Sani - dentro

 

Detenuti: pazienti difficili. E le ragioni sono tante…

ma la ragione più importante è una: "Non voglio morire qua dentro!"

 

di Francesco Morelli

 

Sono stato ad un convegno su "Carcere e salute", che si è svolto recentemente a Padova, e ho ascoltato tanti interventi, alcuni davvero interessanti. Alla fine, quando quasi tutti (pubblico e relatori) se n’erano già andati - dovendo dare il mio contributo - ho preferito fare alcune osservazioni su ciò che era stato detto quel giorno, anziché presentare, come da programma, i risultati di una ricerca realizzata nella Casa di Reclusione di Padova.

I vari operatori presenti, sanitari e non, penitenziari e non, partivano da un presupposto: la salute è il "bene" principale, per ogni persona, quindi siamo tutti d’accordo di tutelarlo al meglio e bisogna soltanto individuare gli strumenti giusti per raggiungere questo comune obiettivo, anche in un posto complicato come il carcere.

Il problema è che le complicazioni dell’ambiente carcerario sono così grandi da sconvolgere ogni "assennata certezza" sui comportamenti umani: qui il "bene" centrale è la libertà, non la salute, e una persona può, coerentemente, decidere di sacrificare il proprio benessere fisico nel tentativo di ottenere ciò che reputa più importante d’ogni altra cosa.

Mi pare che i medici penitenziari, ma un po’ tutti gli operatori della giustizia, sottovalutino la particolarità della condizione dei pazienti - detenuti, quando parlano di prevenzione, di attenzione al disagio, di supporto psicologico, tutte cose importanti, ma che ignorano il nodo della questione: noi siamo quotidianamente impegnati nella "scalata" verso la libertà, ma anche nella lotta per la sopravvivenza dentro l’istituzione, e spesso la nostra salute, il nostro corpo, diventano l’unico mezzo a disposizione per sostenere delle rivendicazioni, per costringere l’interlocutore istituzionale, altrimenti disattento e insensibile, ad occuparsi di noi.

L’autolesionismo più palese (le incisioni sulle braccia e sul busto, le labbra cucite, etc.) serve soprattutto per reclamare piccoli miglioramenti nella condizione detentiva: un lavoro interno al carcere, un’autorizzazione a telefonare alla famiglia, un trasferimento in un’altra sezione, o in un diverso istituto. Tutti questi risultati possono essere ottenuti anche con altri mezzi, quando si è abbastanza istruiti e pratici di cose carcerarie; sono sempre i compagni meno "attrezzati", infatti, quelli che si fanno del male: stranieri, giovani e giovanissimi, poveri, con meno cultura.

Gli scioperi della fame servono per richiamare l’attenzione degli operatori dell’istituto, ma anche della magistratura, su un problema che in genere è di maggiore spessore rispetto a quelli rimarcati con i gesti autolesionistici. Può trattarsi di una "sintesi" che non viene fatta (è il rapporto sull’osservazione scientifica della personalità, stilato dagli operatori del carcere e trasmesso ai giudici, e che serve per uscire in permesso, o per avere una misura alternativa), di un’udienza in tribunale che non viene fissata, di un ricorso che non viene esaminato, etc.

Anche in questo caso, si tratta di un tentativo abbastanza disperato, perché chi ha un avvocato in gamba, o dei parenti che hanno la possibilità di occuparsi dei suoi problemi, ottiene tutto ciò che è ottenibile, da un lato impugnando la legge (che stabilisce tempi non eterni, per l’esame delle pratiche da parte dei giudici) e, dall’altro, facendo intervenire i propri famigliari con gli operatori che, per quanto siano abituati alle lamentele dei detenuti, davanti ad una madre o una moglie in apprensione, non negano il proprio interessamento.

Quasi sempre gli autolesionismi e gli scioperi della fame sono utilizzati per chiedere il riconoscimento di un diritto effettivo, magari non esattamente messo a fuoco nelle sue sfumature giuridiche, però senz’altro appartenente al patrimonio culturale di ogni comunità detenuta e, quindi, trasmesso rapidamente dai compagni di cella più anziani ai "nuovi giunti". Però spesso accade che questi diritti teorici non si traducano (nei tempi attesi) in risultati tangibili a causa della sproporzione tra il numero di quanti li reclamano e il numero di quanti devono renderli effettivi: s’innesca così una forma di concorrenza, nella quale ciascuno usa i mezzi che può…

Su un piano diverso ci sono tutti i mezzi messi in atto per ottenere una diminuzione, o una sospensione della pena, facendo leva sulla malattia fisica o psichica. Le leggi italiane, per quanto criticabili (per tutti i difetti che evidenziano in sede di applicazione), sono le sole in Europa che prevedono l’incompatibilità tra alcune patologie gravi e la detenzione. Questa possibilità fa sì che, a volte, i detenuti seriamente ammalati non abbiano convenienza a curarsi in carcere (ammesso che l’istituzione possa fornire le cure necessarie, cosa che frequentemente non avviene). Paradossalmente, ed è drammatico pensare che si possa arrivare a tanto, qualcuno pensa che è meglio lasciare che la malattia si aggravi a tal punto da rendere necessaria la scarcerazione, quindi il ricovero in ospedale, quindi il differimento della pena, magari una detenzione domiciliare. Per ottenere questo, si buttano via i farmaci prescritti, ci si procura intossicazioni alimentari (in molte carceri le uova crude sono vietate proprio per evitare che, lasciate andare a male, siano poi usate per farsi venire un’epatite), e simili cose.

Si tratta di comportamenti evidentemente pericolosi e pure dagli esiti incerti, perché nessun certificato medico può garantire l’uscita dal carcere: l’ultima parola spetta al giudice, che deve considerare non soltanto lo stato di salute del detenuto ma anche la sua "pericolosità sociale"… assumendosi così una responsabilità tremenda, a mio modo di vedere.

Da un lato, infatti, c’è il rischio che le cure prestate in carcere siano inadeguate e quindi il detenuto muoia. E non è affatto una previsione teorica: ripassandomi le rassegne stampa dell’ultimo anno con tutti gli articoli dedicati al carcere, ho contato una quindicina di decessi per "cause naturali". Purtroppo l’esperienza mi fa dire che a questo numero andrebbero aggiunti anche altri compagni, morti sull’autoambulanza (mentre venivano trasportati "d’urgenza" in ospedale), oppure poco dopo il ricovero.

Ma, dall’altro lato, per il giudice c’è anche il rischio di rimettere in libertà una persona che commette subito qualche reato, magari proprio perché la sua malattia fa sì che non abbia più nulla da perdere. E questi sono casi che fanno sempre scalpore, come successe a suo tempo con la "banda dell’AIDS", a Torino: addirittura, sull’onda emotiva suscitata da quella vicenda, fu modificata in senso restrittivo la legge sull’incompatibilità tra lo stato di detenzione e le malattie gravi (AIDS in primo luogo).

Il fare in modo che una malattia si aggravi è un comportamento, quindi, molto diverso dalla simulazione (che, almeno per quanto riguarda le patologie fisiche, è facilmente smascherata e infine si rivela controproducente): qui si mette veramente in gioco la vita; però va compreso che, se già un detenuto in salute si sente in qualche modo defraudato della propria esistenza, chi è ammalato e, ogni mattino, si sveglia un po’ più debole del precedente, ha un solo pensiero che lo ossessiona: "Non voglio morire qua dentro!!!".

A questo imperativo si aggiunge l’irreversibile sfiducia nei confronti della medicina penitenziaria e anche della magistratura (nel momento in cui è chiamata ad occuparsi della salute dei detenuti): scegliere il "tutto per tutto" ha una sua logica, quando la prospettiva è comunque quella di non uscire vivi dal carcere.

 

In carcere non vivi, sopravvivi, e quindi spesso cerchi una dimensione esistenziale più soddisfacente attraverso l’alterazione psichica data dai farmaci, dal vino, dalle droghe

 

Riguardo alla malattia mentale va aperto un diverso capitolo di considerazioni e vorrei farlo prendendo spunto dalle parole del provveditore Ettore Ziccone, che al convegno "Carcere e salute" ha chiesto, provocatoriamente: "Perché molti detenuti, a nostro parere malati di mente, sono negli Istituti di pena ordinari e molti detenuti, a nostro parere sani di mente, stanno negli O.P.G.?".

La risposta più ovvia è che diagnosticare con sicurezza una malattia psichica è più difficile che non una fisica. Inoltre l’O.P.G. (Ospedale Psichiatrico Giudiziario, l’ex Manicomio Criminale) fa paura, a tutti, carcerati e carcerieri: anche tra i medici penitenziari c’è la diffusa convinzione che per un detenuto, anche affetto da problemi mentali, sia preferibile restare in un carcere "normale", tra compagni "normali"… e, probabilmente, è una convinzione molto fondata. Il ricovero in O.P.G. è disposto soltanto quando la persona diventa ingestibile e, solitamente, per un periodo d’osservazione che dura 60 giorni. Chi torna da queste esperienze racconta cose abbastanza terrificanti e, quasi sempre, appare "migliorato" o, almeno, si sforza di essere lucido e coerente, nel timore di un nuovo ricovero…

Oltre ai detenuti in "osservazione" nell’O.P.G. ci sono le persone internate: ritenute incapaci di intendere e volere, quindi non condannabili, sono sottoposte a questa misura di sicurezza. L’internamento dura almeno cinque anni, quando la persona ha commesso un reato altrimenti punibile con 30 anni di carcere; almeno dieci anni, quando la pena sarebbe stata l’ergastolo.

Con questi dati è possibile comprendere come l’infermità mentale possa anche rappresentare una "carta da giocare", durante il processo, almeno per gli autori di reati gravi. Anche il solo riconoscimento della seminfermità mentale, pur non determinando il proscioglimento, permette di avere una diminuzione della pena.

Quella di fingersi pazzi può essere, dunque, una scelta calcolata: meglio pochi anni in O.P.G., sia pure in un ambiente allucinante, che molti anni da trascorrere nella relativa tranquillità del carcere. Il problema è che poi dall’O.P.G. bisogna uscire e l’internato non ha un "fine pena" ma, alla scadenza del suo periodo di ricovero, deve apparire perfettamente guarito, altrimenti la misura di sicurezza gli viene prorogata. Anche questo fa parte della lotta per la sopravvivenza. In questo caso il prezzo da pagare sono le vagonate di sedativi che bisogna prendere, la convivenza con persone purtroppo realmente malate di mente e, per di più, istituzionalizzate, il che si traduce, spesso, in un degrado senza scampo.

"Sopravvivenza", insomma, è una parola forte ma necessaria, davanti ai corpi auto-incisi a colpi di lametta; davanti agli scioperi della fame, quelli veri, che trasformano le persone in scheletri ingobbiti; davanti alle pasticche di "Roipnol" sciolte nel vino. In carcere non hai alcun potere contrattuale, quindi devi mettere in atto delle strategie alternative, se vuoi avere una qualche considerazione. Non vivi, sopravvivi, e quindi spesso cerchi una dimensione esistenziale più soddisfacente attraverso l’alterazione psichica data dai farmaci, dal vino, dalle droghe.

I detenuti che possono avere regolari relazioni con persone esterne all’istituzione (famigliari, insegnanti, volontari) molte volte riescono a sottrarsi almeno ad alcune di queste dinamiche, in quanto la loro identità sociale, in qualche modo, si mantiene in vita e subentra il desiderio d’essere comunque presenti e presentabili, di non lasciarsi andare troppo.

Io comunque faccio fatica, dopo dodici anni durante i quali ho visto, più o meno, le stesse cose, gli stessi autolesionismi, suicidi e tentati suicidi, overdose di psicofarmaci, a credere che esista una soluzione. Forse esistono tante piccole soluzioni, che in alcuni momenti e luoghi possono anche funzionare. Poi, magari, cambia un direttore, cambia una "generazione" di detenuti, e ti ritrovi daccapo.

E qualche esperienza valida è stata presentata anche al convegno sopra detto, come quella delle "Vallette" di Torino, o quella di "San Vittore" a Milano, però ce le siamo raccontate tra noi: i rappresentanti politici e gli amministratori locali non partecipano ai convegni per ascoltare e imparare… arrivano, fanno il loro "saluto" e se ne vanno. Chissà, poi, chi gli spiega come funziona il piano degli interventi, della sperimentazione, delle iniziative per cambiare la situazione: mi viene perfino il dubbio che sappiano le cose per telepatia… prima ancora che accadano!

Seminario nazionale Carcere e salute

Padova, 17 maggio 2003

 

Organizzazione

 

Université Européenne Jean Monnet – Bruxelles. Sede di Padova - Istituto ETAI

 

Conduzione

 

Ivano Spano, Università di Padova, Direttore della Scuola di Specializzazione in Criminologia

 

Relazioni principali

 

Giuseppe Mosconi, Università di Padova: "Per una definizione del rapporto tra pena e salute"

Alberto Meluzzi, Psichiatra: "Il carcere come ultima istituzione totale"

Padova Prof. Claudio Sarzotti, Università di Torino: "Sanità penitenziaria tra carcere e territorio"

Giovanni Maria Pavarin, Giudice di Sorveglianza, Padova: "Sospensione della pena e salute"

Pietro Buffa, Direttore Carcere "Le Vallette", Torino: "L’attenzione al disagio psichico in carcere: resoconti di una ricerca intervento"

Sandro Libianchi, Medico Rebibbia, Roma: "Lo stato della Riforma carceraria e i problemi della salute"

Susanna Ronconi, Gruppo Abele, Torino: "Ricerca azione e peer education, rilanciare la prevenzione"

Francesco Morelli e Ornella Favero, Redazione di "Ristretti Orizzonti", Padova: "Ricerca sulle condizioni di salute dei detenuti padovani"

Donatella Zoia, Servizio Tossicodipendenze, San Vittore, Milano: "La condizione dei detenuti tossicodipendenti"

 

Hanno detto nel corso del seminario

 

Ettore Ziccone, Provveditore DAP per il Triveneto

 

"La situazione, invece di migliorare, negli anni sta peggiorando, perché i finanziamenti per le cure dei detenuti ogni anno vengono ridotti in maniera consistente e siamo di conseguenza costretti a ridurre l’attività sanitaria su cure che, in realtà, sono tutte importanti ed essenziali".

 

Giuseppe Mosconi, Università di Padova

 

"Il detenuto che sta steso per buona parte della giornata nel proprio letto sicuramente non crea problemi di equilibrio e di disciplina all’interno dell’istituzione… anche se certamente attraversa dei grossi problemi personali. Una politica sanitaria illuminata cercherà di farlo alzare da quel letto ma con un comportamento diverso, rispetto a quello rappresentato, magari, dall’assunzione abbondante di psicofarmaci che lo stordiscono per buona parte della giornata".

 

Alberto Meluzzi, Psichiatra

 

"Il carcere, come il manicomio, rappresenta una risposta indifferenziata, uniforme, livellante, mortificante la soggettività, ad una gamma infinita di storie, di casi, di situazioni, di problemi. […] Rappresenta, rispetto alla devianza, l’esatto opposto di quello che servirebbe. Laddove occorrerebbe ricostruire legami e relazioni che diano sensazioni di confidenza, d’affidabilità e di progettualità, il carcere fa, per ovvie ragioni, esattamente l’opposto. Laddove occorrerebbe trasmettere dei sistemi valoriali solidi, sicuri, il carcere propone l’estremo dell’autoreferenzialità".

 

Claudio Sarzotti, Università di Torino

 

"In Francia, con la riforma del 1994, c’è stato il passaggio totale della sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale e questo ha determinato un incremento del potere tecnico degli operatori sanitari. Quindi mi sembra che le resistenze nei confronti della riforma italiana siano di corto respiro, cioè ho l’impressione che i medici penitenziari non si rendano conto che un passaggio al Servizio Sanitario Nazionale sarebbe produttivo, anche dal punto di vista dei rapporti all’interno del carcere. Una maggiore autonomia della sanità penitenziaria la scollegherebbe, almeno dal punto di vista organizzativo, dalle esigenze securitarie, tipiche a volte delle direzioni degli Istituti".

 

Franco Fasolo, Direttore Dipartimento di Salute Mentale di Padova

 

"Purtroppo siamo nell’epoca della riproducibilità tecnica del manicomio, negli ultimi tempi stiamo assistendo, sia a livello nazionale sia a livello padovano, ad una crescente criminalizzazione dei malati mentali".

 

Giovanni Maria Pavarin, Magistrato di Sorveglianza di Padova

 

"Sono convinto che il nostro orizzonte culturale e politico, cioè la prossima meta alla quale la civiltà umana dovrà approdare, consiste in quest’ideale, […] quello di una società che si convinca che il carcere è inutile. Ma, forse, non basterà la storia dell’uomo per arrivarci, perché se ti do un calcio la prima reazione è che tu me lo restituisca. L’idea della retribuzione, della risposta immediata alla tua offesa, forse è incancellabile nella coscienza dell’uomo, ma mi auguro di assistere al momento in cui non sarà più così".

 

Sandro Libianchi, Medico penitenziario a Rebibbia, Roma

 

"Se guardiamo il dato sulla capienza degli Istituti penitenziari ci accorgiamo che, nell’ultimo anno, ha avuto delle modificazioni importanti: gli Istituti sono rimasti quelli che erano, perché qualcuno è stato aperto ma qualcuno è stato chiuso, quindi come capienza fisica non sono cambiati, è cambiata la tollerabilità sul numero dei detenuti che possono starci. Questa tollerabilità è un concetto che è stato elasticizzato, sono cambiate le riparametrazioni degli Istituti e così si è arrivati a una tollerabilità differente, per Decreto. Questo è un punto importante perché, apparentemente, non c’è problema, invece chi lavora e vive in carcere qualche problemino lo vede".

 

Pietro Buffa, Direttore del carcere "Le Vallette" di Torino

 

"Nel mondo sociale penitenziario, come nel mondo sociale libero, ci sono quartieri alti e quartieri bassi, e chi sta nei quartieri bassi, difficilmente riesce ad andare nei quartieri alti. Ma se non si accede ai quartieri alti non si ha un buon livello di vita e, se non si ha un buon livello di vita, succede quello che succede… che poi ci si fa male. Allora facciamo in modo che almeno una variabile, che fa abbassare l’indice di vivibilità in alcune sezioni del carcere, venga modificata in meglio: facciamo in modo che queste sezioni vengano maggiormente presidiate. Ma da chi? Sicuramente non da psicologi o da medici, ma da persone che ascoltano i detenuti [...] abbiamo individuato negli assistenti volontari le persone che possono fare questo".

 

Donatella Zoia, medico penitenziario a San Vittore, Milano

 

"Le persone entrano in carcere perché le droghe sono illegali, non perché c’è un problema legato alla gravità della "malattia tossicodipendenza", tanto è vero che gli alcolisti entrano in carcere molto meno dei tossicodipendenti, ma non è vero che l’alcolismo è un problema meno rilevante socialmente. A Milano c’è un progetto che si chiama <La cura vale la pena>, in cui alla persona, al momento del processo, viene proposto un trattamento alternativo, che solitamente è comunitario, almeno per i primi tempi, ma può essere anche una detenzione domiciliare".

Trasferire tutti i detenuti malati negli istituti della Toscana

Perché soltanto lì si riescono a garantire i diritti minimi ai carcerati?

 

A proporlo provocatoriamente è Francesco Ceraudo, presidente dell’associazione dei medici penitenziari ed elettore del centro-destra, oggi un po’ "arrabbiato"

 

di Graziano Scialpi

 

Vuoto normativo, rimpalli di responsabilità tra Ministero della Giustizia e Regioni e la scure dell’ultima finanziaria che ha tagliato i fondi del 30%: la sanità penitenziaria ha imboccato una china che rischia seriamente di mettere a repentaglio la vita di tanti detenuti che non possono più ricevere le cure necessarie. A lanciare l’ultimo allarme una volta tanto non sono i carcerati, ma Francesco Ceraudo, presidente sia dell’associazione italiana che di quella internazionale dei medici penitenziari, che nei giorni scorsi ha minacciato di incatenarsi insieme ai suoi colleghi davanti alle carceri se il governo non interverrà tempestivamente. Una presa di posizione da non sottovalutare, soprattutto se si tiene conto, come ha tenuto a sottolineare lo stesso Ceraudo, che viene da una persona che alle ultime politiche ha votato per il centro-destra.

Ma per capire cosa sta succedendo è necessaria una breve cronistoria di quello che è accaduto negli ultimi anni nel misterioso mondo della sanità penitenziaria. Con la legge n. 230 del giugno 1999 era stato finalmente esteso ai detenuti il diritto alla salute sancito dall’art. 32 della Costituzione. Tale legge, stabilendo che le persone recluse hanno diritto agli stessi servizi sanitari dei cittadini in libertà, sancisce il passaggio della sanità penitenziaria dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale. Nell’ottobre 2001, però, con la legge n. 3 di "Modifica del Titolo V della Costituzione", ogni competenza sulla tutela della salute è passata dallo Stato alle Regioni. E qui tutto si ingarbuglia. Perché nei fatti, se non nelle dichiarazioni di principio, le Regioni non sembrano volersi accollare la sanità penitenziaria, di conseguenza in gran parte del territorio nazionale il passaggio di competenze tra il Ministero e gli enti locali non c’è stato. Pochissime le eccezioni: Emilia Romagna, Molise, Sicilia e soprattutto la Toscana, che nei mesi scorsi ha presentato un disegno di legge regionale sulla "Tutela del diritto alla salute dei detenuti e degli internati" e ha stilato un protocollo di intesa con il Ministero della Giustizia per l’assistenza sanitaria in carcere. Nel resto d’Italia è il caos. Le prime ad essere state tagliate sono le cure dentistiche e, a seguire, l’erogazione di tutti i farmaci non strettamente "salvavita". Ma nei mesi scorsi, a Brescia, i detenuti sieropositivi hanno potuto continuare le cure solo grazie all’intervento delle associazioni di volontariato che hanno acquistato i farmaci a loro spese, perché il carcere aveva terminato i fondi. Il direttore di San Vittore, Luigi Pagano, ha spiegato che i soldi per le visite specialistiche del 2003 sono già terminati, e siamo solo a giugno. Ma questi sono solo piccoli esempi in un quadro che su 58mila detenuti ne vede ben 20mila tossicodipendenti, 10.500 affetti da epatite virale cronica e 5mila sieropositivi che, per la mancanza di antiretrovirali, rischiano di vedersi scivolare nell’Aids conclamato. E i 500 detenuti che l’Aids ce l’hanno già? Secondo Ceraudo il taglio di 20 milioni di Euro dal già esiguo budget di 95 milioni per l’intera sanità penitenziaria li ha praticamente condannati a morte. Soluzioni possibili? Ceraudo propone provocatoriamente di trasferire tutti i detenuti malati negli istituti penitenziari della Toscana, perché soltanto lì si riescono a garantire i diritti minimi ai carcerati.

Non avevo la forza per decidere da solo di non bere più

E come straniero non sapevo a chi rivolgermi per farmi aiutare

 

Un corso di sensibilizzazione all’approccio ecologico - sociale ai problemi collegati all’uso di alcol

 

di Gentian Allaj

 

Il primo bicchiere l’ho bevuto scherzando, dopodiché ho cominciato a bere sempre di più perché il mio corpo ne sentiva l’esigenza e non potevo stare senza. Mi faceva pure divertire, ero debole e non avevo la forza per decidere da solo di non bere più, anche perché era molto difficile, soprattutto per uno straniero, trovare un club o un’associazione per chiedere aiuto.

Oggi mi rendo conto di tutto quello che ho sofferto, ma per fortuna qui in carcere ho trovato la "famiglia" dell’Acat che mi ha aiutato molto a riprendere la mia vita in mano, a decidere quello che è meglio, e oggi mi sento di poter dire molto forte, con tanta felicità, che non bevo più. Sono io a comandare il mio corpo, e non gli alcolici.

Come detenuto ho avuto di recente la possibilità di uscire in permesso premio per partecipare ad un corso di sensibilizzazione all’approccio ecologico-sociale ai problemi alcolcorrelati.

È stata un’esperienza istruttiva, che mi ha dato la possibilità di arricchire il mio bagaglio di conoscenze su questo problema che mi sta molto a cuore, proprio perché ha portato anche a me disagio e sofferenza. Dal mio punto di vista questo è un problema che si sta allargando molto: sono tante le persone che fanno uso di alcool, è una realtà molto diffusa nei giovani di oggi, fonte di molti incidenti, perdita del lavoro, carenze affettive (crisi nella famiglia), assenza di valori e tante altre cose molto importanti della nostra vita.

Tutte queste dinamiche sono state seguite, da parte dei corsisti, con molta attenzione, anche se i primi giorni non erano molto convinti del fatto che anche un solo bicchiere di alcol può far male, ma grazie alla testimonianza delle persone come me, che hanno avuto questo problema, e con gli incontri che abbiamo fatto con i Club della zona di Venezia, tutti si sono convinti e hanno preso la decisione di cercare di dare una mano a chi ne avrà bisogno.

Questi sei giorni di confronto sono stati gestiti in maniera assolutamente informale da parte del Direttore Luigi Collosi, di Anna Maria, di Nicoletta Regonati e degli altri insegnanti. Non posso dimenticare gli incontri che abbiamo fatto con i Club fuori, dove mi sono emozionato nel partecipare e nell’ascoltare queste persone in presenza delle loro famiglie. Erano tutti molti sereni nel raccontare i loro problemi agli altri membri del club, non si sentivano a disagio, perché fare parte del gruppo da tanto tempo equivale ad appartenere ad una vera grande famiglia: la forza del gruppo sta proprio nel riuscire a liberarsi dai problemi mettendosi a confronto con tutti gli altri, portando ognuno il proprio piccolo bagaglio costituito dall’esperienza personale.

Mi ha colpito molto il fatto che queste persone stavano insieme da tanti anni, anche venti, e nonostante il tempo trascorso hanno sempre la voglia di andare avanti e di aiutare altri che ne hanno bisogno, rendendo partecipi anche le famiglie, che in queste situazioni hanno un ruolo di grande importanza. Abbiamo parlato molto anche della ricaduta, che secondo me fa parte del percorso, anzi aiuta una persona a rafforzare la propria personalità, la fa riflettere e la porta ad essere più rispettosa nei confronti degli altri. Ognuno è libero, ogni settimana durante gli incontri, di raccontare oppure no la verità, e chi appartiene alla "famiglia" dell’Acat non ha paura né tanto meno vergogna di dire come stanno davvero le cose: sanno che, in ogni caso, con la forza del gruppo riusciranno a continuare nel modo più giusto.

La mia sensazione è che questo corso mi abbia fatto crescere, ma penso che sarà molto utile che da adesso in poi ci sia più informazione per le persone che hanno questo genere di problemi. Ricordo che quando ho cominciato a bere non trovavo punti di riferimento che potessero aiutarmi a smettere, e allora spero che si aprano degli uffici che consentano alle persone di ridurre il danno che comporta l’uso dell’alcol, affinché quello che è successo a me e a tante altre persone non succeda ad altri, ma si riesca ad aiutarli in tempo.

 

 

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