SOS Immigrati

Escluso per l’ennesima volta

Ormai sappiamo benissimo di essere una categoria più che svantaggiata per quanto riguarda il reinserimento. Ma che senso ha un percorso che ci dovrebbe rieducare a rispettare regole che abbiamo trasgredito, se proprio tra queste ce n’è una che prevede che dobbiamo sparire?

 

di Altin Demiri

 

  Sono un detenuto albanese, e facendo parte della redazione del giornale Ristretti Orizzonti, continuo a partecipare a dibattiti sulle misure alternative, sul reinserimento sociale per i detenuti, sulla mediazione penale. In genere trovo in gran parte giuste molte argomentazioni portate dai miei compagni, ma sono sempre più perplesso su una cosa: oggi degli stranieri non si parla quasi più.

Ormai sappiamo benissimo di essere una categoria più che svantaggiata per quanto riguarda il reinserimento, non solo dobbiamo lottare per essere compresi da una società che ha una visione deformata e indiscriminatamente negativa di tutti i detenuti stranieri, ma ci troviamo ostacolati anche dalle leggi che non prevedono nemmeno in via teorica un percorso di integrazione. Le opportunità che dà la legge Gozzini sono oggi praticamente precluse dalla legge Bossi - Fini che condanna gli stranieri all’espulsione, spesso escludendoli di fatto da ogni attività orientata al reinserimento. Questo significa avere meno possibilità, e in certe zone addirittura nessuna, di accedere alle misure alternative al carcere e ai permessi premio.

Io questa legge naturalmente non la condivido, è per me una legge discriminatoria ed offensiva nei confronti degli stranieri e in contrasto col principio di uguaglianza del trattamento delle persone detenute. Quello che questa legge impone, ai detenuti stranieri, è l’espulsione come alternativa alla detenzione, ed è del tutto inutile sperare che alla fine della pena uno si possa regolarizzare in questo Paese: quando mancano non più di due anni al fine pena, ci rispediscono a casa come dei pacchi postali. Dopo aver magari scontato quasi tutta la pena, ci troveremo catapultati su un aereo, una nave o alla frontiera, e non possiamo sentirci ingannati, traditi nelle speranze di rimanere qui e ricostruire in questo paese un futuro, perché lo straniero che sbaglia non ha questo diritto, è inutile farsi delle illusioni. Dobbiamo quindi affrontare la detenzione come i nostri compagni italiani, ritrovare il senso della legalità che in passato abbiamo perduto, capire dove, come e perché abbiamo sbagliato per essere poi cacciati, esclusi per l’ennesima volta.

Ma che senso ha un percorso che ci dovrebbe rieducare a rispettare regole che abbiamo trasgredito, se proprio tra queste ce n’è una che prevede che dobbiamo sparire? La logica dell’espulsione è la prova evidente che per lo Stato italiano non siamo recuperabili, altrimenti, straniero o no, perché non permettermi di ricostruire qualcosa qui in Italia? La vita in carcere così diventa doppiamente frustrante, e fa venire solo rabbia trovarsi tra persone che magari coltivano una speranza, provano a progettarsi una strada per rifarsi una vita, pensano al lavoro, alla casa, comunque a riprendere qualcosa che avevano cominciato. Per noi resta solo il rientro forzato, anche se magari qualcosa qui in Italia avevamo costruito, e dovremo ripartire proprio da dove siamo già andati via una volta: il nostro Paese d’origine.

Qualcuno si è mai chiesto cosa ci aspetta e in che situazione di disagio ci troveremo? La maggior parte di noi si rimetterà di nuovo in viaggio per emigrare ancora e cominciare da capo, ed è facile che si ritroverà con gli stessi problemi di integrazione. Resta il fatto che la società, le istituzioni, le imprese ed anche la gente comune, credono poco alla nostra capacità e alla nostra voglia di reinserirci nella vita “regolare”. Ma questa è soprattutto, io credo, una scarsa fiducia della società italiana verso se stessa, verso la sua capacità di riaccogliere al suo interno le persone che hanno trasgredito, anche dopo periodi lunghi di carcerazione dove una possibilità di metterci alla prova c’è stata.

 

Lo Stato italiano spende centinaia di euro al giorno per ognuno di noi che sta in galera e poi ci butta via come irrecuperabili

 

Perché non si dà la possibilità, per i detenuti stranieri che dimostrano un serio impegno nella riabilitazione, di ricominciare una vita in Italia, visto che il loro debito con la giustizia l’hanno pagato? Ho letto che se un detenuto sconta positivamente l’ultima parte della pena in affidamento in prova, risulta estinta la pena e “ogni altro effetto penale” (ultimo comma dell’articolo 47 dell’Ordinamento penitenziario). Ma gli affidamenti in prova a noi stranieri non vengono concessi per diversi motivi. È ovvio che spesso per noi il problema della casa e del lavoro è più difficile che per gli italiani, ma non è irrisolvibile. Forse se si tentassero interventi di mediazione con il territorio nel quale la persona va ad inserirsi si otterrebbero risultati sorprendenti. Una persona che è stata per un certo periodo in carcere, ed è stata seguita in un percorso serio di risocializzazione, ha instaurato un rapporto con l’istituzione, è abituata a confrontarsi con questa, e quindi può avere più possibilità di reinserirsi di un qualunque nuovo immigrato che parte dalla clandestinità ed è stato sempre lontano dalla legalità.

In questo caso la pena non sarebbe più solo afflittiva, e se, a precise condizioni, ci fosse la possibilità di evitare l’espulsione ed arrivare prima o poi a regolarizzarsi, l’atteggiamento degli stranieri che scontano una pena potrebbe cambiare radicalmente. Lo Stato italiano spende centinaia di euro al giorno per ognuno di noi che sta in galera, anche per rieducarci, insegnarci l’italiano, curarci, e poi ci butta via come irrecuperabili: a me pare proprio un’assurdità. Ma attorno a me vedo sempre meno attenzione ed anche tra le persone più sensibili domina un senso di impotenza: c’è la Bossi-Fini, la maggioranza degli italiani preferisce liberarsi di noi e continuare a sfruttare ed emarginare gli ultimi stranieri arrivati. Quando sbaglieranno finiranno anche loro in galera e poi dritti a casa loro, ma tanto le migrazioni sono inarrestabili, ne arriveranno altri al mio posto. Mi resta solo l’amarezza e un grande senso di ingiustizia.

L’ultima lettera

 

di Ilir Ceka

 

Sono disteso sul letto. È una notte di quelle che di dormire non se ne parla proprio. La mia mente, invece di abbandonarsi al sonno, viaggia indietro nel tempo, mi porta a ricordare quando studiavo all’istituto agrario, e le vacanze estive le passavo lavorando. Per avere a settembre due soldi in più in tasca spesso mi toccava fare il turno di notte. Non era poi male lavorare di notte in campagna. Verso l’una facevamo un’ora di riposo. Io mi sdraiavo un po’ lontano dai miei compagni e cominciavo a sognare. Il cielo era pieno di stelle, che circondavano una luna splendente. Io guardavo quel panorama e sognavo ad occhi aperti. Anche se sapevo che da grande avrei fatto al massimo l’agronomo, il mio futuro lo immaginavo sempre bellissimo. Credo che nessuna circostanza poteva impedirmi di sognare ad occhi aperti, e fare dei bei sogni. Dentro di me dicevo: qualsiasi cosa può succedere su questa terra ma niente mi può fermare dal sognare solo belle cose.

Rimango sdraiato e allora provo a sognare di nuovo, come allora, ma non ci riesco e mi accorgo che questa carcerazione non mi permette più nemmeno di sognare. Le stelle ci sono, e dalla mia branda riesco a vederle attraverso le sbarre, ma non riesco più neanche a pensare a mia figlia perché ho come un vuoto nella testa.

Ormai sono tre anni e quattro mesi che sono in carcere e non ho mai potuto vederla, così l’orizzonte dei miei sogni è diventato molto stretto. Ascolto il televisore che è rimasto acceso nel buio della mia cella e un giornalista parla dell’ultimo suicidio successo nel carcere di Sulmona. Inconsciamente cerco di mettermi nei panni di quell’uomo, che forse proprio per le stesse condizioni in cui vivo anch’io si è sentito spinto a fare quel gesto. Se fossi stato io avrei per prima cosa scritto una lettera - ci deve essere sempre una lettera d’addio - per i miei genitori, per mia moglie, per mia figlia, per i miei fratelli e per tutte le persone che amo, in cui avrei cercato di spiegare i motivi.

Ho chiesto a qualcuno se ha mai pensato di togliersi la vita, nella mia convinzione che a tutti è passato almeno una volta per la mente di compiere tale gesto, ma mi rispondono sempre di non averci mai pensato. Si dice che “non c’è malato, più malato, del malato che dice di non essere malato” e credo che questa frase si adatti fortemente ai miei compagni di detenzione che vogliono sembrare duri, che non cedono mai. Io invece sono uno di quelli che più di una volta ha pensato che la strada più corta era di farla finita, ma mi è bastato girare la testa verso il muro, che è sparito subito quel pensiero. Il cervello in quei momenti diventa piccolo come un semino di grano. Credo che serva più coraggio a scontare la pena detentiva, che a commettere un reato.

Le lettere. Quante lettere ho scritto. Ogni volta che prendo a scrivere una lettera, cerco di nascondere bene la rabbia e le paure che ho dentro, cerco di apparire felice agli occhi dei miei cari. Considero la loro sofferenza maggiore della mia, per questo motivo a volte penso che l’estremo gesto sia la soluzione. Tante volte mi fermo a scrivere la lettera e cerco di dominare la rabbia che ho dentro. Questo avviene spesso quando tento di spiegare ai miei familiari che non è detto che io debba fare tutta la pena, che potrei uscire dal carcere con qualche beneficio di legge, tanto mi sono comportato bene. Anche se dentro di me so che è molto improbabile per uno straniero come me, ma questo non ha importanza, importante è tranquillizzare e mentire ai miei cari. È in questi momenti che devo lottare per frenare, per dominare la rabbia, la tristezza.

Devo mentirgli perché se dovessi raccontare la verità non saprei spiegargli perché, nonostante ci siano dei lavori, io non lavoro mai qui dentro e continuo a essere mantenuto da loro, non gli posso raccontare che anche se mi sono comportato bene, svolgo attività di volontariato, ho seguito tutti i corsi, mi sono sentito dire in faccia che non sono ancora pronto per avere due ore di permesso premio a casa. Mi do coraggio pensando che mi manca poco a finire la pena e continuo a mentirgli, anche se in quei momenti il cervello torna piccolo come un seme di grano e penso ad una soluzione estrema. Poi però giro la testa al muro e dico a me stesso che non ho bisogno di scrivere l’ultima lettera.

Ma forse molti miei compagni non hanno nessun motivo per girare la testa verso il muro, e neanche scrivere un’ultima lettera perché non sanno neppure a chi indirizzarla, e alla fine diventano solo un numero nel “Dossier Suicidi” che si trova nel nostro sito internet. Ormai è meglio mettersi a dormire e non pensare molto a queste cose, perché non si sa mai… Nel buio mi giro verso il muro perché lì c’è la foto di mia figlia che dista pochi centimetri dai miei baci, nella luce sempre accesa del mio amore per lei.

 

 

Precedente Home Su Successiva