Le prigioni degli altri

 

Affetti col contagocce

 

"Processo" alle carceri italiane e a quelle bavaresi sul tema dei rapporti tra detenuti e famigliari

 

di Paola Marchetti

 

Rapporti con i famigliari: difficili, in Italia. Impossibili, o quasi, in Bayern!

Mi ritrovo nuovamente a scrivere sulla mia "indimenticabile" esperienza bavarese (no, non sto parlando del dolce semifreddo!), che mi provoca la gastrite ogni volta che ne parlo (l’esperienza in carcere, non il semifreddo)!

Ma tant’è: spero almeno che sia di monito a coloro che avessero intenzione di compiere reati in quella regione tedesca!

 

I tempi e i modi dei colloqui per le imputate

 

Da imputata di reati legati alla droga, BTM in linguaggio giuridico tedesco, i colloqui, due ore al mese, da suddividere in quattro colloqui di mezz’ora alla settimana, o in due di un’ora, si svolgono in due stanze distinte, divise da un muro di un metro e mezzo d’altezza, che "prosegue" in un vetro che arriva al soffitto. Il detenuto non deve avere contatti, se non verbali, con i visitatori.

Premetto che le visite che un imputato può avere vengono prima vagliate dal magistrato. Lì non solo i famigliari o il marito, o il convivente, possono accedere ai colloqui. L’imputato presenta al Publico Ministero richiesta per avere colloqui con Tizio e con Caio, il magistrato fa i controlli di rito, e quindi si pronuncia sulla possibilità o meno di tali contatti.

Il mio primo colloquio con mia sorella e mio compagno è avvenuto dopo due mesi circa dal mio arresto, dal momento che la polizia tedesca ha dovuto prendere informazioni in Italia su queste due persone. Piuttosto efficienti, visti i tempi che, qui da noi, le risposte ad una richiesta di colloquio con terze persone richiedono. Oltretutto il mio ragazzo non era incensurato, ma risultava, almeno fino a quel momento (ma anche in seguito!) estraneo alla vicenda per cui io ero imputata.

A quel punto però, un’ora di colloquio, dopo un viaggio di 14-16 ore, tra andata e ritorno, non era sufficiente, anche perché i colloqui non potevano avvenire tutti i mesi. Entrambi i miei "visitatori" lavoravano ed il viaggio, oltre che stancante, era piuttosto costoso. Mantenermi in carcere e venire ai colloqui, costava loro uno stipendio! Per cui il magistrato mi concesse le due ore di seguito di colloquio, una volta al mese, che poi era una volta ogni 45-50 giorni, in realtà.

E si può parlare proprio di "colloquio". Altro non si poteva fare! Né toccarsi una mano, né farsi una carezza, né tantomeno darsi un bacio o abbracciarsi!

Solo una volta fui lasciata sola nella stanzetta (di solito c’era un’agente con me, anche se non ho mai capito perché, visto che nessuna di loro parlava italiano!) e ne approfittai per improvvisare una specie di strip tease attraverso il vetro, per il mio uomo, visto che di altro non vi era possibilità!

 

Dopo il processo

 

Dopo il processo, qualcosa cambia. Non c’è più il vetro che ci divide dai nostri cari. Ma nulla di più. Le due ore mensili rimangono. Non si passa più attraverso il benestare del magistrato per ottenere i colloqui. Basta compilare un pre-stampato scrivendo nomi, indirizzi, dati, delle persone che vogliamo ci visitino (parenti, amici, conoscenti, persino ex compagne di galera, basta che siano passati almeno tre mesi dalla loro liberazione, e questo è un punto a favore del Bayern!).

Io feci richiesta al direttore per poter avere due ore consecutive di colloquio con la mia famiglia, o con i miei amici che venivano dall’Italia. Il direttore me lo concesse, ma un’agente, in occasione della visita di alcuni amici (premetto che avevo colloqui solo ogni due-tre mesi), decise che il mio colloquio dovesse durare un’ora, come da regolamento, rispondendo che, per ciò che la riguardava, i miei visitatori potevano venire anche dall’Antartide: i colloqui sarebbero durati in ogni caso un’ora!

Frau Oswald da quel momento fu la mia agente preferita! L’unica di cui ricordo il nome. L’unica che tentò in tutti i modi di farmi saltare i nervi. L’unica che si ritrovò con un quasi esaurimento nervoso per la frustrazione!

Era un bel personaggio. Neonazista convinta, costretta a trattarci con educazione, ma sempre pronta a segarci le gambe per un nonnulla. Non poteva sopportare gli stranieri, in special modo le italiane, ed il fatto che io fossi irreprensibile nel comportamento, educata e con un po’ di cultura la faceva arrabbiare, e, pur avendo il potere di farlo, non aver nessun motivo per punirmi la faceva sentire peggio. Per questo le ha provate tutte per provocarmi. Ma in questi casi io do il meglio di me.

Mi scuso per essere "uscita dal tema" ma il ricordo di Frau Oswald solletica il mio amor proprio. Mi fa sentire meglio, perché se ho resistito a lei, resisterò a tantissime cose brutte, nella vita!!!

Ma torniamo ai contatti affettivi.

 

Affetti col contagocce, ma almeno niente perquisizioni per i famigliari

 

Due ore mensili, nessuna telefonata. Ufficialmente. Le telefonate erano a discrezione dell’Assistente sociale, una sola per 80-90 donne, o, se ci si "ruffianava" sufficientemente il prete, lui te ne faceva fare una ogni due o tre mesi.

Essendo io atea e con una discreta "cattiva opinione" di un certo tipo di clero, anche se con i dovuti "distinguo", ruffianarmi il prete non mi riusciva proprio.

Fatto sta che in un anno e quattro mesi passati ad Aichach, il carcere definitivo, ho telefonato 6 o 7 volte a casa, ho visto mia figlia e i miei genitori tre volte, ma… potevo sempre contare sulla posta!

I colloqui avvenivano in una sala comune, un tavolo appiccicato all’altro, con bimbi che correvano e urlavano e piangevano; duravano un’ora esatta, quale che fosse l’orario di entrata dei visitatori.

Tre o quattro agenti, sempre presenti in sala, immettevano nel computer l’orario di entrata delle visite (non vi erano orari precisi, come qui da noi, si poteva entrare dalle otto di mattina alle tre del pomeriggio), e allo scadere dell’ora, in modo molto preciso, molto "deutch", facevano uscire i visitatori.

La cosa positiva, unica forse, era che i visitatori non venivano trattati come "delinquenti". Non erano loro ad aver commesso reati! Loro passavano infatti sotto il metal detector, e nulla più.

Dovevano lasciare in un armadietto tutto ciò che avevano, ma non venivano perquisiti "corporalmente". Neppure gli ex detenuti che venivano a visitare vecchi compagni.

Quando finivi la tua pena, potevi accedere al carcere da visitatore, senza dover subire angherie.

In compenso, noi detenute, prima e dopo il colloquio, passavamo per una stanza apposita, dove riponevamo le nostre cose (sigarette, anelli, altri gingilli che ci erano permessi) negli armadietti, la cui chiave aveva un agente, e venivamo perquisite MOLTO attentamente.

Si può ben capire che due ore di colloquio mensile e, praticamente, una telefonata ogni due mesi circa, non permettono di mantenere i rapporti con i propri cari al miglior livello possibile.

Nulla, tra l’altro, è permesso introdurre ai colloqui. Neppure nel caso di bimbi molto piccoli. Neppure un biberon di acqua.

 

Non solo famiglia

 

C’è da dire che i legami famigliari vengono sentiti diversamente all’estero rispetto a come sono percepiti in Italia. Ne è una dimostrazione il fatto che in Bayern i colloqui ai detenuti non sono permessi solo con i famigliari, come invece succede da noi.La famiglia non è l’unico nucleo su cui si riversano tutte le nostre capacità affettive, anzi. Molto spesso le famiglie abbandonano i detenuti, che quindi, in Italia, si ritrovano completamente soli.

Nel mio caso, il fatto che in Bayern si potessero avere facilmente colloqui con "altri" al di fuori dei famigliari, mi ha permesso, inizialmente, di vedere regolarmente il mio uomo, col quale certi tipi di discorsi e di "aiuti" erano più semplici che con la mia famiglia, che non avrebbe, pur con tutto l’affetto che c’è tra noi, capito la situazione. I contatti con gli avvocati e non solo, quindi, sarebbero stati problematici, sia per me che per loro, che avrebbero sofferto inutilmente, proprio per l’incapacità di capire la situazione.

In questo modo ho avuto tempo per prepararli piano piano, per fargli "digerire il boccone amaro" che gli avevo "messo sul piatto". Per aiutarli ad accettare, anche se con grande difficoltà, il mio errore, che nel caso fosse loro stato riversato addosso all’improvviso avrebbe causato molta più sofferenza e tensioni.

In un secondo tempo, quando già la situazione era loro chiara, ma, vista la distanza, non avrebbero potuto venire regolarmente, ho potuto almeno avere colloqui mensili con un’amica con cui ero stata in carcere nei primi sei mesi, e che poi era stata rilasciata.

A volte amicizie (poche) che nascono in un comune destino, possono mantenersi nel tempo, ed è un peccato che in Italia non possano venire continuate tenendo vivi i contatti. Il solo rapporto epistolare non è sufficiente per "parlarsi" sul serio.

E tanto meno è sufficiente con i figli. Io con mia figlia, infatti, ho avuto seri problemi, che ho risolto solo nel momento in cui sono tornata in Italia, quando ho potuto guardarla negli occhi, parlare con lei col cuore in mano e con assoluta sincerità. Dopo due anni e mezzo di contatti estremamente sporadici, in cui lei, da adolescente qual era al momento del mio arresto, era diventata una donna, c’erano delle cose da chiarire. C’erano degli argomenti da affrontare in modo diverso. C’è stato finalmente il modo di parlarci, io e lei da sole, senza filtri.

Insomma, ci sono delle cose da cambiare pure qui, per ciò che riguarda i colloqui che si possono avere in carcere, ma anche nella mia esperienza bavarese c’è stata una grande sofferenza per la scarsità di contatti famigliari: evidentemente, quello che accomuna Italia e Bayern è la necessità di rendere la carcerazione più umana e dignitosa proprio dando più spazio ai rapporti affettivi.

 

 

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