Parliamone

 

Io non vado in carcere per redimere qualcuno

 

Vado in carcere perché penso che la sfida sia far vedere a chi ha fatto scelte devastanti per sé e per gli altri che esiste anche una vita diversa

 

di Ornella Favero

 

Bilancio di una iniziativa culturale, di informazione e di sensibilizzazione sul carcere, a Civitas, la fiera del Terzo Settore, nel "cuore" del volontariato: tre giorni intensi di informazione e sensibilizzazione sui temi del carcere, con tanti detenuti in permesso premio, che hanno potuto parlare con la gente, fatto loro stessi volontariato, abbracciato le mogli e i figli, ma anche un detenuto evaso, che ha naturalmente riempito le pagine dei giornali, e un altro rientrato con della "roba"

 

Ci sono delle sensazioni disordinate che mi porto a casa da Civitas: l’invisibilità del carcere, prima di tutto. L’impegno sociale in carcere paga così poco, che anche chi ci fa delle attività dentro tende a mimetizzarsi, a privilegiare il resto, a scegliere di mettere in mostra il proprio intervento con "i buoni" e minimizzare invece quello con "i cattivi". A Civitas c’è troppa bontà, i cattivi "rendono poco", noi volontari di Padova e di Venezia abbiamo scelto invece di portare proprio a Civitas "i cattivi", e di mostrare che per lo più ci assomigliano: sono persone "normali", con le quali si può parlare, scambiare delle idee, ascoltare le loro ragioni. 15 detenuti e una detenuta sono stati per tre giorni in permesso premio, alla fine ne è uscito un bilancio straordinariamente positivo, ma anche delle cose negative, l’evasione di un ragazzo straniero, l’unica notizia di cui i giornali hanno parlato, e il detenuto rientrato con una dose di droga.

In questa situazione la prima cosa che mi viene in mente è una considerazione che ha fatto Edoardo Albinati, scrittore e insegnante a Rebibbia, quando lui e le sue colleghe hanno letto sul giornale che quello che era stato il loro miglior studente, brillante, sensibile, intelligente, appena uscito a fine pena si era fatto ammazzare in una sparatoria durante una rapina. Alla disperazione delle sue colleghe, al senso di sconfitta personale, lui aveva risposto brutalmente: questa non è una sconfitta nostra, questa è un disastro, una sconfitta della vita. In una situazione meno drammatica, ma sempre sgradevole e triste come quella capitata a noi, mi sento di dire la stessa cosa: io caparbiamente ci ho tentato e ci tento, di dare a queste persone una prospettiva diversa, una diversa possibilità di scelta, se poi non ci sono sempre riuscita è perché la vita è davvero troppo complessa per pensare che basti sempre una presenza attenta e generosa del volontariato a "salvare il mondo". Un mondo poi, diciamocelo francamente, così complicato, che può succedere tranquillamente che a portar droga in luoghi "strani" sia magari un collaboratore di un sottosegretario, che se ne entra imbottito di roba in un Ministero (è successo qualche mese fa, ve ne ricordate, ancora?), e magari anche un deputato inglese (tracce di cocaina rilevate ovunque alla Camera dei Lord) o un agente (succede). Che cosa dovrei allora pensare, che i collaboratori dei sottosegretari o i lord inglesi o agenti e poliziotti sono tutti degli spacciatori? Certamente no. E allora non mi pare neppure che sia giusto pensare che per un detenuto che si fa tentare da questa schifezza, tutti gli altri che escono regolarmente in permesso e cercano faticosamente di ricostruirsi una vita "normale" debbano essere accomunati nella solita generica condanna e nel solito appello a lasciarli dentro e dimenticarsi le chiavi.

 

Un’altra riflessione che voglio fare riguarda che cosa significa per tanti di noi fare volontariato in carcere

 

Mi piace, ogni tanto, ricordare una considerazione, sempre di Edoardo Albinati: i detenuti, dice Albinati, non sono esattamente dei "soggetti deboli", anzi a volte sono soggetti forti, sono soggetti con un passato pesante e un presente su cui si possono avere delle speranze, ma sicuramente non delle certezze. Il volontariato è abituato invece più spesso a operare con soggetti realmente e solo disagiati: handicappati, malati psichici, bambini maltrattati. Io capisco allora anche perché tanti agenti della polizia penitenziaria quando vogliono provocarci un po’ ci dicono: ma perché non vi occupate di chi sta davvero male, invece che di delinquenti? È vero, me lo chiedo anch’io, perché?

Non voglio usare nel rispondere la tecnica del "confondere le acque", spiegando che in carcere ci sono tanti poveracci, senza risorse, senza sostegno famigliare, senza niente, non voglio perché io quando vado in carcere mi occupo dei "poveracci" ma mi occupo anche dei delinquenti, di quelli che lo sono stati e di quelli che probabilmente lo sono ancora. Che senso ha tutto questo?

Io non sono credente, se lo fossi forse troverei più facile rispondere, perché dal Vangelo risulta ben chiaro che è dei peccatori, delle "pecorelle smarrite" che bisogna soprattutto occuparsi. Ma io sono laica, e anche dotata di un certo sano cinismo, e quindi so bene che le mie non sono certo tutte pecorelle, smarrite o meno, anzi a volte sono lupi che potrebbero usarmi per i loro tutt’altro che nobili scopi. Io lo so, e non vado in carcere per redimere nessuno: vado in carcere perché penso che la sfida sia far vedere a chi ha fatto scelte devastanti per sé e per gli altri che esiste anche un’altra vita, un modo diverso di affrontare le difficoltà cercando di rispettare gli altri e di non sprecare la propria esistenza in luoghi senza qualità e senza dignità come le galere.

Un’altra cosa vorrei dirla a chi sta fuori, e leggendo certe notizie sui giornali penserà senz’altro che chi ha commesso un reato è meglio che se ne stia in galera, e anche il più possibile: questa è un’illusione di sicurezza, io ho visto gente che la galera se l’è fatta tutta e poi è uscita così rabbiosa e sola, da costituire un pericolo doppio per la società. Poi ho visto gente che ha fatto un graduale percorso di reinserimento, cominciando dopo qualche anno a uscire in permesso, ritrovando i suoi cari, riallacciando, con la maturità prodotta dalla sofferenza, dei rapporti più decenti con il "resto del mondo". Naturalmente ho visto anche gente uscire in permesso e fare come i due detenuti di Civitas, tradire la fiducia, degli operatori, dei magistrati, di noi volontari, e tornare fuori dalla legalità. Il fatto è che non esiste, in un terreno così delicato come quello della devianza, una scelta da parte della società che sia del tutto esente da rischi: quella di rinchiudere di più e più a lungo in galera lo è solo apparentemente, quella di usare meno la galera e tentare di più la strada del reinserimento alla resa dei conti almeno dà delle speranze, e in molti casi dei risultati realmente positivi.

 

Il vero rischio: lasciar marcire quella gente in cella e poi restituire alla società dei rottami

 

Quando mi è capitato di attraversare un carcere e vedere gente in branda ad "ammazzare" il tempo ho pensato che quello è il vero rischio: lasciar marcire quella gente in cella e poi restituire alla società dei rottami. Noi quella gente invece la portiamo "fuori" quando è nei termini per i permessi, sapendo che non tutto e non sempre andrà bene.

La nostra forse è semplicemente una scelta di "riduzione del danno": facciamoci meno male, come società, tentando di dare delle alternative a queste persone e sapendo che comunque alcune le ritroveremo davvero diverse, altre torneremo a perderle, ma sempre in modo meno bestiale che se fossero restate fino alla fine in branda. Perché aver respirato un po’ di vita libera lascia comunque un segno positivo, anche in chi non ce la fa a reggere il peso della libertà.

Ma cosa ci va a fare uno in Afghanistan e cosa ci va a fare in carcere?

 

Un incontro in redazione con Edoardo Albinati, scrittore, insegnante a Rebibbia, volontario in Afghanistan

 

Edoardo Albinati ha trascorso quattro mesi in Afghanistan come volontario dell’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. Le sue "credenziali", quando è stato scelto per partecipare a questa missione, sono state gli anni di lavoro in carcere come insegnante, forse perché, in qualche modo, sempre di situazioni "estreme" si tratta. Ma Albinati è anche uno scrittore: di "Maggio selvaggio", il suo diario dal carcere, avevamo già parlato in un precedente incontro in redazione, questa volta, partendo da "Il ritorno", il suo diario afghano, pubblicato da Mondadori, abbiamo discusso di carcere e Afghanistan, di luoghi della violenza.

 

Francesco Morelli (Redazione di Ristretti): La prima cosa che ci viene in mente è: cosa ci va a fare uno in Afghanistan?

Albinati: Fra le risposte contraddittorie che ho dato, via via, a chi mi poneva questa domanda, ho capito che una ragione unica non c’è, perché secondo me è un po’ falsificante l’idea di andare a "fare del bene". Senz’altro c’è questa spinta, però io l’ho definito in maniera un po’ più ampia, al limite contraddittoria, un desiderio confuso ma forte di combinare qualcosa, non per me stesso, ma per aiutare qualcuno che è nei guai.

Poi c’è la stanchezza o il disinteresse per le vicende europee, che da un certo momento in poi mi sono apparse un "tiepido lusso". Di fatto io sento che nella nostra parte del mondo accadono cose, che sono effettivamente meno interessanti o meno drammatiche o meno importanti di tante altre cose che succedono altrove.

Naturalmente io considero il carcere come uno dei punti nei quali continuano a succedere cose importanti o gravi o difficili; non è quindi che si debba per forza andar fuori dall’Italia per trovare qualcosa da fare, anzi! Però diciamo che la nostra società si è assestata su un benessere relativamente diffuso: ieri sera per esempio passeggiavo per il centro di Padova e mi guardavo intorno, e a un certo punto mi sono chiesto: "Ma la gente qui che problemi ha, in fondo?", includendomi anch’io come italiano, benestante, in questa domanda. Un’altra motivazione importante è la tensione verso la praticità, la semplicità, l’azione fisica. Personalmente trovo che lavorare nel carcere, per esempio, è una posizione frontale rispetto alle cose, tu hai dei guai e devi cercare di fare il possibile per venirne a capo, hai un rapporto diretto con le persone, con i detenuti, con gli studenti, nel mio caso come insegnante, e devi cercare di fare delle cose, perché hai poco tempo a disposizione, pochi mezzi e quindi li devi utilizzare tutti, alla massima intensità.

Un altro fattore importante, che si realizza anche in carcere, è il bisogno di stare insieme a persone il più possibile diverse da me, e al tempo stesso di mettermi alla prova, chi sono quanto valgo fin dove ce la faccio. Altra cosa ancora, e qui il carcere è di nuovo incluso, è l’attrazione verso i luoghi della violenza. Il carcere è il luogo dove stanno persone che hanno avuto a che fare con la violenza. Lì in Afghanistan invece tu vai direttamente sul campo, dove la violenza si è esplicata o ancora si esplica. Questa serie di cose messe assieme può spiegare perché uno decida: faccio questo lavoro.

 

Nicola Sansonna: Ho visto che dedichi molta attenzione ai bambini, che dai loro uno spazio enorme nel tuo libro.

Albinati: Sì, ma non era una cosa voluta, poi però me lo hanno fatto notare in tanti che questo è un libro sui bambini, che i veri protagonisti sono i bambini afghani, io non me ne ero accorto! Ma questo è tipico dei paesi del terzo mondo, dove vedi tantissimi bambini che ti girano attorno, cosa che in Europa non vedi più. I protagonisti della vita della città o del villaggio sono i bambini, mentre da noi, in particolar modo nelle città, puoi percorrere diversi isolati senza incontrarne uno. Le bambine afghane invece, sai che ad un certo momento scompariranno, diventando donne, ed è struggente vedere queste bambine e sapere che ancora hanno, sì e no, un paio d’anni di "semilibertà" e poi dopo finiranno nella segregazione.

I bambini sono senz’altro i protagonisti della vita afghana, nel libro racconto anche del lavoro minorile, da noi si parla facilmente di "cancellare" tale lavoro, invece bisogna andarci piano, in quei luoghi oggi se levi quello la gente muore di fame. Ecco un buon banco di prova del fatto che certi principi astratti, illuministici, giusti, poi nel momento di applicarli possono diventare perniciosi. Se tu oggi proibisci il lavoro minorile, ci saranno un sacco di bambini che moriranno di fame.

La stessa definizione di minore non è scontata: dal punto di vista della legislazione internazionale, chiunque abbia meno di 18 anni va considerato un minore, ma di fatto in Afghanistan si inizia a lavorare attorno ai 12/13 anni, e considerare minore un ragazzo di 14, 15 o 16 anni è un controsenso. Lo è di diritto ma non di fatto.

 

Parlando di Afghanistan, ma anche di quando l’Italia era un paese molto tradizionalista e un po’ "talebano"

 

Francesco Morelli: In carcere ci sono diversi compagni mussulmani e quando ci capita di parlare della Sharia abbastanza naturalmente difendono le loro tradizioni. A me allora è venuto un dubbio: che il contesto politico-sociale di quei paesi renda anche accettabile quel tipo di legge. Tu hai fatto questa esperienza diretta: hai visto e percepito quegli elementi che noi riteniamo di crudeltà, di ingiustizia nella legge islamica o pensi che in quel contesto sia tutto sommato accettabile?

Albinati: Io personalmente sono nemico di ogni genere di stato etico. Parlo cioè di quegli stati dove all’individuo bisogna dirgli anche, oltre a che cosa è il bene o il male, cosa deve fare dalla mattina alla sera, se deve andare in chiesa e quante volte deve andarci eccetera: ebbene, questo modello politico di controllo delle coscienze non mi piace affatto, in generale. Quindi chiaramente uno stato islamico è la cosa più lontana che può esserci dal mio modello ideale. Certo poi i Talebani applicavano, secondo me, dei principi che non erano appartenenti alla religione islamica, erano delle esasperazioni dovute alle letture iperintegraliste e iperfondamentaliste di alcuni punti del Corano, quindi in realtà i Talebani stessi si erano posti al di là di qualsiasi sensata applicazione della Sharia, perché per esempio la proibizione alle donne di lavorare non sta né in cielo né in terra. La loro era un’interpretazione fanatica, però chiaramente la legge islamica, come ogni altra legge religiosa applicata capillarmente alla società, comporta un controllo sulla vita delle persone che è molto elevato, al tempo stesso questo genere di controllo, e qui vengo un po’ a rispondere alla domanda, può funzionare bene, addirittura meglio di quanto funzionerebbe una gestione individualista della comunità, in situazioni d’emergenza, o in comunità di tipo arcaico.

Il sistema di solidarietà reciproca, di aiuto tra le famiglie, l’elemosina come principio obbligatorio, cioè i pilastri dell’Islam, hanno una loro ragione sociale e una loro straordinaria funzionalità; senza di essi un bel po’ di Afghani in più sarebbe sotto terra.

Per altro devo anche dire che questo controllo sulla vita, sulle coscienze, sui pensieri, questa obbligatorietà di molti atti, la segregazione delle donne, sono cose che personalmente rifiuto, e le avrei rifiutate anche nel mondo cristiano, come poteva essere l’Italia bacchettona del passato. In realtà io credo che gli italiani di una certa età possano ricordarsi un’Italia tradizionalista e "talebana", sì, non è male questa definizione.

 

Francesco Morelli: Ma la gente, in particolare chi ha modo di accedere ai mezzi d’informazione, che non credo siano tantissimi purtroppo, ha coscienza che esiste un modello di vita diverso dal punto di vista politico, culturale, sociale?

Albinati: Il fatto è che, secondo me, la "democrazia", che oggi si dice dovrebbe essere importata con la forza ovunque, viene percepita soprattutto come la possibilità di acquistare dei beni, viene vista nel suo lato più spettacolare e consumistico.

Per gli Afghani poi il modello occidentale viene vissuto come una specie di mondo dei sogni, e al tempo stesso crea anche molta apprensione, e quindi una demonizzazione, da parte delle autorità religiose, di tutto quel mondo, e non solo degli aspetti di degenerazione che vi sono inclusi, come la libertà dei costumi sessuali portata all’estremo, la perdita di tutte quelle cose che poi costituiscono, di fatto, il cemento della società attuale in Afghanistan. Ecco perché si teme che nel momento in cui il loro mondo venisse modernizzato, crollerebbe per intero.

A parte l’Islam, in generale, si parla molto del rispetto delle culture ed è giusto, ma personalmente se mi trovassi di fronte ad una cultura che a sua volta non rispetta alcuni valori fondamentali, io questa cultura non la rispetto. Noi dobbiamo riconoscere e accettare le convinzioni di chiunque, finché queste convinzioni non producono atti contro l’umanità: è in quel punto che si gioca la partita.

Per esempio il fatto che in una società come quella afghana, non certo perché islamica ma semplicemente perché tradizionalista, ai bambini, alle donne non viene riconosciuta un’individualità giuridica, e dunque li si considera in qualche modo proprietà dei capi famiglia, non è facile da accettare, ma per altri versi minare l’idea che la famiglia sia guidata dal suo capo è pericoloso. Se da un giorno all’altro si proclamasse che i capi famiglia e tutto ciò che fanno va sottoposto ad una verifica, o da parte dei membri della famiglia o da parte dello stato, quella realtà lì si sfarinerebbe immediatamente. Allora capisco le resistenze alla modernizzazione esattamente come capisco chi invece, illuministicamente, si batte per una questione di principio, e rischia un po’ di fare la figura dell’illuso o di una persona che non vuole capire come sta in realtà questa gente. È come in carcere: uno vede che un diritto viene calpestato e pensa che bisognerebbe intervenire subito per difendere quel diritto, sappiamo però che poi in pratica bisogna sempre valutare con cautela se il nostro intervento rischia magari di comportare il peggioramento reale delle condizioni…

Allo stato attuale, in un paese che da poco ha acquisito un po’ più di libertà, cominciare subito a dire che adesso tutto deve diventare come dalle nostre parti, i diritti devono essere uguali, importare un modello occidentale sarebbe non soltanto impossibile, ma, secondo me, rafforzerebbe in maniera drammatica la resistenza a qualunque cambiamento.

 

La "banalità del male" è qualcosa che in carcere capiscono meglio

 

Ornella Favero (Redazione): Che cosa intendi invece quando scrivi nel tuo libro che i carcerati sono meno corrotti delle persone oneste e sono quindi più capaci di capire la realtà com’è?

Albinati: Io ho notato che insegnando ai detenuti, loro spesso capiscono meglio le cose perché hanno vissuto dell’esistenza gli aspetti anche più duri, più difficili, per cui per esempio, nel discutere della violenza, mi sembrano più onesti nel riconoscere la violenza effettiva della società, di quanto lo siano le persone per bene, le quali hanno una visione preventiva un po’ asettica, un po’ moralistica.

Con i detenuti ho visto che c’è una concretezza maggiore, talvolta almeno, anche se non sempre, perché per esempio sui valori spesso i detenuti hanno una visione ancora più illusoria di quanto la abbiano le persone "per bene".

L’altro giorno in una classe in carcere abbiamo letto la famosa novella del Verga "Libertà", dove si narra che, dopo che i garibaldini hanno cacciato i Borboni, i poveri si ribellano pensando che sia arrivato il momento della liberazione dai ricchi. Questi rivoltosi finiscono per compiere un massacro, alla maniera di quelle rivolte contadine medioevali, le cosiddette "jacqueries", violentissime ma prive di un progetto politico, per cui il giorno dopo queste stesse persone si ritrovano senza sapere cosa fare e hanno bisogno dei padroni, che loro stessi hanno ammazzato, per prendere ordini e andare a lavorare nei campi. Poi arriva Nino Bixio e ne fucila subito 4 o 5 e gli altri li porta a Catania per il processo, dove alcuni verranno impiccati. La novella si chiama ironicamente "Libertà". Secondo me quella novella lì, l’ho visto anche nelle reazioni, i miei alunni della scuola in carcere la capiscono meglio di come la capirebbe un’altra persona e hanno l’onestà, in questo senso, di vedere la realtà com’è, non di vederla in modo scandalizzato, perché il problema è che la persona semplicemente indignata poi finisce per non vedere più la realtà.

Succede infatti che in Italia e in Europa in generale le persone siano molto ignoranti delle condizioni durissime in cui il resto del mondo vive e quindi tendano a giudicare per categorie a priori, che sono poi rispettabili, se non che non hanno niente a che vedere con la reale vita degli uomini.

Nel mio libro dico che questi signori della guerra afghani somigliano poi agli eroi della letteratura antica, arcaica. E portavo a esempio Ulisse alla fine dell’Odissea, un fatto che normalmente nelle letture scolastiche viene rimosso, cioè che lui ammazza tutti i Proci (disarmati!!) e poi fa impiccare tutte le ancelle infedeli, quindi la sua è una vendetta cruentissima e spaventosa, è una vera tragedia greca!. Ecco, questa necessità arcaica di vendetta è una cosa che i detenuti capiscono, mentre se io lo dico a mia mamma, ne è soltanto disgustata, prova solo ribrezzo, e anche giustamente, per altro.

Io non sto dicendo che è giusto, io parlo solo di semplice capacità di comprensione, la comprensione vuol dire quando dentro di noi risuonano delle cose che noi sentiamo che non ci sono del tutto aliene, che non sono impossibili.

La cosa tremenda che ho realizzato, a partire dalla guerra in Bosnia, è che il resto dell’Europa non riusciva a capire perché questi si scannavano. Hai voglia a dire che i Balcani sono violenti, non è vero! Nel senso che non lo sono più di altre parti dell’Europa, sono europei quei popoli quanto gli altri. Tutto questo scalpore sarebbe stato minore se la gente avesse maggiore coscienza che in situazioni particolari poi quelle cose succedono, sono successe e risuccederanno. Il fatto che uno vada e ammazzi il vicino di casa, è quello che avviene ogni volta che cade un regime, allora penso che dovremmo essere preparati all’idea di poter diventare noi per primi i massacratori.

Voglio ricordare un romanzo, "L’educazione sentimentale" di Flaubert. Dopo gli scontri del 1948 a Parigi, vengono catturati alcuni insorti. Un uomo qualsiasi, un padre di famiglia si trova a custodire questi prigionieri, che non mangiano e non bevono da giorni e urlano dietro le sbarre, e c’è questo qui con il fucile che alla fine piglia e spara in bocca ad un prigioniero e lo ammazza. Poi torna a casa, si mette a letto perché è scosso da quello che ha fatto, e chiama la figlia e le dice di preparargli un brodino, perché si sente poco bene. Rientra cioè all’improvviso dentro la quotidianità nella quale è sempre vissuto. Aggiungo che fino a pochi anni fa veniva tenuto nascosto il fatto che le prime grandi stragi di Ebrei, prima ancora che nei lager, non sono state compiute da giovani SS fanatiche, ma da soldati comuni, riservisti, padri di famiglia che entravano nei villaggi polacchi appena conquistati, prendevano cento duecento persone e gli sparavano in testa.

La banalità del male è qualcosa che dovremmo capire meglio, e ho visto che in genere, in prigione, siccome gli uomini hanno visto il mondo di cosa è fatto, sanno quali sono i rapporti con il denaro, la forza, il sesso, la fuga, l’esilio, la caccia, tutte quelle cose là non sono romanzi, ma sono cose che uno più o meno ha vissuto, e allora dicono: certo che è così! Lo capiscono, quello di cui si parla non provoca solo sbalordimento, come normalmente nella persona diciamo innocente o per bene o comunque che non sa le cose. Faccio l’esempio di mia madre perché lei è una persona deliziosa, ma è una a cui dobbiamo sempre dire: "Mamma, ma non hai mai letto un romanzo, non sai come va il mondo? Non sai che ci può essere una persona malvagia che ti frega, e che così è la vita?".

 

Francesco Morelli: Tu che hai scritto sia di carcere che adesso della situazione in Afghanistan, pensi che sia più facile parlare alla società dell’una o dell’altra cosa?

Albinati: In realtà ho la sensazione che non interessi nulla a nessuno di entrambe le cose, ma sicuramente credo che sia più difficile parlare del carcere. Negli ultimi due o tre anni il tema del carcere non si può dire che non sia stato discusso, anche a livello legislativo, e questo ha creato prima speranza, dopo di che la sensazione amara rimasta è che tanto le cose fondamentalmente non cambiano. Quest’anno poi per me il carcere è stato un vero disastro perché ho visto uno sfibramento delle forze progettuali, dopo anni d’attesa, per cui gli stessi detenuti hanno detto alla fine: lasciamo perdere, di fatto in questa roccia non si riesce a scavare.

C’è poi un lato, diciamo così, tecnico, e cioè che la realtà afghana ha degli aspetti spettacolari, che comunque è bello descrivere, per esempio le duecento donne ammassate che aspettano la razione visivamente offrono un fortissimo impatto, una sensazione di grande bellezza, che è presente anche nelle situazioni più degradanti. Questa cosa il carcere comunque non la offre. Io continuamente ricevo delle proposte per realizzare dei filmati all’interno del carcere e tutto le volte mi chiedo: cosa c’è da filmare lì dentro?! Le stesse difficoltà le ho affrontate anche nel mio libro "Maggio Selvaggio", e infatti ho privilegiato dei dettagli apparentemente secondari, come gli odori, le sensazioni fisiche, resta il fatto che dal punto di vista visivo, ottico, questa realtà è difficilmente traducibile in immagini ed è molto difficile trasmetterla agli altri.

 

Ornella Favero: Il fatto è che, quando tu parli del carcere a chi è fuori, non riesci a far capire che è l’assenza della libertà la più grande sofferenza, quindi qualsiasi cosa tu gli faccia vedere, gli sembrerà sempre normale, accettabile, non peggiore di altre situazioni.

Albinati: Beh, potresti anche far vedere la cella più sovraffollata, ma l’impressione che potrebbe dare questa visione è infinitamente meno forte di quanto sarebbe far vedere come vivono molti immigrati liberi in città, quello sì che è veramente terrificante! Comparando le emergenze, quella del carcere è meno eloquente di quanto lo siano le immagini di povertà, di degrado urbano, di sporcizia e devastazione che ci sono pure nella società italiana. Anche se le condizioni sono indecenti, la peculiarità della vita carceraria non è esprimibile attraverso il letto a castello, perché letti di quel tipo anche nelle caserme ci sono!

Mi viene in mente un modo "obliquo" per rappresentare il carcere, perché sempre devi inventarti una forma diversa, un oggetto, una sensazione che lo rappresenta. Sto scrivendo un libro sulla perdita dei sensi, e da un mio amico torinese che è un ex tossicodipendente mi sono fatto raccontare il collasso da eroina e da cocaina. Poi mi sono limitato a trascrivere le sue esperienze.

L’altro giorno in carcere stavamo parlando della scrittura autobiografica, io volevo invogliare i miei studenti-detenuti a scrivere qualcosa della loro vita, scrivete quello che vi pare, gli ho detto, imparate però a sfogare, a scaricare il peso delle esperienze. Ecco, ho aggiunto, per farvi un esempio se volete vi leggo questa intervista che ho fatto ad un mio amico. Tra l’altro sono in una classe formata in gran parte da ex tossicodipendenti, e la lettura ha avuto un effetto strepitoso, un detenuto alla fine mi ha detto: questa è esattamente la sensazione che si prova! Perché lì si parlava di un tema specifico, di un momento particolare, il collasso da overdose. Se io avessi chiesto invece al mio amico di parlarmi della sua esperienza sulla droga in generale, o sulla tossicodipendenza, da dove poteva cominciare? Invece lui ha parlato soltanto di una cosa molto precisa, e cioè dell’istante in cui vai in overdose.

Ricordo un bel testo, scritto da un detenuto che si chiama Giovanni Tamponi, che poi è stata pubblicata sulla rivista "Lo straniero", un testo dedicato agli odori che hanno le diverse celle, dove a seconda degli odori che sentiva, lui ricostruiva la personalità, l’appartenenza etnica di chi ci stava dentro. Aveva fatto un lavoro, secondo me, molto convincente, e questo solo perché aveva scelto non di parlare del carcere, ma di quella cosa lì, attraverso singoli dettagli.

Il modo migliore, anche nel libro sull’Afghanistan che ho scritto, e nel libro sul carcere in particolare, per rendere significative le cose è creare un contrasto visivo d’immagini, per esempio per descrivere il carcere è necessario descrivere la vita libera, infatti il contrasto è molto eloquente, e secondo me chi fa dentro e fuori come il volontario o l’insegnante deve farlo sentire il più possibile.

Avere davanti entrambi i mondi, libero e recluso, per poter capire il mondo recluso. In "Maggio Selvaggio" mi torna in mente un’immagine molto forte, che poteva sembrare anche crudele, quando il giorno di festa del 25 Aprile io vado al mare e mi mangio un piatto di spaghetti alle vongole sulla spiaggia, pensando che due giorni dopo tornerò in carcere e racconterò questa cosa, e la forza, il godimento di compiere un gesto, per altro abbastanza normale, come andare un giorno al mare, esplode a contrasto con la vita reclusa.

Una cosa che ho fatto fare una volta ai miei studenti è stata di raccontare il giorno della cattura, l’ultimo istante in cui sono stati liberi, e sono uscite fuori delle cose notevoli. Allora secondo me sarebbe meglio scegliere sempre dei punti topici della vita carceraria, o della vita criminale, dei frammenti però decisivi, approfondendo quelli. Trovo che lo strumento, se ben usato, dell’intervista e del puro racconto sia la cosa migliore.

 

Ornella Favero: Qui dentro, infatti, è stata una delle battaglie più importanti quella perché le persone imparassero a raccontare e a raccontarsi. L’imperativo era: Raccontatevi, perché altrimenti alla gente non gliene frega niente di leggere cose generiche sul carcere… se tu non racconti come ci vivi dentro, i discorsi di denuncia sui mali della galera non arrivano da nessuna parte.

Albinati: Mi viene in mente una cosa, la dico e accettate la mia franchezza nel dirla, come io accetto la vostra eventuale evasività. C’è una cosa che non viene mai detta, che non ho mai visto scritta da un detenuto, ed è la questione del sesso. Ecco, che cosa vuol dire per una persona quando la sua vita sessuale viene interrotta dal carcere?!

Io temo che questo non verrà mai scritto e forse è anche giusto così. Però questo argomento, per me che lavoro in carcere da nove anni, e che ho ricevuto confidenze anche molto intime, quella cosa lì rimane intoccata e secondo me sarebbe la cosa più terribilmente eloquente. Quando si parla con la gente di come funziona il carcere, poi alla fine viene fuori: ma come fanno quelli lì, cosa gli succede realmente? Una delle domande che viene sempre posta dalle persone che si interessano del carcere è quella dell’omosessualità, perché sul tema dell’omosessualità nel carcere ci sono tante leggende. Ma chi avrebbe il coraggio di parlare liberamente di un tema cosi intimo e personale?! Questo è uno dei casi più clamorosi di una cosa che non viene detta, ma se venisse detta sarebbe esplosiva. Aggiungo però che è meglio, volendo veramente raccontare le cose come sono, non parlare della "sessualità" in astratto, altrimenti siamo di nuovo ai problemi generali, l’affettività, gli standard, le percentuali, il 50 %, il 15 %, questo va bene per un sessuologo che fa un’indagine sul carcere, ma dal punto di vista di chi in carcere ci sta l’unica modalità possibile è raccontare l’esperienza soggettiva o raccogliere l’esperienza soggettiva di un altro.

 

 

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