Egregio signor ladro

 

In carcere non sono rinchiusi reati, ma persone

Per chi è detenuto per fatti di sangue,

esporsi pubblicamente non è una scelta facile, né scontata

 

di Ornella Favero

 

Un sito gestito da detenuti fa venire fuori delle questioni importanti nella comunicazione tra il mondo "dentro" e il mondo fuori, questioni che a volte il volontariato sottovaluta, perché quando si comincia a "frequentare" le carceri si rischia inevitabilmente di lasciarsi travolgere dalla massa di problemi di cui le persone detenute sono portatrici e ci si dimentica del resto della società, degli umori, le rabbie, le paure del mondo. Il messaggio che segue, arrivato nel sito www.ristretti.it, ci ha imposto di riflettere, e di affrontare un argomento drammatico: se chi ha commesso reati di sangue abbia diritto o meno di parlare in pubblico "da persona libera".

 

Salve, per caso sono entrato nel vostro sito, due giorni fa, cercando la legge sulle cooperative sociali tramite un motore di ricerca. Ho letto con interesse delle iniziative per dare lavoro ai detenuti. Tempo fa mi fu chiesto (da una assistente sociale) se ero disposto ad assumere un detenuto (ho una piccola azienda meccanica) e risposi che non me la sentivo, pur rassicurato che quel detenuto sapeva fare il lavoro. Avevo un po’ paura, anche perché avevo chiesto per quale reato era stato condannato e non me l’avevano voluto dire, così immaginavo che avesse fatto cose molto gravi. Nel vostro sito ho trovato anche articoli scritti da detenuti condannati per avere ucciso delle persone. Da una parte penso che non dovreste permettergli di parlare pubblicamente, però penso anche che scrivono cose importanti, per se stessi e per chi li legge. A me questa cosa mi ha fatto pensare, mettendo in crisi l’opinione che avevo del carcere. E vi ringrazio di aver fatto questo. Vi dirò se ho cambiato questa opinione.

Riccardo

 

Rispondere a questo messaggio non è stato facile, anche perché un volontario che ha a che fare con il carcere non può nascondersi il fatto che la gente, fuori, spesso non capisce perché una persona "normale" preferisca occuparsi dei "delinquenti", cercando di dar loro voce, invece di prendersi a cuore i soggetti disagiati "buoni". Ci ho provato comunque, a fare qualche breve riflessione, solo per aprire su questi temi una discussione e un confronto, che sono più che mai urgenti:

 

Gentile Riccardo, sono una volontaria responsabile del sito www.ristretti.it e della rivista che facciamo nel carcere di Padova e al femminile di Venezia. Sono capitata in carcere un po’ per caso, ma devo dire che ho dovuto scardinare parecchie certezze che avevo. La prima considerazione che mi viene da fare è che il carcere ti impone di eliminare le semplificazioni e di accettare la complessità delle cose. Per esempio, succede molto spesso che le persone che hanno ucciso siano anche le più sensibili, le più profonde e consapevoli. Il male non è così facile da classificare e inquadrare, sarebbe tutto più semplice se ci fossero dei "mostri" e dei normali cittadini come noi. Invece ci sono persone che hanno passato i limiti per una specie di impazzimento, per una perdita di contatto con la realtà, o perché hanno sviluppato un atteggiamento patologico verso una persona, che li ha fatti in qualche modo soffrire, o per mille altri motivi, non così facilmente comprensibili e giudicabili. Le assicuro che non ho nessun atteggiamento "giustificatorio", e anzi il nostro giornale credo che sia apprezzato proprio per la sincerità e la capacità critica che esprime, mi preme solo che le persone capiscano che i giudizi sommari non servono a nulla, se non ad appiattire la realtà e a impedirci di capirne le sfumature.

 

Poi ci hanno provato, a rispondere al messaggio di Riccardo, due delle persone alle quali il nostro lettore non riconosce il diritto di parlare in pubblico, anche se forse qualcosa, nelle sue convinzioni, è cambiata proprio dopo aver letto alcune testimonianze nel nostro sito. Noi non abbiamo nessuna ricetta in tasca, siamo assolutamente consapevoli che quello di cui parla il nostro lettore è un tema delicato, però pensiamo che valga la pena mettere tutto il coraggio possibile nell’affrontare anche in carcere una discussione così complessa.

 

Perché abbiamo deciso di uscire allo scoperto e metterci in gioco

 

Caro Riccardo, posso assicurarti che a molte persone detenute per fatti di sangue non solo viene impedito di parlare pubblicamente, ma di parlare tout court. Personalmente ho trascorso undici mesi in isolamento e ti assicuro che, quando esci da un’esperienza del genere, devi reimparare ad articolare le parole. Lo stesso, mese più mese meno, è capitato a molti miei compagni di prigionia.

Non è certo mia intenzione sottovalutare le tue idee, che sappiamo essere largamente condivise da gran parte dell’opinione pubblica. Anzi, in redazione siamo rimasti molto colpiti dall’onestà del tuo messaggio, nel quale dichiari anche che abbiamo messo in crisi l’opinione che avevi del carcere. Senza che tu me ne voglia, vorrei aprire un’ulteriore crepa nelle tue certezze.

Dopo aver letto il mio esordio, forse ti sarà venuto da pensare che quegli undici mesi di silenzioso isolamento siano stati per me una punizione insopportabile. Invece no. Per quanto possa sembrarti paradossale, per me l’isolamento ha significato protezione. E non parlo di protezione fisica. Chiuso da solo nella mia celletta mi sono sentito al sicuro da un confronto con la società, della quale avevo infranto la più sacra delle regole, che non avrei mai potuto reggere. In quel momento non sarei riuscito a stare di fronte nemmeno alle persone che mi conoscevano e che erano pronte a perdonarmi. La peggiore punizione che il magistrato avrebbe potuto comminarmi sarebbe stata quella di mandarmi a piede libero in attesa del processo. Non credo che avrei resistito in mezzo alla gente. Invece il carcere e, soprattutto, l’isolamento mi hanno concesso quel tanto di pace, di protezione che mi ha permesso di fare i conti con l’enormità che avevo commesso in modo graduale, di rimettere insieme i pezzi senza ulteriori e devastanti traumi.

Mi sono forse troppo dilungato nell’introduzione, ma l’intento era di rendere bene chiaro un concetto: per chi è rinchiuso in carcere, tanto più per chi è detenuto per fatti di sangue, esporsi pubblicamente non è una scelta né facile, né scontata. È un passo che spesso richiede lunghi periodi di riflessione, perché la cosa più semplice, più sicura, più "naturale" sarebbe di restarsene nell’ombra, sperando che prima o poi il mondo, e le famiglie delle vittime, si dimentichino di noi e di quello che abbiamo fatto. Se usciamo allo scoperto, se ci mettiamo in gioco esponendoci a critiche legittime come la tua è solo perché siamo convinti che, parlando di una cosa che conosciamo bene e dall’interno, rendiamo in qualche modo un servizio alla società. Esiste inoltre un "fattore pratico-logistico" che gli addetti all’informazione dal carcere conoscono bene e dibattono spesso: per riuscire a formare gruppi di detenuti che riescano ad acquisire le competenze, l’oggettività e la "spassionatezza" per scrivere di carcere in modo serio e approfondito è necessario puntare su persone che abbiano alle spalle qualche anno di detenzione e di fronte ancora una lunga condanna. Purtroppo (o per fortuna) non sono molte le tipologie di reato che rispondono a questo requisito. Questo è il motivo per cui gran parte dei giornali delle Case Circondariali, dove i detenuti hanno pene brevi e c’è un continuo ricambio, nascono e muoiono nel giro di qualche mese.

Il fatto che siamo riusciti a insinuare un dubbio nelle tue certezze, ci fa pensare che forse stiamo lavorando nella direzione giusta. Nel senso che le cose che scriviamo sono riuscite a colpirti e a farti riflettere indipendentemente dal fatto che a scriverle siano persone che hanno commesso un omicidio, sulla gravità di reati di questo tipo non ci sogniamo nemmeno di far cambiare opinione a nessuno.

Riguardo invece i tuoi timori, che ben comprendiamo in quanto molto diffusi, sull’assunzione di un detenuto, vorrei sottoporti alcune considerazioni. Circa il rifiuto dell’assistente sociale di informarti sul reato commesso dal detenuto in questione, credo (ma non ne sono del tutto sicuro) che si tratti di una direttiva ufficiale, in ogni caso gli assistenti sociali, come scopre chiunque venga in contatto con le prigioni, sanno bene che in carcere non sono rinchiusi reati, ma persone, ciascuna delle quali ha una storia alle spalle. Ciò può spiegare anche una reticenza personale a ridurre un essere umano, che sta cercando disperatamente di reinventarsi una vita, ad un reato commesso magari più di dieci anni prima.

Quanto alla paura legata alla gravità del reato commesso, purtroppo questo è un grosso problema molto diffuso e che affonda le sue radici nella cinematografia americana. Un vero e proprio mito che è difficilissimo da sradicare. Più volte, sia sul sito internet che sul nostro giornale, abbiamo cercato di spiegare come la logica e la prova dei fatti dimostrino che, per una serie di ragioni, i detenuti con pene molto lunghe siano in realtà quelli che evadono di meno dai permessi e i più affidabili sui luoghi di lavoro. Una di queste ragioni, che forse non abbiamo esplorato a sufficienza, è molto banale: contrariamente alle opinioni più diffuse, la grande maggioranza dei detenuti per omicidio sono persone "normali", che avevano un lavoro e una vita normali e che non avevano mai commesso altri reati. Persone che in un momento della loro vita, in un attimo di follia, hanno ucciso qualcuno: la moglie, il marito violento, il socio di affari che, secondo loro, li aveva derubati.

Questo tipo di detenuti, oltre a sopportare per il resto dell’esistenza il rimorso di quello che hanno fatto, spesso si trovano a scontare pene pesantissime perché, non appartenendo al mondo criminale, non hanno nulla di cui "pentirsi" in senso giuridico, nulla da barattare in cambio di condanne più lievi o addirittura della libertà e vengono sottoposti alle stesse normative d’emergenza escogitate contro la mafia. Non hanno bottini nascosti, per cui perdono tutto ciò che possiedono. Trascorrono decine di anni dietro le sbarre e l’unica cosa che sognano è di poter di nuovo fare una vita "normale", guadagnandosi il pane con il lavoro. Mentre il sistema cerca di trasformarli in individui senza più nulla da perdere, cioè quanto di più dannoso e pericoloso si possa immaginare per la società, queste persone lottano quotidianamente per inventarsi qualcosa per cui continuare a lottare. È rarissimo, per non dire che non è mai accaduto, che persone del genere una volta tornate in libertà, o in misura alternativa, commettano altri reati. La cronaca insegna che forse sarebbe statisticamente più sensato avere paura dei medici "distratti" che sbagliano medicina o dimenticano un bisturi nell’addome, o di quelle persone "perbene" e autorevoli che con i loro disinteressati consigli fanno volatilizzare i risparmi di una vita di migliaia di persone senza rischiare nemmeno un giorno di galera.

 

Graziano Scialpi

 

Come al solito, delle migliaia di detenuti che rigano dritto nessuno parla

 

Gentilissimo Riccardo, quando abbiamo letto il tuo messaggio, mai avrei pensato di riuscire a prendere carta e penna per scriverti.

Penso infatti di essere il meno indicato a farlo, perché appartengo alla categoria di persone alle quali tu, come primo impatto, toglieresti il diritto di parola. Una reazione più che giustificata, la tua. Ci mancherebbe. La reazione del 95 per cento delle persone libere, e forse sono stato ottimista.

Ma il tuo è un messaggio intelligente e stimolante, tutt’altro che una porta chiusa in faccia. Un messaggio che sembra cercare comunque un confronto e che, quindi, conferma la validità del nostro lavoro e la capacità di Ristretti Orizzonti di rappresentare un "ponte" efficace con il mondo esterno. E allora non mi limito a condividere quanto già ha scritto egregiamente Graziano, in risposta al tuo messaggio. Voglio aggiungere qualcosa di mio.

All’interno di questo carcere, con altre 10 persone, lavoro da oltre due anni alle dipendenze della cooperativa sociale "Giotto" di Padova: produciamo manichini in cartapesta. Un lavoro che mi fa sentire una persona "normale", un lavoro che mi restituisce dignità, un lavoro che mi consente di essere di aiuto alla mia famiglia: una moglie e due figlie che certamente non hanno commesso nulla. Come del resto i familiari di quasi tutti i detenuti, costretti a pagare con una vita comunque mutilata colpe non loro.

Tornando al lavoro, ricordo sempre le parole pronunciate il primo giorno da Ettore, il mio "capo cantiere", ovvero il responsabile esterno della cooperativa: "Non voglio sapere nulla della tua vicenda giudiziaria, che pure conosco. Voglio solamente che tu sia un buon lavoratore, che ti impegni…". Sono certo di non averlo deluso.

Con Ettore, dopo due anni di obbligata frequentazione, parliamo delle rispettive famiglie, dei figli, dei problemi quotidiani. Miei e suoi. Qui, per forza di cose e un po’ anche per i vincoli posti dal regolamento, non possiamo permetterci di "stringere" troppo i rapporti personali; ma fuori, in una situazione normale, Ettore e io saremmo ottimi amici. Perché da parte sua non ci sono pregiudizi.

Tra permessi, semilibertà e articolo 21, dalle tante carceri italiane escono ogni mattina alcune migliaia di persone. Lavorano, molti anzi lavorano sodo. Si comportano bene e ogni sera rientrano puntuali in galera. Delle migliaia che rigano diritto però nessuno parla, mentre se un detenuto soltanto "ci ricasca" i titoloni e le mezze pagine si sprecano. è evidente, perciò, che da fuori si abbia una visione deformata - e indiscriminatamente negativa - dei detenuti, e della loro capacità-volontà di cominciare a reinserirsi nella vita "regolare" usufruendo in maniera intelligente e costruttiva delle aperture di credito che gli vengono offerte dalla legge e dall’Ordinamento penitenziario.

La percentuale dei "fallimenti" relativi ai permessi premio, se la memoria non mi inganna, si attesta attorno allo 0,80 per cento. Addirittura scende (0,40 per cento) per gli ammessi alle misure alternative alla detenzione. E nella maggioranza dei casi i fallimenti non dipendono dalla commissione di nuovi reati, ma dalla violazione di prescrizioni, che a volte sono molto rigide: regole, credimi, che spesso farebbe fatica a rispettare anche una persona "regolare", che ha sempre filato dritto. Figurati una che ha alle proprie spalla una vita sbandata...

Voglio allora concludere rivolgendoti un appello, caro Riccardo: ti capitasse ancora, in futuro, di dover scegliere se assumerlo o no, un detenuto, fai un atto di coraggio e dagli fiducia: assumilo. In carcere ci sono molte persone che meritano una seconda chance, credimi. E più la tua accettazione sarà convinta, tanto più alte saranno le possibilità di successo. Perché - ma questo vale anche per i cittadini liberi - non c’è cosa peggiore della diffidenza e del rifiuto.

Ti saluto cordialmente e grazie per averci scritto.

 

Marino Occhipinti

 

 

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