Attenti al libro

 

Recensione di “Fine pena mai”, di Luigi Ferrarella

L’irragionevole durata della giustizia

Una giustizia che arriva al momento sbagliato, e non riesce mai a essere tempestiva

 

Recensione a cura di Vanni Lonardi

 

Che la giustizia non funzioni sembra essere opinione largamente diffusa. Ed è qui che tutti cadiamo nello stesso errore, che i mass media spesso contribuiscono in modo esasperante a diffondere nel pensiero comune: ci si scandalizza per la non-certezza della pena quando magari il presunto autore di reato è fuori, ma lo è in attesa del processo e non certo perché nessuno pensa di punirlo.

Il bisogno di giustizia troverebbe certamente più soddisfazione quanto più la pena fosse inflitta in tempi vicini al reato commesso, generando così nella collettività una percezione di tempestività ed efficacia, che ora non si avverte. Oggi la pena non sembra mai essere la conseguenza diretta del reato. Ma nelle trasmissioni televisive si continua invece a confondere le cose lasciando intendere che, per migliorare il sistema, serva solo la certezza della pena; in realtà questa esiste eccome, visto che una volta concluso il processo in carcere si entra e si rimane, ma a quel punto sono le televisioni e i giornali a non essere più interessati, le luci della ribalta sono oramai spente da un pezzo, ora sei solo un numero che dovrà sopravvivere all’interno di un mondo difficile e spesso, per l’appunto, dimenticato.

Il vero problema è che la giustizia è malata perché lenta e inefficace.

Luigi Ferrarella, giornalista del Corriere della Sera, nel suo libro “Fine pena mai”, analizza capillarmente le cause che affliggono il nostro contorto sistema della giustizia. Ci piace riprendere alcuni punti della sua precisa e documentata analisi, perché sono quelli su cui anche noi, da un “osservatorio” molto particolare, il carcere, insistiamo da tempo per informare in modo più onesto possibile sulle pene e sulla giustizia più in generale. Che funzionano male, ma non perché le pene sono troppo blande, quanto piuttosto perché sono lente, a tal punto che vantiamo il record europeo di condanne inflitte dalla Corte di Strasburgo per la violazione del principio della ragionevole durata dei processi. Processi penali che durano in media 5 anni, per non parlare di quelli civili che si dilungano in media fino agli 8 anni: significa che qualcuno si risolve anche a distanza di 12-15 anni dal fatto, sempre che nel frattempo non sia intervenuto il legislatore a cambiare la legge o non abbia per l’ennesima volta modificato i tempi di prescrizione. La prescrizione rimane indubbiamente uno strumento necessario, in quanto sarebbe impensabile tenere una persona in balia della giustizia tutta la vita: ma non dovrebbe diventare lo strumento di coloro che possono permettersi avvocati costosi e capaci di trovare ogni cavillo per allungare i tempi intenzionalmente.

Ciò pone le basi per ulteriori intasamenti nei Tribunali e allungamento dei tempi di decisione, in quanto l’imputato non ha più l’interesse a sfruttare i riti alternativi: subire una pena certa in tempi brevi non è invogliante rispetto alla prospettiva di “farla franca”. Si svolgono così processi “inutili” e enormemente costosi: i dati indicano che almeno 140.000 processi cadono in prescrizione ogni anno. Oltre a tutti i processi che giungono faticosamente fino al terzo grado di giudizio, dove “improvvisamente” l’avvocato difensore si ricorda di rilevare che la notifica dell’atto giudiziario, altro problema dolente, non è mai stata recapitata al suo cliente, che magari al processo era pure presente o adeguatamente assistito. Processo nullo per vizio di forma e tutto da rifare.

Ovviamente il rinnovo dei sistemi informatici richiede un consistente investimento finanziario, ma è qui che quei politici, che spesso criticano l’inefficienza della magistratura, si dimenticano che ogni anno vengono stanziati sempre meno fondi per il “normale” lavoro dell’apparato giudiziario: ad esempio, ha verificato Luigi Ferrarella nella sua inchiesta, al tribunale di Milano, la somma di 1.244.516 euro erogata nel 2002, già di per sé insufficiente, è stata ridotta fino ai 447.000 del 2006! Se può far sorridere il pensiero che in alcuni tribunali siano i magistrati a portarsi la carta igienica da casa, non è poi così divertente il fatto che a mancare sia perfino la semplice carta per la stampa degli atti, o che gli strumenti come fotocopiatrici, fax, stampanti, non siano sufficienti o siano fuori uso, tutte carenze che possono portare perfino al differimento della celebrazione di processi anche importanti.

Per non parlare del personale amministrativo: una cancelleria ben organizzata, con personale capace e motivato, ricopre un ruolo chiave per l’efficienza del Tribunale; al contrario, si assiste a riduzioni di orari, ritardi nella trafila delle notifiche, contingentamento delle udienze. La realtà offre una abnorme scopertura che, in alcune sezioni, arriva addirittura fino al 40 per cento del regime normale, creando falle nel sistema e determinando conseguentemente la non ragionevole durata dei processi, col rischio di scarcerazioni continue per decorrenza dei termini.

 

Anche la giustizia civile non sta poi troppo bene

 

Ferrarella analizza anche la situazione nel campo civile, dove l’apparato è schiacciato da milioni di cause, molte per cose di pochissimo conto, senza che una sorta di organo di filtro ne possa dichiarare l’ammissibilità. Del resto siamo il Paese in assoluto più litigioso, anche perché a volte non c’è nemmeno l’interesse a risolvere diversamente tali situazioni: non per niente il numero dei nostri avvocati raggiunge quello di diversi Paesi europei messi insieme.

Sembra infatti che alcuni avvocati, che faticano a stare sul mercato, nel campo penale abbiano trovato un buon ammortizzatore costituito dal patrocinio gratuito. Strumento che va mantenuto per l’assistenza ai meno abbienti, ma che andrebbe perlomeno rivisto. Tralasciando pure alcune parcelle decisamente esagerate, risultano emblematici quei processi dove gli imputati, soprattutto stranieri, sono irreperibili: processi di fantasmi scomparsi nel nulla, che non si troveranno mai, forse perché nemmeno esistevano con quei nomi. Ma ciò garantisce ad alcuni avvocati di celebrare tutte e tre le fasi del giudizio, cumulando così oneri su oneri per iniziative processuali inutili e spesso stravaganti.

Ad intasare la giustizia ci si mette poi il legislatore che, sulla spinta di una continua emergenza basata sulla risonanza mediatica dei soli delitti più eclatanti, si propone con leggi che intasano ulteriormente il sistema. E così ogni giorno un fiume di clandestini impegnano e impegneranno sempre di più le forze di polizia che sono obbligate ad arrestarle, con successiva convalida del giudice, giudizi per direttissima e ingresso in carcere, carcere dove la maggior parte di questo flusso rimane per pochi giorni, quindi è rilasciato con, si badi, l’“invito” a lasciare il Paese. E questo immenso flusso di immigrati, integrato da tutta una fetta di persone fermate per i cosiddetti reati minori (c’è da chiedersi se veramente per clandestini, clochard, graffitari, e pure chi deposita rifiuti ingombranti… non andrebbero pensate misure diverse dal carcere) comporta appunto un passaggio dalla galera che può durare qualche ora, pochi giorni o pochi mesi; fatto sta che ogni anno 90.000 persone entrano e 88.000 escono. Un impressionante ingranaggio di uomini, mezzi, procedure che incidono enormemente sui già fiacchi bilanci della giustizia e senza aver risolto alcunché.

E veniamo all’indulto: dapprima voluto dall’80 per cento delle forze politiche e poi censurato da tutte le parti, fino addirittura ad essere rinnegato da qualcuno. La cosa buffa, che tutti si ostinano a non vedere, è che i dati dimostrano invece la bontà di tale provvedimento: in carcere, sottoliea Ferrarella, è tornato 1 ex detenuto su 4, ovvero il 25 per cento, ma fra i liberati che per la prima volta erano in carcere, la percentuale dei recidivi scende vertiginosamente al 5 per cento, ovvero 330 su un totale di 6600 rientrati. Contro il 68 per cento di quegli ex detenuti che tornano a delinquere dopo aver espiato fino all’ultimo giorno la loro pena in carcere. Ricordo che se l’indulto ha liberato dalle carceri almeno 26.850 detenuti, con una pena residua sotto i 3 anni, dove sta questo automatismo tanto decantato della concessione delle misure alternative sul quale tutti fanno calcolo?

Se queste persone fossero state effettivamente in misura alternativa, dell’indulto non ci sarebbe nemmeno stata la necessità. Tali misure allora forse non siamo solo noi detenuti a pensare che andrebbero rivitalizzate e coordinate con investimenti, non solo per i Tribunali di sorveglianza, ma soprattutto per i servizi sociali chiamati per primi a sostenere, controllare e creare i progetti di reinserimento dei detenuti. Soluzione alquanto efficace per la rieducazione graduale, dimostrata da percentuali che dovrebbero far riflettere la società sull’utilità delle misure alternative: chi viene accompagnato con questo percorso recidiva “soltanto” al 19 per cento, e il pericolo di reati commessi nel periodo di misura alternativa (che sempre di pena si tratta) non tocca nemmeno l’1 per cento.

Credo che l’inchiesta di Ferrarella metta chiaramente in luce quelli che sono i veri problemi della nostra giustizia, attraverso una analisi al microscopio delle cause del suo malfunzionamento, ma anche una riflessione attenta e approfondita su quello che è lo stato del nostro Paese rispetto alla commissione di reati. Un fatto lo voglio citare, perché lo trovo strabiliante: in Italia “si ruba in casa meno che nella proverbiale Svizzera felix”. Ma Ferrarella dimostra anche di conoscere i dati reali relativi alle cosiddette misure alternative, che invece vengono messe continuamente in discussione da tanti politici in nome di una presunta sicurezza.

Così, come un giornalista riesce a cogliere le difficoltà del sistema, andando a fondo e superando i luoghi comuni tipici di tanta cattiva informazione, mi verrebbe da pensare che anche una politica matura potrebbe ponderare le sue decisioni sulla base di attente indagini nel settore interessato, anziché produrre nuove leggi sulla spinta emotiva di taluni episodi trasformati sommariamente in emergenza nazionale. Le leggi fatte in fretta e furia difficilmente possono essere leggi benfatte, ma evidentemente il consenso di una popolazione, spesso male informata, garantisce più sicurezza ai politici, nel senso che li rende più sicuri del loro potere.

 

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