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In collina per tornare ragazzi

 

Vicino a Cagliari, una comunità accoglie minorenni e giovani affinché scontino la pena fuori dal carcere. Lavorando, imparando le regole della vita in comune ed evitando di finire, una volta compiuti i ventun anni, nei penitenziari per adulti. L’ha fondata don Ettore Cannavera, psicologo e cappellano nel carcere minorile di Quartucciu

 

A cura di Marino Occhipinti

 

Persona singolare, don Ettore Cannavera: sacerdote, pedagogista, psicologo, cappellano dell’Istituto penale minorile di Quartucciu, a Cagliari, e responsabile della comunità La Collina di Serdiana,vicino al capoluogo sardo. Un uomo-tuttofare che dirige ma non si tira indietro, mai, neppure quando si tratta di rimboccarsi le maniche e "sporcarsi le mani" per i suoi ragazzi e insieme a loro. Don Ettore non ce l’ha voluto dire, ma sappiamo che nella cassa comune della comunità che dirige ci fa finire anche il suo stipendio di insegnante di psicologia. E la stessa cosa fanno, in parte, anche i giovani lavoratori ospitati nella struttura, secondo il principio dell’autogestione e dell’autofinanziamento, chiarisce don Ettore, "quindi nella consueta riunione settimanale, di comune accordo e in base alle entrate, decidiamo anche le spese da affrontare".

 

Don Ettore, ci racconti la nascita della comunità e gli scopi che l’hanno ispirata.

È iniziato tutto nel 1994 con la fondazione dell’associazione "Cooperazione e confronto", della quale ero il presidente, composta da un gruppo di operatori sociali – educatori, pedagogisti e insegnanti – che operavano nel campo della prevenzione e della riabilitazione per adolescenti e giovani adulti in difficoltà. Durante la nostra attività ci siamo resi conto che il carcere non risponde in modo adeguato ed efficace a una funzione rieducativa: basta vedere i problemi che i ragazzi manifestano nel compiere il reato, che in molti casi cela un bisogno di attenzione, di acquisire responsabilità e autonomia. Nel 1995 abbiamo quindi costituito La Collina, che nasce proprio per quei ragazzi che il giudice, non potendo prevedere per loro l’affidamento in famiglia – pensate a casi di omicidio dove ci sono contrasti all’interno dei paesi dove l’episodio è accaduto –, è disponibile ad affidare a una struttura, lontano dalle proprie case. Qui i ragazzi possono essere seguiti e soprattutto per loro c’è un vero progetto educativo, un’ottica autentica di reinserimento sociale.

 

Com’è composta la comunità, quali sono le attività lavorative e di reinserimento che vengono svolte all’interno e come avviene la gestione?

La nostra struttura è abbastanza ampia, perché alla prima comunità ha fatto seguito La Collina 2, e poi una cooperativa sociale di tipo B, La Gariga, grazie alla quale possiamo coltivare i nostri terreni, parecchi ettari, e creare occasioni di lavoro. Finché i ragazzi rimangono in comunità, svolgono svariati lavori agricoli: coltivazione biologica di erbe e piante da vendere e distillare per ricavare oli e tinture; allevamento di lumache, coltivazione di oliveti. Le modalità di gestione sono simili a quelle delle altre comunità, con le normali regole di convivenza, ma soprattutto con l’ottica del reinserimento, perché i ragazzi devono lavorare fuori. Possono lavorare in comunità, nella nostra azienda agricola, solo per il primo mese, massimo due, finché non trovano fuori un lavoro retribuito e assicurato. Chiaramente sono per lo più lavori di manovalanza, per questi ragazzi dai 18 ai 25 anni senza professionalità né competenze specifiche. Per fortuna conosciamo un buon giro di imprenditori che, sollecitati e sensibilizzati, li impiegano nelle loro aziende.

 

Quante sono le persone che ospitate, per quale durata e come si accede alle vostre comunità?

Ogni comunità ospita al massimo sei ragazzi. In questo momento, tra l’una e l’altra, sono solo otto perché siamo in attesa di trovare altri posti di lavoro per prendere altri ragazzi. Fino a oggi, in sette anni, sono passati da noi 25 ragazzi, di cui sette condannati per omicidio, quindi il tempo di permanenza cambia a seconda di ognuno: per reati gravi come l’omicidio, la permanenza è molto più lunga, da tre a cinque anni. I ragazzi vengono inviati qui dal Tribunale di Sorveglianza, soprattutto quello dei minori, perché in genere hanno commesso il reato prima dei diciotto anni. Non c’è una scadenza precisa al termine della quale si deve per forza lasciare la comunità: i ragazzi possono fermarsi qualche tempo in più se non si sentono pronti a reinserirsi nel loro contesto familiare o in altri ambienti fuori dal loro paese, perché il nostro progetto intende anche prevenire la recidività, che è molto alta in questi giovani.

 

Per seguire adeguatamente i ragazzi vi avvalete dell’aiuto di qualche figura professionale?

Abbiamo cinque figure professionali, tra educatori e psicologi, che noi chiamiamo "operatori di condivisione" perché hanno il compito di orientare e sostenere i ragazzi nell’avvio o nella ripresa di un proprio e autonomo progetto di vita.

 

C’è qualcosa di veramente determinante per favorire il reinserimento di questi giovani e aiutarli a cambiare vita? Ad esempio il lavoro?

Il lavoro e la responsabilizzazione. Vivendo della loro fatica, i ragazzi riacquistano dignità. La comunità è infatti autogestita e autofinanziata: i ragazzi devono mettere parte del loro stipendio nella cassa comune per le spese di manutenzione, gli alimenti e le bollette. Responsabilizzazione, invece, vuol dire che qui hanno dei precisi compiti da svolgere: cucinare, fare le pulizie, gestire il giardino esterno. Ciascuno ha una mansione di cui deve rispondere settimanalmente.

 

Parliamo di lei. Quali motivazioni l’hanno spinta a occuparsi di minori che hanno o hanno avuto problemi con la giustizia?

I motivi derivano dal vedere il fallimento delle carceri e la recidività alta. Il desiderio di evitare che i ragazzi, compiuti i ventun anni, vengano trasferiti nel carcere per adulti. Noi offriamo loro la possibilità di finire di scontare la pena qui in comunità, con un vero progetto educativo e di reinserimento sociale.

 

Cosa comporterebbe, per loro, il trasferimento nel carcere per adulti?

Sarebbe un guaio. Lì veramente i ragazzi si perdono. Una grossa fesseria. Si vanifica il lavoro che è stato fatto nel carcere minorile, perché quando un ragazzo entra in una compagnia di adulti, con personalità più forti della sua, è destinato a soccombere, rischia di assimilare una vera cultura malavitosa. Può diventare irrecuperabile.

 

E allora cosa ne pensa della proposta avanzata dal ministro Castelli di abbassare la soglia di punibilità addirittura a dodici anni?

A dodici anni si va ancora all’asilo! L’adolescenza è sempre più prolungata, la maturazione dei nostri ragazzi è sempre più lenta. Crescono in fretta solo dal punto di vista cognitivo, ma non affettivo, non di controllo delle proprie emozioni e quindi delle responsabilità che sono in grado di assumersi. Speriamo proprio che questa grave modifica non avvenga.

 

E dell’idea di abolire i Tribunali per i minorenni, cosa ne pensa?

Direi che la Lega non ha capito il grande progresso nella giustizia minorile avvenuto in Italia in questi cinquant’anni, soprattutto con la riforma della procedura penale del 1988. Abolire i Tribunali minorili sarebbe un grosso passo indietro.

 

Lei è anche cappellano nell’Istituto penale minorile di Quartucciu, a Cagliari: com’è la situazione lì, la vita quotidiana?

La situazione dell’istituto è abbastanza tranquilla, ci sono in media venti ragazzi di cui ben 15-16 stranieri. Tra i ragazzi, gli agenti e gli educatori c’è un buon rapporto, ma la pena più pesante è la condanna all’ozio: i ragazzi svolgono poche attività perché dal Dipartimento della Giustizia minorile stanno restringendo sempre più i finanziamenti.

Quali sono le difficoltà – e le differenze – di reinserimento dei ragazzi italiani e di quelli stranieri?

La nostra esperienza è positiva. In questo momento, tra gli otto ragazzi presenti nelle nostre comunità, metà sono stranieri. Certo, ci sono dei momenti difficili, ma tutto sommato c’è grande rispetto, grande attenzione gli uni verso gli altri. Noi lavoriamo molto sulle differenze, per mettere in evidenza l’arricchimento vicendevole che si ricava nel confrontarsi su religioni, culture e ideologie diverse, quindi credo che queste comunità miste siano un piccolo segno di come è possibile vivere nel rispetto delle diversità: si tratta di accoglienza, più che di tolleranza.

 

Per uscire dalle proposte sulla giustizia minorile che non vadano solo nella direzione repressiva, c’è qualcosa che si potrebbe fare per migliorare l’attuale situazione?

Si può attuare tutto quello che le leggi propongono come misure sostitutive e alternative al carcere, però bisogna creare nuove strutture: invece di costruire altri penitenziari, bisognerebbe ampliare comunità come le nostre, perché i ragazzi e i giovani adulti scontino la pena fuori dal carcere. Certamente sotto controllo, nell’ambito di progetti di educazione e di reinserimento sociale, però fuori. Per questi ragazzi il carcere è veramente da abolire, oppure va lasciato solo in modo residuale, per le situazioni più gravi, per un piccolo periodo di assunzione di responsabilità. Ma poi, se vogliamo portare avanti un discorso educativo, dobbiamo agire gradualmente fuori dalle carceri: il vero reinserimento si fa fuori, non dentro. In fondo credo che quando un ragazzo finisce di scontare la sua pena in carcere, questo rappresenti un fallimento, perché ci sono tante misure di cui si può usufruire, ma purtroppo mancano le strutture e le risorse finanziarie. Anzi, i soldi nelle carceri vengono spesi malissimo, vista la produzione e la riproduzione continua di devianza e delinquenza che si genera all’interno degli istituti di pena.

 

"Io e don Ettore". La testimonianza di Francesco

Ho sempre avuto un senso di diffidenza verso la chiesa, ma con don Ettore è stato tutto diverso. L’ho conosciuto nell’Istituto penale per i minorenni di Quartucciu, dove ho trascorso tre anni. Lui non mi ha giudicato, non mi ha inflitto arringhe né strazianti paternali. No, lui ha sempre saputo come prendermi e rendermi orgoglioso delle cose che so fare, anche se poche e apparentemente banali. Per me è stato molto importante incontrarlo: mi ha insegnato a cercare i lati positivi anche nelle cose più brutte, e le sue visite facevano andare meglio la mia giornata e anche quelle successive.

Qualche anno fa sono stato trasferito nel carcere di Padova, ma con don Ettore siamo sempre rimasti in contatto. È persino venuto a trovarmi "in continente", come diciamo noi sardi, e poi abbiamo un progetto e un obiettivo comuni: lui è disposto ad accogliermi, e io sarò felice di far parte del suo gruppo e rimanere nella sua comunità anche una volta terminata la pena.

Nel periodo trascorso in permesso alla Collina sono stato benissimo, sia con lui che con gli altri che lì abitano e lavorano. Lì non c’è bisogno di isolarsi per trovare la tranquillità interiore, ci sono talmente tante cose da fare... Le porte sono sempre aperte, gli spazi ampi e senza limiti alla vista. E la vita quotidiana si basa su due pilastri: la fiducia reciproca e, soprattutto, la certezza che c’è sempre qualcuno su cui contare.

 

Comunità La Collina

Località S’Otta

09040 Serdiana (CA)

Tel. 070743923

Devi affrontare la vita e non nasconderti

sotto false opinioni che i sapientoni ti danno!

 

I consigli, i suggerimenti, gli incoraggiamenti che un gruppo di ragazzi di una scuola "fuori" manda ai ragazzi reclusi

 

Lo scambio di lettere che segue ha una storia davvero particolare: avevamo pubblicato su Ristretti, e poi in una rivista rivolta alle scuole di Padova, che si chiama Voltapagina, alcuni articoli di ragazzi dell’Istituto Penale Minorile di Casal del Marmo, tratti dal loro giornale, Garçon. In una scuola media di un piccolo paese, Brugine, una classe si è "innamorata" di questi articoli e ha deciso di scrivere ai ragazzi reclusi. Ma queste lettere, quelle che arrivano da dentro e quelle che rispondono da fuori, non sono solo divertenti, spiritose, a volte tristi, sempre profonde. Sono anche una possibilità per gli adulti di capire, degli adolescenti, molto di più di quello che capiscono di solito, leggendo i loro temi "ufficiali" e tenendoli disciplinatamente sotto controllo a scuola.

 

Ciao amici, Mi chiamo "Bubu",

dicono che sono esaurita, ma sarà vero? Forse sì perché io mi mangio il prosciutto con la Nutella, però, se devo dire la verità, è buono. Poi mi chiamano "impedita", forse è vero perché quando cammino cado ogni metro poi, non so perché, ridono di me quando parlo. Forse perché faccio ridere? O forse faccio dei discorsi stupidi? Però non mi sembra perché parlo sempre dei miei denti che non ce l’ho, e poi mi fissano dalla punta dei piedi fino alla testa, mi chiedo perché. Ma forse perché non ho il corpo da Naomi e lo so, mi piacerebbe, ho un naso che è più lungo del mio piede, una corporatura che fa schifo, però gli accessori ci stanno.

Di questo non mi posso lamentare però peccato che non servono a nulla. Mi dicono che sono malata di mente, ma sarà vero? Boh! Però se lo dicono loro magari è la verità. I miei accessori sono le mie ossa che sono più vecchie di un albero secco. Mi fermo e parlo con l’albero, ma quell’albero non mi vuole proprio rispondere, gliel’ho chiesto anche per favore ma niente, perché mi hanno detto che solo quando si chiede "per favore" si ottiene tutto, ma non è così. Io ho chiesto all’albero "per favore", però mica mi ha risposto. Mò mi metto a parlare con le mie scarpe. Va bene! Ciao! Spero di avervi fatto un po’ ridere!

 

E.T.Y. (Da Garçon n° 38)

 

Ciao Bubu

Siamo 3 ragazze che frequentano il terzo anno della scuola media di Brugine, un paesino di campagna ad una ventina di chilometri da Padova.

Abbiamo letto sul sito www.ristretti.it la tua lettera pubblicata su Garçon n° 38 e ci ha molto incuriosito!

A proposito del prosciutto con la Nutella, non pensiamo sia assurdo che tu lo mangi e dato che:

- il prosciutto è ottimo

- la Nutella è ancora meglio

non vediamo perché insieme debbano fare schifo. La verità è che gli adulti giudicano troppo in fretta le cose senza aver magari mai provato!!!

Sai, anche noi facciamo parte del gruppo delle IMPEDITE, perché, soprattutto due di noi non sanno giocare con la palla (si mettono ad urlare appena vedono quell’essere sferico e liscio che piomba addosso a loro e le guarda con occhi diavoleschi!) l’altra invece con la palla se la cava, ma la chiamano impedita perché tutti pensano che sia una sfigata (anche se in realtà non è niente vero).

Senti, non crediamo giusto che ti rassegni ad essere "esaurita" solo perché lo dicono loro, devi affrontare la vita e non arrenderti e nasconderti sotto false opinioni che i "sapientoni" ti danno!!

Puoi anche essere una malata di mente ma non perché lo dicono loro. Tu sei soltanto quello che vuoi essere.

Non sempre quando si chiede qualcosa a qualcuno gentilmente si ottiene tutto. Non si può avere la luna ma è vero anche che la gente porta a sostegno solo i tuoi difetti e non i tuoi pregi, perché la gente non dice quando ti vede: "Che carina", ma inizia a dire: "Guarda quella, che sfigata!". Non pensare che accada solo a te, accade anche a noi che siamo in quello che è definito il mondo perfetto.

Una domanda: ti dobbiamo chiamare Bubu o Ety?

Ciao Bubu/Ety, se ti va rispondi.

 

Con simpatia, Puffetta, Salsa e Incognita

 

P.S.: la nostra non vuole essere una lettera di compassione, ma un modo per dimostrare che tutto il mondo è paese!

 

 

Parlare, parlare... Sì! È decisamente meglio parlare, di poco o a volte anche di niente! Parlare del tempo ma non fermarsi mai a pensare al tempo che passa e non torna!

Parlare di cose che non contano, perché quelle che contano fanno male dentro e non si possono né raccontare né scrivere, non possono nemmeno essere pensate, perché si chiudono intorno al cuore e lo schiacciano! Perché scrivere? Per far finta di aprire una finestra, scrivere vomitando fuori quello che sta marcendo dentro, ma che tanto resta lì perché la carta e la penna "là dentro non ci arrivano".

Perché raccontare? Beh, a questa domanda non so proprio rispondere, io non mi so raccontare, non lo voglio nemmeno fare. Raccontare a chi? E, soprattutto, raccontare cosa?

Ci sono dei fantasmi neri che non possono essere liberati, perché mi fa paura raccontarmi e poi vedere negli occhi di chi ascolta tutto lo schifo delle mie parole! E, allora, raccontiamoci solo favole, parole leggere che non lasciano tracce nell’anima! E arriviamo alla domanda più cattiva: perché pensare? Per rendersi conto di quanti capitoli sono stati chiusi troppo in fretta, per capire quanti rapporti sono stati cancellati. Pensare a quante storie non vorrei aver vissuto, pensare serve solo a far dire "se potessi tornare indietro", ma visto che indietro non si torna… e allora pensiamo al futuro!

Bello, con il mio fantasma nero, che sicuramente durerà molto di più di anni 8 e mesi 6 di reclusione. Penso ad un futuro diverso e ho paura, perché so che gli incubi saranno gli stessi di oggi! E allora parliamo del sole, della luna, dei programmi della televisione, oppure guardiamoci solo negli occhi e viviamo in silenzio! Happy freedom.

 

Andy (Da Garçon)

 

Cara Handy alias Veronica…

riguardo alla tua lettera "Parlare, Parlare"… siamo rimaste allibite. Ogni giorno sentiamo questo luogo comune: pensa al futuro, il passato è passato, non tornerà (a volte è anche un peccato…). Ma le ombre che lascia… quelle restano! Fra le tue parole, si legge questo senso di irrimediabilità, quasi di resa incondizionata… che triste… Ma è veramente questo il tuo atteggiamento? Eppure, in queste poche righe, sentiamo l’amarezza di uno sbaglio che ti dà la forza di continuare, nonostante tu sappia che non te ne libererai, perché sai che resterà, perché il tuo passato è la strada che ti porta al futuro. E con un passato così, la tua domanda è più che legittima: "Come sarà il mio futuro?"

E i fantasmi… per quanto resteranno? E la speranza… tornerà? Noi vogliamo crederci, perché il futuro è comunque una strada che devi ancora percorrere, che sceglierai tu di percorrere, e che se sarai pronta, percorrerai.

Sappiamo che tutti i problemi che noi incontriamo ogni giorno non sono paragonabili a ciò che tu sei costretta ad affrontare… vorremmo però farti sapere che, anche se la tua situazione è abbastanza difficile, la vita continua, perché non può fermarsi, come non è giusto che alla tua speranza sia già stato detto di spegnersi.

Quindi, l’intento di queste parole è di cercare di darti il coraggio per andare avanti! Happy freedom.

 

Alias and Asia

N.B: Rispondi se vuoi.

 

 

L’innamoramento in carcere... Secondo me l’amore in carcere non esiste, perché una volta usciti da qua dentro si dimentica tutto, proprio perché non è vero amore vero. Sono tutte fesserie che tirano fuori, da qua dentro, perché vedono certi nostri atteggiamenti in un modo sbagliato, esagerato.

Sì, forse si può anche amare, ma fino ad un certo punto anche perché in carcere non si può conoscere mai bene una persona, come è veramente.

Durante la detenzione le persone sono diverse, mentre fuori da casa le vedi come sono. Poi ci sono anche delle difficoltà nello stare insieme, nel frequentarsi, nello stare vicini il più possibile. Qua dentro puoi provare solo emozioni ma non come quelle che provi fuori, quindi per me è solo un gioco. Per gli altri non lo so, ma io la penso così.

L’amore in carcere non esiste e non esisterà mai perché è la situazione stessa in cui ti trovi che non ti porta a giudicare se è un sentimento vero. Non sai nemmeno se una volta fuori potrai incontrare ancora questa persona e, se anche la incontrassi, forse la troveresti diversa, ti sentiresti a disagio e non ci capiresti proprio più niente. Perché non è più la stessa persona.

E allora io dico che è simpatia ciò che provi per uno che come te sta soffrendo la detenzione, può esserci una particolare attenzione, una manifestazione di affetto, un sentire il bisogno di essergli vicina, di avere certe effusioni, per cui non devi preoccuparti né debbono preoccuparsi gli adulti che ci sorvegliano e che non capiscono questa necessità, che non ha nulla di sporco, di illecito e per questo a volte puniscono per una vicinanza… troppo ravvicinata. Perché crearsi problemi dove non ci sono?

 

Licia (Da Garçon)

 

Cara Licia,

ho letto tante lettere e ho pensato di rispondere alla tua lettera che, con le sue parole, mi ha colpito.

Io credo che un amore vero possa nascere anche in un carcere perché se si ama davvero, se i sentimenti che provi vanno oltre una semplice amicizia si dovrebbe accettare i fatti pur di vedere e stare assieme a questa persona.

Ad esempio io, anche se non sono chiusa in un carcere, vedo il mio ragazzo solo una volta alla settimana e durante la settimana sento molto il bisogno di stare vicino a lui, ma accetto la realtà e pur di non perderlo mi accontento.

Non sono chiusa in un carcere, ma la mia vita è un carcere: le amiche se ne fregano di me, mi lasciano in disparte e non so con chi sfogare tutta la rabbia che ho dentro di me, dentro al mio cuore. I miei genitori rompono sempre e mi lasciano poca libertà, pur avendo io 14 anni.

Un giorno quando uscirai dal carcere, se ami veramente quella persona anche se sarà cambiata la accetterai lo stesso, perché tutte le persone cambiano, nessuno resta uguale, nemmeno noi.

Ora ti saluto e aspetto una tua risposta.

Ciao ciao.

 

Chicca ‘90

 

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