebbero essere persone particolarmente deboli, ad esempio con handicap fisici o psichici, oppure ragazzi molto giovani: qui gli operatori dell’informazione dovrebbero decidere se non far prevalere l’esigenza di favorire il più possibile, un domani, il reinserimento sociale del condannato anche omettendo le generalità complete.

 

Tra i soggetti deboli sono già fortemente tutelati i minori coinvolti a qualsiasi titolo in procedimenti giudiziari, e non solo di carattere penale. Ma non basta omettere il nome se poi vengono pubblicate tutte quelle informazioni (nomi e professione dei genitori, indirizzo di casa o nome della scuola frequentata, nome della baby sitter) che rendono comunque, anche se indirettamente, identificabile il minorenne. Questo dell’identificabilità indiretta è un principio importante sancito dal Codice privacy nel 2003; così come il codice deontologico del 1998 aveva già nettamente affermato che il diritto del minore alla riservatezza deve essere sempre considerato come primario rispetto al diritto di critica e di cronaca.

 

Diritto all’oblio

 

È ovvio che non potrà esserci reinserimento nella società, come prevede la Costituzione,  se chi è stato condannato ed ha scontato la propria pena, oppure se chi ha subito alterne vicende in gradi diversi di giudizio, può vedere riproposta dai mezzi di informazione, anche a distanza di molti anni, la propria vicenda giudiziaria mettendo in pericolo il processo di risocializzazione già avviato nel contesto sociale e familiare. Il Garante ha più volte affermato l’esistenza del diritto all’oblio, ossia il diritto a non essere indefinitamente rincorsi (a meno che non lo si voglia) da una immagine di sè che oramai appartiene al passato e nella quale non ci si riconosce più. E questo pericolo è enormemente aumentato con lo sviluppo di Internet, dove le informazioni, se non appositamente cancellate, continuano ad emergere senza limiti di tempo. Esempio: caso signora arrestata e poi assolta.

Credo sia giusto raccogliere (ed inserire, come accennavo, anche nella Carta) l’indicazione della raccomandazione del Consiglio d’Europa del 2003: l’identità di persone che abbiano scontato condanne giudiziarie deve essere tutelata, a meno che le vicende che hanno portato alla condanna siano tornate di attualità, rinnovando l’interesse pubblico alla conoscenza di quella storia passata. Esempio: caso della ragazza ripresa in un’aula giudiziaria, con immagini riproposte 16 anni dopo.

 

Nome di altre persone

 

Nell’informare su una vicenda giudiziaria bisogna poi tutelare altre persone coinvolte. Prima di tutto le vittime del reato, anche quando non esistono i divieti di divulgazione posti dalla legge (a protezione dei minori, delle vittime di reati contro la libertà sessuale, dei malati di Aids).

Come per tutte le decisioni che riguardano il contemperamento del diritto all’informazione con il diritto alla riservatezza, anche in questo caso non esistono soluzioni prestabilite una volta per tutte.

Sulla scelta di pubblicare o meno bisognerà valutare il tipo di conseguenze subite dalla vittima, il tempo trascorso dal fatto di reato, gli eventuali rischi che potrebbero derivare per la vittima dalla diffusione delle sue generalità. Eguali accortezze valgono per i testimoni, e sempre salvi i casi in cui è la legge a vietare la pubblicazione di notizie.

C’è poi da considerare la posizione dei familiari e conoscenti di persone coinvolte in vicende giudiziarie. Il codice deontologico del 1998 afferma che bisogna evitare il riferimento a “congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti”. Dunque il semplice collegamento con la vita personale di chi è coinvolto nelle indagini o condannato (legami sentimentali o, ad esempio, la circostanza di essere proprietari dell’appartamento dove si è consumato un delitto), in assenza di un legame diretto con gli episodi di cronaca, non basta a rendere legittimamente noti identità e immagini di queste persone. Non c’è interesse pubblico alla divulgazione del dato personale. Questo vale anche per la pubblicazione del contenuto di intercettazioni telefoniche.

 

Altri principi generali

 

Desidero infine ricordare tre principi generali affermati dal Codice deontologico dei giornalisti, che devono trovare applicazione anche nell’informazione riguardante i detenuti.

Il primo (art. 9) afferma che “il giornalista è tenuto a rispettare il diritto della persona alla non discriminazione per razza, religione, opinioni politiche, sesso, condizioni personali, fisiche e mentali” (carceri con forte presenza di immigrati).

Il secondo (art. 10) tutela la dignità delle persone malate: presenza di detenuti colpiti da Hiv.

Il terzo (art. 11) impone al giornalista di astenersi dalla descrizione di abitudini sessuali.

In conclusione credo che dai temi rapidamente elencati emerga tutta la complessità di una materia nella quale si confrontano due pilastri della società democratica - diritto all’informazione e diritti fondamentali della persona. Molti passi avanti sono stati fatti in questi ultimi anni. Ma altrettanti ne devono essere fatti per assicurare dignità e rispetto anche a chi è coinvolto in un procedimento giudiziario. Dignità e rispetto.

 

 

Precedente Home Su Successiva