Sani - dentro

 

Una sanità abbastanza malata

 

Ma che ne è stato del passaggio della medicina penitenziaria al Sistema Sanitario Nazionale?

 

Sandro Libianchi, responsabile medico del Servizio Tossicodipendenze di Rebibbia, ha fatto parte del "Comitato per la Valutazione ed il Monitoraggio della Fase sperimentale del Trasferimento delle Funzioni sanitarie dal Ministero della Giustizia al Sistema Sanitario Nazionale". Gli abbiamo chiesto qual è lo "stato di salute" della sanità in carcere.

 

Sono trascorsi due anni da quando il decreto legislativo 230/99 ha stabilito che la medicina penitenziaria doveva passare al Servizio Sanitario Nazionale, ma finora questo passaggio non è avvenuto. Perché ci sono tante difficoltà nel realizzare questa riforma? Lei crede sia una riforma necessaria? Che tipo di resistenze ha incontrato?

Innanzitutto sarà necessario fare una breve premessa sul perché e come si è arrivati a pensare e proporre una legge delega che riordinasse l’intero settore della "medicina penitenziaria" e si deve tornare addirittura al 1970, quando la legge 740 stabiliva per la prima volta e con chiarezza che il cittadino detenuto aveva il diritto di ricevere cure mediche (ma non ancora anche quelle psicologiche) all’interno del carcere, se ne avesse avuto bisogno. Fino ad allora l’assistenza medica era assolutamente casuale e legata soltanto alla sensibilità del direttore e del comandante, oltre che del medico (generalmente il mutualista più vicino al carcere), i quali di volta in volta valutavano il da farsi. È importante rilevare come in quegli anni nelle carceri il fenomeno della tubercolosi era un grosso problema: l’insalubrità degli ambienti, la totale assenza del concetto stesso di prevenzione ed igiene, la scarsissima vaccinazione dei detenuti, faceva il resto.

Successivamente, la Legge 354 del 1975 integrava quanto previsto dalla 740 e veniva affermato che le prestazioni sanitarie dovevano essere erogate da "medici incaricati" per l’assistenza di base, da medici specialisti, da infermieri e da esperti qualificati (art. 80) che contribuivano anche alla ‘‘osservazione scientifica della personalità’’(!) del detenuto. Venivano sanciti gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Soltanto tre anni dopo venne approvata la Riforma Sanitaria con l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (L. 833/78), che ignorò totalmente il problema, iniziando a creare la prima vera distinzione del diritto alla tutela della salute del cittadino detenuto, rimarcando che questi era "un’altra questione" e ponendo le basi per l’allontanamento della sanità in carcere dal resto del paese, dal quale non prendeva alcuna innovazione soprattutto metodologica ed organizzativa.

Si rimase così in una sorta di limbo che alla lunga determinò il vero e proprio isolamento dell’esercizio della Sanità (che è ben altra cosa dalla sola medicina: basta vedere la definizione di "salute" da parte dell’OMS) e la creazione di una lobby di potere che cercò sempre di più di mantenersi fuori dalle regole del paese e soprattutto dal controllo di entità esterne (Regione, ASL). A questo proposito basterà pensare che a tutt’oggi gli istituti penitenziari si scambiano tra loro i farmaci in scadenza, spedendoseli per via postale (!!) e questo è considerato normale. Ad onor del vero, c’è anche da dire che in passato sia il Ministero della Sanità, che le Regioni, che le ASL, non hanno fatto moltissimo per esercitare le sia pur poche funzioni che venivano loro attribuite (prevenzione, formazione).

Con questa premessa mi pare chiaro quale sforzo, e perché era importante farlo, sia stato messo in campo da parte dei governi che hanno proposto un semplice "riordino" della sola medicina penitenziaria che in questa fase (scadenza 31 luglio 2002) doveva "soltanto" prevedere la sperimentazione di modelli organizzativi da parte delle regioni e delle ASL, per prepararsi alla decretazione finale di trasferimento del personale, delle strutture, degli arredi e delle risorse economiche. È pur vero che questa sperimentazione è stata condotta soltanto su tre regioni, alle quali dopo parecchio tempo se ne sono aggiunte altre tre, per cui la valutazione del percorso fatto non è stata agevole, in considerazione di queste diversità che comunque sono ben piccola cosa di fronte alle normali diversità di gestione ed organizzazione regionale in materia di sanità.

Per quanto riguarda le difficoltà incontrate sul cammino del riordino, esse sono state tutte ben prevedibili e note sin dal tempo del Machiavelli, il quale nelle sue "Riforme" osservava come in occasione di cambiamenti, di modifiche di assetti precostituiti, ma anche di semplici proposte, le persone coinvolte saranno al massimo dei tiepidi fautori accanto ad altri che, per motivi vari, invece faranno di tutto per impedirle. Le ragioni della resistenza al cambiamento sono innumerevoli, ma tutte riconducibili ad una: la paura della perdita di un potere.

 

In alcune regioni è già avviata, in via sperimentale, la gestione diretta della medicina penitenziaria da parte delle ASL. Ma i risultati finora ottenuti non sono stati divulgati. Può darci delle informazioni al riguardo? È stato fatto un monitoraggio e, se è stato fatto, chi lo ha svolto? E quali sono le conclusioni alle quali è arrivato il Comitato di cui lei ha fatto parte?

Lo scorso anno, con decreto del Ministro della Salute, è stato istituito il "Comitato per la Valutazione ed il Monitoraggio della Fase sperimentale del Trasferimento delle Funzioni sanitarie dal Ministero della Giustizia al Sistema Sanitario Nazionale". Di questo comitato fanno parte diverse professionalità tra cui medici, psicologi, magistrati, amministrativi, ecc. che lavorando intensamente, anche attraverso visite nelle regioni che stavano sperimentando il totale trasferimento delle funzioni, hanno consegnato il giorno 16 giugno le conclusioni del loro lavoro nelle mani dei due sottosegretari con delega specifica (On. A. Guidi e On. A. Valentino). Come previsto dalle norme precedenti, il Governo a questo punto valuterà le conclusioni a cui è giunto il Comitato e predisporrà i conseguenti ultimi decreti attuativi del riordino, tenendo in debita considerazione tutte le osservazioni emerse dallo studio degli atti prodotti dalle regioni e dalla loro applicazione, dalle criticità emerse e da quanto riportato dagli operatori del settore. È possibile anticipare che i membri del Comitato afferenti alle Regioni ed al Ministero della Salute hanno espresso un parere lusinghiero sui risultati raggiunti, soprattutto in considerazione delle difficoltà aggiuntive che sono sorte in questi ultimi due-tre anni (tre differenti Governi, mancato trasferimento delle risorse, mancato trasferimento del personale, delle attrezzature, ecc.) auspicando l’immediata attuazione di quanto previsto dalla attuale normativa. Il giudizio dei rappresentanti del Ministero della Giustizia non è stato di pari livello, ma questo appare più che comprensibile in quanto perdere soldi, personale, attrezzature e… potere in un sol colpo non deve essere facile a digerirsi.

 

L’assistenza ai tossicodipendenti detenuti, invece, è di competenza diretta dei Ser.T. fin dall’emanazione del decreto legislativo 230/99. Anche in questo caso non abbiamo dati nazionali che ci aiutino a capire se qualcosa è cambiato, dal punto di vista dell’utente, e se si tratti di un cambiamento in positivo o in negativo. Lo scorso autunno, a Padova, abbiamo fatto una ricerca statistica che ha coinvolto gran parte dei tossicodipendenti detenuti nella Casa di Reclusione e la maggior parte di loro ha denunciato un peggioramento della qualità del servizio. Per quella che è la sua esperienza nel carcere di Rebibbia, lei ha visto dei miglioramenti o dei peggioramenti?

Anche se sono in corso diverse ricerche a questo proposito, diciamo subito che dati affidabili ancora non ce ne sono ed i primi saranno disponibili dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto di trasferimento delle risorse in tema di tossicodipendenze, che fino ad ora sono ancora nella piena disponibilità del Ministero della Giustizia. Questo, invece di trasferire od incrementare le risorse, le ha progressivamente ridotte nel corso di questi due ultimi anni, tanto che per il 2001 le risorse economiche per la sanità penitenziaria sono le stesse (circa 180 miliardi) di dieci anni fa con un numero di detenuti che oggi è quasi raddoppiato. Da qui ad avere un servizio che peggiora, il passo è breve, ad esclusione di quelle ASL che in assenza di una norma precisa e univoca hanno comunque voluto investire in questo settore tramite assunzioni, progetti e risorse varie.

 

Un altro problema di grande portata è quello dei detenuti malati di AIDS. La legge che stabilisce i criteri di incompatibilità tra la malattia e la detenzione risale al 1999, eppure nei Centri Clinici Penitenziari esistono ancora interi reparti destinati a questi malati, il che significa che non c’è affatto un automatismo di sospensione della pena. In particolare ci sembra sbagliata la procedura per la quale la decisione ultima, sulla compatibilità tra stato di salute e detenzione, spetta a un magistrato e non a un medico. Cosa ne pensa?

La modalità di uscita dal carcere per incompatibilità per motivi di salute di qualsiasi genere, viene attuata attraverso vari istituti: la sospensione dell’esecuzione della pena, il differimento della pena, gli arresti domiciliari concessi anche per un ricovero in ambienti ospedalieri per terapie non procrastinabili. Tutti questi sono atti di unica pertinenza giudiziaria e pertanto ritengo che il giudice sia l’unico esperto in grado di emettere tali ordinanze. Il medico dal canto suo ha già valutato questa situazione dal punto di vista clinico ed ha sottoposto le sue conclusioni al giudice, che le applica se le ritiene idonee, assumendosene la responsabilità, che è notevole. C’è quindi la necessità di integrare competenze diverse ed in fasi diverse. Personalmente sarei addirittura più favorevole all’istituzione di collegi medici di valutazione, in quanto è sempre molto difficile per un esperto da solo, valutare tutti i casi di incompatibilità (dall’AIDS, al malato psichiatrico, al malato neoplastico, ecc.)

 

Nelle carceri sono aumentati i suicidi, gli episodi di autolesionismo e, in generale, le varie forme di disagio psichico. Questo fenomeno si accentua in particolari periodi stagionali (come l’estate e le festività natalizie), ma è legato anche alle condizioni di vita negli istituti, ovviamente. La risposta che viene data è quasi sempre la somministrazione di psicofarmaci. Non è possibile pensare a qualcosa di diverso? Esistono dei progetti per un sostegno psicologico non occasionale all’interno delle carceri (es. gruppi di auto aiuto, etc.)?

Quello dell’auto/eterolesionismo in carcere è un problema enorme e va di pari passo con quello della "psichiatrizzazione" della detenzione per un uso incongruo di psicofarmaci, con quello dell’affettività negata in carcere, della sessualità repressa, della alimentazione inadeguata, per le difficoltà di esercizio del proprio culto religioso, ecc.

A questo proposito, del tutto recentemente abbiamo attivato presso il carcere di Rebibbia una "Unità di Crisi ‘‘ per le situazione di disagio improvviso.

Il lavoro interdisciplinare, e la comunicazione tra vari professionisti della salute nelle carceri, mostra la sua massima efficacia durante l’intervento nelle situazioni di crisi psicologica acuta tra i detenuti. Infatti, date le caratteristiche stressogene della reclusione e dei compiti degli agenti addetti alla custodia, non sempre i momenti di crisi del detenuto sono gestibili in maniera ottimale da parte degli agenti o del personale non sanitario. In questi frangenti, è assoluta la necessità di interventi coordinati e di una rapida diffusione di informazioni attraverso l’uso di un piano strategico comune in ciò che abbiamo denominato Unità di Crisi (UC) facente parte del progetto di ricerca CRISESJAIL®: questo permette la raccolta di informazioni per la prevenzione e lo screening del disagio psicosociale acuto e grave nelle carceri.

La strategia d’intervento principale di una UC è un intervento psicologico e/o medico e/o assistenziale, limitato nel tempo e nello spazio e, comunque, per il tempo strettamente necessario per il superamento dell’episodio di crisi. Utente della UC è un recluso che presenta una condizione di particolare stress emotivo e quindi una condizione psicologica tale da far temere per la sua e l’altrui incolumità o che, ad ogni modo, mostri un’intensità tale che il semplice colloquio psicologico si mostra insufficiente. Il team della UC è costituito da psicologi, medici di guardia medica, infermieri, operatori socioassistenziali, ed altro personale penitenziario. Fasi dell’intervento: ogni intervento è articolato e standard ed include segnalazione della persona in crisi da parte del personale penitenziario, colloquio di valutazione del caso da parte di uno psicologo del team, contenimento della crisi, dimissione, atti trattamentali conseguenti.

La Unità di Crisi oltre a rivolgersi al detenuto mostra: miglioramento del clima organizzativo; riduzione del malessere del personale; miglioramento della relazione tra agenti e detenuti. Per il suo funzionamento la UC necessita di un apparato articolato e sollecito per quanto riguarda la comunicazione tra vari professionisti di informazioni sulla diagnosi e sugli interventi al detenuto. Solo in tal modo si può permettere al recluso di uscire in modo rapido ed indolore da una condizione di stress nella quale è incapace di rispondere con le proprie forze. Infine, il perfezionamento della metodologia emersa dall’attività della UC potrà contribuire a creare una strategia informativa–didattica, proponibile anche in altri istituti di pena, che si confrontano quotidianamente con episodi di disagio psicosociale acuto.

 

La legge sulle detenute madri dovrebbe essere ormai "a regime". Però per alcune categorie di detenute la sua applicazione risulta più difficile (pensiamo alle donne straniere e alle nomadi). Cosa si sta facendo per evitare che le condizioni sociali di queste persone finiscano per diventare discriminanti sul piano della tutela della salute?

A questo proposito non conosco dati affidabili a livello nazionale, ma solo locali. A Rebibbia ad esempio, nel corso dell’anno si è raggiunto un massimo storico delle presenze di bambini in carcere e questo mi sembra molto grave.

 

 

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