Ri-strettamente utile

 

Fine pena mah…

 

Ma è possibile che i detenuti con pene lunghe mantengano comunque un reale interesse a rientrare nel tessuto sociale e a rimanervi?

 

Quando si parla di convivenza in carcere, il primo pensiero corre naturalmente alle diversità di cultura, di etnia e di religione. Mai viene preso in considerazione un altro fattore che pure esiste e pesa, spesso notevolmente, sulla vita dietro le sbarre: la differente durata della pena.

Cosa succede quando si costringono nella stessa cella un detenuto che ha subito una condanna a trent’anni ed uno che deve scontare due anni o addirittura due mesi di reclusione? La prima riflessione che viene alla mente è che una cosa del genere non dovrebbe accadere. Invece capita con una certa frequenza e la reazione di entrambi i reclusi è la stessa: paura.

Il detenuto che deve scontare due mesi si spaventa di fronte all’enormità della pena del suo compagno di cella e pensa: "Mio Dio, questo qui non ha niente da perdere". Il quasi recluso a vita si spaventa per la brevità della pena dell’altro e pensa: "Mio Dio, questo qui non ha nulla da perdere".

Quale dei due ha ragione? Per quanto possa sembrare paradossale per chi non ha esperienza della realtà penitenziaria, a correre veri pericoli è il detenuto con il lungo fine pena. Il perché è presto spiegato. Anzitutto chi deve scontare una breve condanna, magari di pochi mesi, non è rassegnato alla carcerazione e alle sue regole; in secondo luogo l’esiguità o addirittura la nullità dei benefici di legge che può ottenere con la buona condotta non rappresentano un freno a comportamenti eccessivi nell’eventualità che si tratti di una "testa calda". In questi casi il detenuto con lunga pena si ritrova in balìa degli umori del nuovo venuto, che spesso gli sconvolge quella regolarità di vita tanto faticosamente conquistata, ed è costretto a subire passivamente o quasi. Perché nel caso di una lite sarebbe l’unico a rimetterci.

Nella migliore delle ipotesi, e questo è il caso più frequente, il recluso che ha alle spalle dieci anni di galera e di fronte altri venti, con la famiglia frantumata, gli affetti stravolti e nessuna prospettiva per il futuro, è costretto a sopportare il continuo stillicidio di lamentele di un compagno di cella costretto a stare lontano dalle braccia della sua compagna per un qualche mese. È come ritrovarsi in un letto d’ospedale con entrambe le gambe amputate e dover condividere giorno e notte le sofferenze disumane di un compagno di stanza con un’unghia incarnita: ci vuole la pazienza di Giobbe.

Questo è solo uno degli inconvenienti che deve subire chi è condannato a pene di lunga durata, ma l’elenco sarebbe lungo, troppo lungo. Lo strutturale sovraffollamento delle carceri italiane costringe nello stesso corridoio, nella stessa cella l’ergastolano, il "liberante" e il detenuto in attesa di giudizio. Le esigenze delle diverse tipologie di detenuti sono agli antipodi. Il recluso con una lunga pena vive, anche psicologicamente, nel carcere. È questa la sua realtà, il suo orizzonte di privazioni nel quale cerca comunque di sviluppare una progettualità, un percorso che gli consenta di mantenere perlomeno una parvenza di equilibrio psicofisico e di dignità umana. Ma, per quanti sforzi faccia, si ritrova sempre a dover fare i conti con un regime commisurato su un’altra tipologia di recluso: quello che decide di trascorrere i suoi sei mesi di detenzione imbottendosi di vino e di psicofarmaci.

 

Che fare per le persone che, dopo anni passati dietro le sbarre, non riescono più ad adattarsi alla libertà?

 

A risollevare la discussione sulle problematiche delle detenzioni di lunga durata è stata recentemente la rivista Le due città, organo d’informazione del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria). In un articolo sono stati infatti esaminati gli esiti della XXIV Conferenza dei ministri europei della Giustizia, che si è tenuta a Mosca nello scorso ottobre. Uno degli argomenti che si sarebbero dovuti trattare approfonditamente riguardava appunto le lunghe detenzioni. Si sarebbe dovuto trattare… perché in realtà la Conferenza è stata monopolizzata dai fatti dell’11 settembre. Ma i problemi rimangono.

La rivista del DAP pone principalmente l’accento sulla tendenza, registrata non solo in Italia, ad aggravare la severità delle pene come risposta alla criminalità. Una tendenza che, lungi dall’intaccare i fenomeni delinquenziali, per i quali è necessaria una maggiore efficacia investigativa nell’individuare i responsabili, sta invece aggravando i problemi di sovraffollamento delle carceri italiane. Le cifre di questo giro di vite, determinato dalla convinzione che la presunta crescita della criminalità sia favorita dal presunto lassismo dei giudici, sono impressionanti. In soli tre anni, dal 1998 al 2001, i condannati all’ergastolo sono aumentati del 40%, passando da 590 a 828. Nello stesso periodo il numero di condannati a una pena superiore a 20 anni è salito dai 1.679 a 1.984, mentre quelli con pena da 10 a 20 anni sono passati da 3.960 a 4.401. Sono invece in diminuzione le pene fino a due anni.

Ma, al di là della questione del sovraffollamento causato dalla scarso "ricambio", il problema maggiore è che, di fronte all’aumento di questa tipologia di detenuti, le risposte trattamentali specifiche per le pene di lunga durata sono rimaste a livello zero. Eppure sembra che in Europa, Italia compresa, siano tutti concordi nel ritenere che le pene di lunga durata producono effetti spesso irreversibili di istituzionalizzazione sull’individuo, impedendone la ricollocazione nella società una volta scontata la condanna. E non si tratta di opinioni, ma di dati sperimentali conosciuti ormai da decenni. Tant’è che già nel lontano 1976 il Consiglio d’Europa adottò una Risoluzione, la (76)2, sul trattamento delle pene prolungate, tornata d’attualità nel corso della Conferenza moscovita.

In 15 punti la Risoluzione del Consiglio d’Europa, che sembra essere rimasta lettera morta, raccomanda agli stati membri una linea trattamentale volta a favorire la rieducazione e un rapido reinserimento sociale dei detenuti con lunghe condanne. Particolarmente interessante, rispetto al clima di "telelinciaggio" che si è creato negli ultimi anni, è la raccomandazione numero 15, la quale recita: "di prendere tutte le disposizioni atte a far comprendere all’opinione pubblica la particolare situazione dei detenuti condannati a pene prolungate e creare così un clima sociale che favorisca la loro riabilitazione".

L’errore, di fronte a questo atteggiamento, è pensare che sia determinato esclusivamente da un eccessivo umanitarismo nei confronti dei criminali. In realtà è in ballo anche la sicurezza sociale. Per capire questo punto è necessario chiarire cos’è un detenuto istituzionalizzato. Si tratta di una persona che, dopo alcuni decenni passati dietro le sbarre, non riesce più a concepire, né ad adattarsi alla libertà. Di conseguenza non ha alcun interesse a non delinquere per evitare di ritornare in quello che, ormai, è diventato il suo mondo. Anzi, spesso può accadere proprio il contrario. In altri termini, socialmente parlando, si tratta di una mina vagante estremamente pericolosa perché non ha nulla da perdere. In quest’ottica il documento del Consiglio d’Europa che raccomanda di favorire i contatti con il mondo esterno, di accordare permessi d’uscita come parte integrante del trattamento, di non applicare misure di sicurezza particolarmente rigide se non a condannati veramente pericolosi e di concedere la libertà condizionale non appena possibile, assume il suo autentico significato: impedire che il condannato a una lunga detenzione venga brutalmente sradicato dalla famiglia, dagli affetti, dalle amicizie e far sì che mantenga invece un vivo interesse a rientrare nel tessuto sociale e a rimanervi.

 

Graziano Scialpi

 

 

 

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