Numero aprile 2012

 

Te lo rieduco io il detenuto....

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Ristretti Orizzonti

(anno 14, numero 2 Marzo - Aprile 2012)

Editoriale

La rieducazione e l’alibi del sovraffollamento di Ornella Favero

Parliamone

La rieducazione e l’alibi del sovraffollamento a cura della Redazione

Il detenuto - cavia di Ornella Favero

Un detenuto, se si sente solo osservato non crescerà mai di Marco Libietti

Ma cos’è davvero la revisione critica testimonianze raccolte dalla Redazione

La pedagogia è un sapere che non si occupa solo di infanzia di Francesca Rapanà

Prospettiva lavoro

Dalle serre di Bollate ai giardini più eleganti di Milano intervista a cura di Paola Marchetti

Sprigionare gli affetti

Stare con i miei figli mi fa capire quante soddisfazioni ci sono nella vita oltre ai soldi  di Germano V.

Io mia figlia non l’ho mai incontrata da sola di Dritan Iberisha

Quando un amico ti chiama dal Portogallo  di Antonio Floris

Il carcere entra a scuola, le scuola entrano in carcere

Studenti indisciplinati diventano “socialmente utili”

Scuola e pena di Qamar e Miguel

Come evitare che il carcere diventi un trampolino di lancio per vivere nell’illegalità di Luigi Guida

La soluzione comunque non è mai la punizione che incattivisce di Alain Canzian

Ma come faccio a raccontare un gesto così tragico ed incredibile di Ulderico Galassini

Ma com’è una giornata in carcere?

Un’ordinaria giornata di carcere “poco rieducativa” di Luigi Guida

Un’ordinaria giornata in carcere almeno un po’ rieducativa di Luigi Guida

Oggi, ieri, l’altro ieri: che differenza fa? di Ulderico Galassini

Spazio libero

Un giorno di libertà non-ritrovata di Elton Kalica

Il gruppo di discussione di Ristretti a cura della Redazione

Redazione

Editoriale

 

La rieducazione e l’alibi del sovraffollamento

 

di Ornella Favero

 

 

Faccio volontariato in carcere da quindici anni, e da quindici anni sento dire che la “rieducazione” è una parola superata, che è meglio parlare di “risocializzazione” e che, comunque la si chiami, si tratta sempre di un sogno, perché nelle attuali condizioni di sovraffollamento e di mancanza di personale è impossibile anche solo pensare alla rieducazione. Nel nostro Paese si vive di emergenze, e l’emergenza è sempre stata l’alibi del non fare, o del fare male. E lo è anche in carcere. Nella Casa di reclusione di Padova abbiamo passato momenti in cui gli educatori erano tre per settecento detenuti, poi sono diventati sei, oggi sono dieci per ottocentotrenta. Pochi, ma non così pochi da non obbligarci a riflettere di più sul senso della pena, e su tutte le possibili strade da percorrere perché le persone non siano PARCHEGGIATE in carcere, e invece possano in qualche maniera scegliere di “farsi la galera” in modo meno inutile. Ma, tanto per cominciare, bisogna allora affrontare la questione non tanto di quelle persone detenute che hanno qualche risorsa personale e che sono in grado di “farsi osservare” dagli educatori, dai magistrati, dai volontari, quanto di quelle che stanno nelle sezioni, nelle celle sovraffollate, incapaci di riprendersi in mano il loro destino, spesso anche imbottiti di psicofarmaci (una delle organizzazioni sindacali della Polizia penitenziaria più combattive, l’Osapp, sostiene che “oltre il 40% dei detenuti in attesa di giudizio nelle Case circondariali, pari ad oltre 12mila individui, e oltre il 10% di detenuti condannati nelle Case di reclusione, pari ad ulteriori 3.500 - 4.000, sono soggetti ad una sorta di contenimento chimico nelle carceri italiane, a causa del massiccio uso di psicofarmaci”). Una riflessione merita, in questo senso, la parola “OSSERVAZIONE”, perché a me, che ho vissuto a lungo in Russia e ho sentito i racconti di chi, ai tempi dell’Unione Sovietica, era continuamente invitato a spiare vicini di casa, amici, compagni di lavoro per scoprire i possibili traditori del comunismo, la parola “osservazione” fa venire i brividi.  Nell’incontro che abbiamo fatto in redazione con educatori, direttore, magistrati di Sorveglianza siamo partiti allora proprio da questa parola, per capire se è immaginabile oggi ripensare a una detenzione che non sia da cavie, da oggetti che vanno osservati, ma da soggetti di un percorso di possibile cambiamento. I tempi non sono certo facili, però si può osare, si può sperimentare anche a partire da un ruolo nuovo dei soggetti “non istituzionali”, quelli cioè che non fanno parte dell’equipe chiamata a formulare quel documento dal nome assurdo che è la sintesi, ma che dovrebbero avere un ruolo fondamentale proprio in quei Gruppi di osservazione e trattamento, che sono la fonte principale di conoscenza della persona detenuta. Certo, le parole non ci aiutano, perché “osservazione e trattamento” fanno pensare di non avere a che fare con esseri umani, ma con topi da laboratorio, che possono essere studiati e manipolati, però noi, volontari, operatori delle cooperative, insegnanti, possiamo fregarcene delle parole e andare alla sostanza, che significa dire: noi ci siamo, lavoriamo a fianco delle persone detenute, discutiamo con loro di responsabilità, cambiamo anche, perché la rieducazione deve essere un percorso che ci riguarda tutti e ci fa cambiare tutti, quindi intendiamo dire la nostra anche quando si tratta di scrivere quella “sintesi”, che per il detenuto può essere il passo fondamentale per lasciarsi alle spalle il carcere e ricominciare a gustare un po’ di libertà.

Parliamone

 

La rieducazione  ai tempi del sovraffollamento

Un incontro con magistrati di Sorveglianza, educatori, direttore

Cosa un detenuto può fare oggi per essere comunque soggetto attivo della sua “rieducazione” e per non lasciarsi sopraffare e schiacciare dalla galera

a cura della Redazione

 

Parlare di rieducazione “ai tempi del sovraffollamento” pare quasi un disperato nonsenso, ma noi di Ristretti Orizzonti abbiamo chiamato a discuterne in redazione i magistrati di Sorveglianza, gli educatori, il direttore della Casa di reclusione di Padova proprio perché crediamo che, al contrario, oggi non si debba nascondersi dietro l’alibi del sovraffollamento per “ingessare” ancora di più il carcere, ma si debba al contrario costruire, dove possibile, situazioni di maggior apertura e trasparenza, per tirar fuori le persone detenute dalla passività e dar loro almeno una speranza.

 

Ornella Favero Ristretti Orizzonti: Vorrei spiegare subito perché è nata questa nostra richiesta di fare una riunione con tutti intorno a un tavolo, magistrati, educatori, il direttore e detenuti e volontari della redazione di Ristretti Orizzonti. Noi riteniamo questo tema della rieducazione così importante, tanto più oggi in queste condizioni di sovraffollamento, da avere deciso di dedicargli il nostro convegno di maggio. Il titolo credo che sia significativo: “Il senso della rieducazione in un Paese poco educato”. Perché oggi parlare di rieducazione in carcere non è cosa semplice, si chiede alle persone detenute di rispettare la legge e c’è di fatto uno Stato che non la rispetta, che non rispetta i diritti delle persone detenute. La rieducazione stessa è un diritto perché la Costituzione parla chiaro, però rispettarlo è altra cosa. Qualcuno pensa che forse noi di Ristretti Orizzonti vogliamo avere un ruolo troppo importante, ma tutte le leggi in materia di rieducazione e le circolari parlano di un ruolo attivo dei soggetti detenuti, allora io credo che una persona che deve fare un percorso in carcere abbia diritto di capire che cosa le si chiede, ed oggi forse questo non è sempre chiaro, quindi noi stiamo solo svolgendo il nostro lavoro, che è quello di informare su questi temi. Anche perché noi riceviamo molte sollecitazioni dalle persone detenute su questioni relative ai percorsi di rieducazione, il detenuto oggi spesso non capisce che cosa ci si aspetta da lui, quale deve essere il suo percorso. Tanto meno lo capisce una persona che è su nelle sezioni e non fa niente dalla mattina alla sera, non per sua scelta, e non ha modo, non dico di avere un ruolo ma di farsi “osservare”. Noi in questa riunione vorremmo parlare di cosa si aspettano i magistrati e cosa l’équipe e gli educatori da un detenuto e cosa lui può fare rispetto al suo percorso per poter essere, appunto, soggetto attivo. E che cosa significa se gli viene detto nella sintesi che c’è bisogno ancora di un periodo di osservazione prima di permettergli di mettere un piede fuori, quale sarà quell’osservazione e lui che ruolo deve avere. Allora noi crediamo che si debbano ridiscutere le modalità di coinvolgimento delle persone detenute, penso alle commissione culturale (che non c’è e vorremmo ci fosse, è comunque un modo di coinvolgere le persone), così come al Progetto di Istituto, ci piacerebbe poterci confrontare su questo, perché in un carcere con 830 detenuti c’è bisogno di mettere in moto tutti quegli strumenti che possono far uscire dalla passività le persone. Così come ci piacerebbe che progetti come il nostro con le scuole fossero valorizzati, perché misurarsi con dei ragazzi che ti chiedono la tua responsabilità può essere un momento molto significativo per chi è in carcere. Quindi forse, anche alla luce di queste esperienze, andrebbero ridiscussi certi temi classici della rieducazione, così come andrebbe valorizzato il ruolo di tutte le componenti di quelli che sono i Gruppi di Osservazione e Trattamento, che noi, intendo dire persone che fanno parte di associazioni di volontariato e cooperative che operano in carcere, abbiamo insistito molto perché fossero attivati.

 

Bruno Turci, Ristretti Orizzonti: Noi di Ristretti Orizzonti viviamo nelle sezioni come tutti gli altri detenuti, e ci accorgiamo che alla fine chi partecipa ad un’attività come questa è sicuramente più fortunato di altri, mentre nelle sezioni ci sono dei livelli altissimi di disagio, di disperazione che sono anche dovuti al sovraffollamento, ma soprattutto alla più totale inattività.  Ci sono persone che vivono la loro giornata supportate dagli psicofarmaci. Persone che non sanno che cosa sia un percorso, non sanno che cosa sia la possibilità di rapportarsi con l’Istituzione del carcere, con la figura stessa del magistrato, persone che vivono in una situazione talmente stretta che non hanno neppure coscienza di cosa deve accadere perché loro possano accedere ai benefici. Allora noi ci interroghiamo sul fatto che sarebbe importante riuscire ad attivare dei meccanismi che mettano a contatto queste persone con la realtà delle istituzioni. E magari oggi qui può uscire qualche piccola risposta.

 

Ornella Favero: Si sa che il magistrato di Sorveglianza ha un ruolo fondamentale nel percorso verso la libertà, però a noi piacerebbe capire per esempio che cosa si aspettano i magistrati quando leggono una sintesi, quando conoscono una persona, quando debbono prendere una decisione.

 

Marcello Bortolato, magistrato di Sorveglianza a Padova: Allora, forse è meglio chiarire anche per i detenuti che cosa si intende per rieducazione. Perché questo termine viene direttamente dalla Costituzione, l’Art. 27 dice che la pena deve tendere alla rieducazione, e forse ci fa anche sorridere, sembra di essere a scuola con i detenuti quali scolaretti che vanno rieducati perché sono dei maleducati che hanno rotto le regole della convivenza (in realtà sono ben più che maleducati, giusto?). Ma la Costituzione risale a più di 60 anni fa, risente di una concezione della pena e del carcere che prendeva le mosse da tempi precedenti in cui appunto si pensava l’istituzione carceraria come una scuola che dovesse in qualche modo non solo contenere, ma guidare verso un progetto di educazione quelli che si erano macchiati del reato. Questa impostazione non è stata ancora superata come manifesta lo stesso gergo carcerario: questi diminutivi come spesino, scopino, domandina, sono indice del fatto che si vuole concepire il carcere come una scuola, si vuole in qualche modo rendere più comprensibili, come a dei bambini che devono essere educati, i ruoli che ai detenuti vengono assegnati all’interno del carcere.

Ma oggi siamo andati oltre perché la giurisprudenza ha declinato il termine rieducazione in altre forme, cioè il significato della rieducazione più profondo non è riportare la persona al rispetto delle regole elementari della pacifica convivenza, ma è la risocializzazione; quello che interessa alla collettività è che la persona che ha violato le regole, alla fine della pena (che deve avere anche una funzione di contenimento oltre che di retribuzione per il male commesso) rientri in società e ripristini il patto violato.

Nel 1975 con l’Ordinamento Penitenziario è stato ben chiarito che cosa significhi rieducazione. L’articolo 1 parla di trattamento individualizzo che va preceduto dalla osservazione. Quindi i due termini fondamentali sono osservazione e trattamento. L’istituzione deve porre in essere una serie di attività che devono tendere al reinserimento sociale, ma per arrivare a questo deve sottoporre il condannato all’osservazione che è scientifica perché necessariamente abbisogna di un apporto tecnico, quindi sarà fatta dallo psicologo, dall’educatore professionale, dal medico, dall’agente di polizia e dall’assistente sociale, tutta una serie di professionalità tecniche che devono osservare il detenuto.  Allora a che cosa serve l’osservazione del detenuto? a individuare prima di tutto i suoi bisogni, ma poi l’osservazione deve anche (e lo dice l’Art. 27 del Regolamento che prego tutti di tenere presente, perché è una norma fondamentale della rieducazione!) indurre ad una riflessione sulle condotte antigiuridiche. Perché? Perché attraverso una riflessione sulle condotte antigiuridiche si possono capire le motivazioni che hanno portato a compiere il reato e quanto sia alto il rischio che si possa ricompierlo una volta fuori dal carcere.  Ecco io penso di sapere benissimo che cosa c’è sotto traccia a questa discussione oggi, questa benedetta rivisitazione critica che i magistrati si aspettano da voi, no? Quante volte non avete avuto un permesso perché non è stato raggiunto un livello adeguato di rivisitazione critica o di riflessione sulle condotte antigiuridiche? Perché è fondamentale per noi? Perché è fondamentale sapere quanto il detenuto ha preso le distanze da quella condotta di vita che noi chiamiamo deviante, e quanto lo abbia fatto genuinamente, non strumentalmente. Perché se il sospetto è che ci sia una presa di distanza strumentale al solo scopo di ottenere un beneficio, allora non va bene. Certo, un detenuto può anche rifiutare il trattamento ed è libero di farlo, però - attenzione - come il detenuto è libero di rifiutare il trattamento, come il detenuto è libero di proclamarsi innocente, così il magistrato è libero di non concedere un beneficio anche se nei termini giuridici il beneficio sia ammissibile.  Cosa mi aspetto dalla relazione di sintesi? Innanzitutto anche l’Art.1 del Regolamento (che è un’altra norma importante) dice che nel detenuto bisogna indurre una modificazione: la pena serve se modifica qualcosa, se non modifica nulla non serve, questo è il senso profondo della finalizzazione rieducativa, almeno secondo me. La modificazione di cosa? Ci sono studi criminologico-giuridici che dicono che alla base del reato ci sono delle carenze fisio-psichiche o fattori di disadattamento sociale. Quindi io devo indurre delle modificazioni in queste condizioni oggettive per avere non la certezza, ma la probabilità che una volta modificate queste condizioni il reato non si ripeta. L’altro aspetto è costituito dalla modificazione degli atteggiamenti personali che sono di ostacolo alla partecipazione sociale, e l’atteggiamento che è di ostacolo alla partecipazione sociale non è altro che la mancata rivisitazione critica.

Sicuramente nella sintesi mi aspetto di vedere tutti questi elementi. Quindi oltre ai cosiddetti fattori di deprivazione sociale che hanno determinato un soggetto a commettere un reato, le condizioni familiari, economiche, culturali, di istruzione, ho bisogno di qualcosa di più, voglio conoscere la condotta carceraria, perché l’osservare le regole prima di tutto di una piccola comunità in cui si vive è una garanzia per assicurarsi che poi in futuro le si osserverà in una comunità più grande. Ma mi aspetto anche una modificazione nell’atteggiamento personale. Attenzione però: modificazione nell’atteggiamento personale non significa pentimento o quello che si chiamava una volta emenda, non mi interessa il percorso interiore di pentimento, mi interessa una modificazione dell’atteggiamento personale.

Quindi queste sono le cose che io chiedo di vedere in una sintesi. La sintesi è sicuramente l’elemento fondamentale di valutazione perché è la diretta emanazione di un gruppo di persone che istituzionalmente, per la professione che fanno, per il ruolo che ricoprono devono fornire questo aiuto che serve a tutti, al magistrato ma anche al direttore, è dunque uno strumento indispensabile ma non è l’unico. Voi avete anche visto che a volte ci sono delle decisioni della magistratura di Sorveglianza che differiscono dall’ipotesi trattamentale in un senso o nell’altro. Può esserci un’ipotesi favorevole e il magistrato invece ritiene che quella persona non sia ancora pronta per il beneficio sulla base di valutazioni che, purché siano motivate, sono del tutto legittime. Così come può esserci che a fronte di un’ipotesi trattamentale negativa, il magistrato invece, desumendolo da altri elementi (magari attraverso la conoscenza personale del detenuto e da qui il ruolo fondamentale del colloquio del magistrato con il detenuto), ritenga invece che la persona sia meritevole del beneficio.

 

Linda Arata, magistrato di Sorveglianza a Padova: Intanto ringrazio per l’invito a questo incontro, perché per me è il primo presso la redazione di Ristretti Orizzonti, ci tenevo molto e sono anche un po’ emozionata. Dopo l’esaustivo intervento del collega Bortolato, mi permetto di proporre alcune osservazioni derivate dal mio approccio alla materia a seguito del mio recente trasferimento presso l’Ufficio di Sorveglianza di Padova, anche con il rischio di indicare temi scontati o già approfonditi in altre occasioni, ma che ritengo opportuno precisare con riguardo alla “Sintesi dell’osservazione”.

Innanzitutto deve essere evidenziato che esiste un diritto dei detenuti ad avere un’ipotesi trattamentale (art. 13 comma 3 dell’O.P.) formulata in un documento di Sintesi dell’osservazione, che necessita ovviamente di un congruo periodo di studio ed esame della personalità e del comportamento del detenuto, ma che deve essere redatta in tempi compatibili con la durata della pena. Parlare di tempi è una cosa delicata, perché tutti noi sappiamo com’è oggi la situazione dei carichi di lavoro in relazione al numero dei detenuti oggi presenti presso la Casa di Reclusione di Padova e anche io mi sento inadeguata quando provvedo in ritardo in relazione ad alcune richieste, venendo meno alle aspettative dei detenuti di avere una risposta immediata alle loro istanze e ai loro bisogni, ma i tempi ed i carichi di lavoro sono quelli che sono ed è necessario riflettere insieme su quali contributi si possono dare per assicurare questo diritto, anche in relazione ai detenuti con condanne a pene più brevi e ai detenuti che hanno subito vari trasferimenti da un carcere all’altro (spesso per motivi che non dipendono da una loro condotta, ma per problemi di gestione della popolazione carceraria) con la conseguenza di non essere mai inseriti in un calendario per la redazione della sintesi. Detta situazione si è verificata in qualche fascicolo da me esaminato nelle udienze del Tribunale di Sorveglianza alle quali ho partecipato, in cui ho potuto constatare la situazione di detenuti, che dopo molti anni di detenzione (anche tre anni e talora anche di più) non hanno ancora avuto un’ipotesi trattamentale. In qualche caso il Tribunale, per far fronte alla necessità di provvedere in merito all’adozione di misure alternative in tempi compatibili con il fine pena, come pure in merito a reclami avverso provvedimenti inerenti l’adozione di altri benefici premiali, ha adottato delle decisioni, in mancanza di sintesi, ma sulla base di relazioni comportamentali molto esaustive, complete nei vari elementi di valutazione, redatte dagli educatori, evidentemente consapevoli dell’importanza della decisione che doveva essere adottata e della necessità di colmare la lacuna relativa alla mancata redazione del documento di sintesi dell’osservazione.  Le ulteriori osservazioni che vorrei proporre riguardano il contenuto del documento di sintesi per riferire apprezzamenti sul contenuto di quelle che ho letto e per suggerire alcuni spunti di riflessione su cosa vorrei fosse indicato in questo documento. Ho letto documenti di sintesi in cui risulta ben espresso il vissuto personale del detenuto prima della carcerazione e che forniscono una buona conoscenza delle condizioni di vita del detenuto nel periodo antecedente e coevo alla commissione del reato. Nella sintesi viene anche ovviamente descritta la condotta del detenuto durante la detenzione e in questo caso quello che vorrei venisse rappresentato con maggiore dettaglio è l’atteggiamento del detenuto nei confronti degli educatori, dei volontari, delle persone con cui lavora e dei compagni di detenzione, perché ritengo che questi siano dati concreti su cui misurare e valutare il cambiamento o meno della personalità del condannato.  Altra questione che mi preme evidenziare è la “funzione” del documento di sintesi nel percorso trattamentale del detenuto. Mi spiego, ritengo che il predetto documento debba rappresentare non solo i risultati dell’osservazione della personalità del detenuto, per evidenziarne le modificazioni di cui si è già parlato, ma debba anche indicare allo stesso “che cosa si vuole da lui”, soprattutto nel caso in cui l’ipotesi trattamentale formulata sia quella intramurale; anche questo rientra tra i “diritti” del detenuto, che presuppone, a mio parere, la conoscenza del documento di sintesi e non solo dell’ipotesi trattamentale formulata. Ma non solo, l’altro aspetto su cui bisogna riflettere è la condivisione o meno dell’ipotesi trattamentale da parte del detenuto, che dovrebbe avere, secondo me, non solo la comunicazione formale della menzionata ipotesi, ma anche un momento di confronto con gli operatori sull’esito dell’osservazione e sui presupposti in base ai quali l’équipe ha formulato le sue conclusioni, anche a prescindere dal cd. “patto trattamentale” di cui si parla nella Circolare DAP del 14.6.05 n. 217584, e di detto momento di riflessione condiviso dovrebbe essere portato a conoscenza il magistrato di Sorveglianza. Il tema proposto dal Convegno di Ristretti Orizzonti del 18 maggio prossimo ripropone una riflessione sul trattamento intramurario, argomento affrontato anche dall’ultima circolare del DAP sulle “Modalità di esecuzione della pena: Un nuovo modello di trattamento che comprenda sicurezza, accoglienza e rieducazione” (circolare n. 3594/6044 del 24.11.11; trattasi della famosa circolare sui “bollini” incentrata sulla disciplina delle modalità custodiali del “circuito di media sicurezza”) di cui mi è piaciuto l’incipit, in cui si richiama la necessità di “riportare attorno all’uomo detenuto tutto i modello della organizzazione penitenziaria” (che altro non è che la ratio dell’Ordinamento Penitenziario a seguito dei vari interventi legislativi e della Corte Costituzionale) e in cui si richiamano i concetti di “trattamento penitenziario”, ispirato alla esigenza di “definire le regole, scandire i tempi e i contenuti della vita penitenziaria”, tenendo presente le necessarie cautele per garantire ordine e disciplina e di “trattamento rieducativo”, che “deve tendere secondo un criterio di individualizzazione, al reinserimento sociale dei soggetti condannati ai sensi dell’art. 27 Cost.”. Ma nel trattamento rieducativo, dopo le modifiche normative di cui al regolamento dell’Ordinamento Penitenziario deve rientrare anche la riflessione del detenuto “sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per l’interessato e sulle possibili azioni di riparazione del danno” (art. 27 DPR 30.6.00 n. 230). E’ questa la norma di riferimento quando i magistrati di sorveglianza accennano nei loro provvedimenti alla necessità di una “revisione critica”, che comporta una riflessione sulle motivazioni che hanno indotto a commettere un reato, sempre che ci sia un’ammissione di responsabilità, che può non essere necessaria, o comunque una riflessione relativa al contesto deviante in cui una persona ha vissuto e che deve comportare soprattutto una riflessione sulle conseguenze del reato in relazione alle persone offese. Questo, a mio modo di vedere, è il percorso di revisione critica che diventa assunzione di responsabilità ed è su questo “concetto di responsabilità che si riunificano il trattamento penitenziario e il trattamento rieducativo” , espressione molto felice che propongo citando ancora testualmente la circolare del 24.11.11.

 

Oddone Semolin, Ristretti Orizzonti: Io credo che un detenuto dovrebbe essere dotato di strumenti per poter leggere diversamente la sua vita, per avere delle possibilità e una strada percorribile nel momento in cui esce. Il che comporta implicitamente una presa di responsabilità per il reato che ha commesso e la capacità di costruirsi un’alternativa e così potersi affrancare.

Diversamente un detenuto che esce dal carcere domani mattina comincia da dove ha finito prima di essere arrestato. In linea di massima io credo, pur condividendo in buona parte ciò che avete espresso, che bisognerebbe avvicinare la forma alla sostanza. Cioè sostanzialmente se voi avete delle sintesi esaustive, questo non vuole dire che la sintesi esaustiva corrisponda effettivamente al detenuto, perché il detenuto oggi, per vari motivi, anche di sovraffollamento, spesso non ha un percorso alle spalle, non ha un progetto, non ha una valutazione. L’operatore non ha un feedback di ritorno che dice che questo comportamento è mutato. In realtà la sintesi per lo più è molto formale, ma purtroppo, anche se solo formale e non sostanziale, la valutazione che viene fatta va a condizionare la permanenza in carcere o l’uscita di un detenuto, pur non rispecchiando molte volte la sua personalità, perché il detenuto non viene chiamato a nessun tipo di confronto. E parliamo noi che siamo a Ristretti Orizzonti o che lavoriamo o che andiamo a scuola, ma la maggior parte delle persone che sono in sezione, che percorso di risocializzazione, di riavvicinamento alla libertà compiono? È il colloquio di un quarto d’ora che fanno una volta ogni tanto con l’educatore? Ma io mi preparo per parlare con l’educatore e gli dico quello che vuole. Non credo possa sostanziarsi solo in quello. D’altra parte noi crediamo, pur rendendoci conto che ci sono delle difficoltà oggettive date da mancanza di fondi, sovraffollamento, scarsità del personale addetto, che ci siano delle possibilità alternative. Per esempio tutte quelle persone che sono su in sezione inoperose potrebbero partecipare a iniziative promosse dalle commissioni sportiva e culturale, cioè tutte quelle iniziative a costo zero in cui potrebbero essere coinvolti gran parte dei detenuti, perché vale molto di più osservare un detenuto nel momento in cui “opera”, che in un colloquio di un quarto d’ora. Dopo di che se lo osservo io non mi dice niente, ma se lo guarda una persona che ha una professionalità alle spalle sicuramente sarà in grado di valutare se quella persona riesce a socializzare, se riesce ad interagire con l’ambiente circostante, e adottare misure simili anche in modo parziale sarebbe come dare un segnale di cambiamento di direzione.

 

Ornella Favero: Questo pone di nuovo al centro la questione che io ho sottolineato all’inizio, di attivare tutti gli strumenti affinché ci possa essere una conoscenza delle persone che non fanno attività alcuna.

Quando si parla della sintesi, ma anche del percorso del detenuto, bisogna che tutti quanti siamo onesti fino in fondo: se un detenuto si trova scritto sull’ipotesi trattamentale che “necessita di un ulteriore periodo di osservazione”, che cosa deve pensare se poi per mesi o per anni non succede niente, nessuna azione volta a coinvolgere ulteriormente la persona? Che cosa si riduce ad essere l’osservazione della persona detenuta in carcere oggi?  La dottoressa Arata parlava dell’ipotesi trattamentale, però l’ipotesi trattamentale è fatta di poche righe in una lunga sintesi, della quale si dice nelle circolari ministeriali che il detenuto deve essere messo a conoscenza. Oggi la persona detenuta può accedere alla sintesi completa attraverso l’avvocato, perché non può farlo direttamente? Il detenuto ha diritto a conoscere per intero la sua relazione di sintesi, che significa anche capire quello che gli operatori pensano e conoscono di lui. Un malato viene informato anche se ha un cancro all’ultimo stadio, possibile che una persona detenuta debba passare attraverso l’avvocato per leggersi la sua sintesi? Ma un detenuto ha bisogno di capire che cosa si dice di lui, di essere soggetto attivo, altrimenti parliamo di lui e lui chi è? Insomma è la sua vita in gioco.

 

Marcello Bortolato: Mi inserisco brevemente riallacciandomi a quello che ha detto Ornella Favero: allora, io parlo per me ovviamente, io non sono l’Amministrazione Penitenziaria, l’osservazione scientifica non la faccio io. Io prendo atto di un’osservazione fatta da altri e poi assumo le mie determinazioni prendendomi le mie responsabilità. Quando nei nostri provvedimenti leggete “Il detenuto necessita di un ulteriore periodo di osservazione” - anzitutto la frase non è mai da sola, viene sempre spiegato perché necessita, perché non è stato approfondito qualche aspetto, per esempio il problema della tossicodipendenza – dovete capire che sono segnali che vengono lanciati al detenuto, che lui dovrebbe saper cogliere, perché tutto l’Ordinamento Penitenziario presuppone l’adesione del detenuto al percorso trattamentale. L’adesione è qualcosa di attivo, no? Ecco perché anche la sintesi non deve essere mai una fotografia statica di quello che è il detenuto, dovrebbe essere invece un film, qualcosa insomma di dinamico, con un finale aperto o quantomeno suscettibile di essere modificato e il detenuto deve essere coinvolto nell’elaborazione del documento in prima persona. Dire “la persona necessita di un ulteriore periodo di osservazione” forse potrà sembrare un’espressione di stile un po’ troppo burocratica, però quello che io intendo con quella frase è questo: non è avvenuta quella modificazione che si richiede al detenuto per potergli aprire le porte per la prima volta, è tutto qui. La Costituzione mi dice che “la pena deve tendere alla rie­ducazione”, per cui a me non interessa che il detenuto stia in carcere, mi interessa che quando esca sia una persona diversa. Allora, se tutto quello che è stato fatto qui dentro non ha indotto quella modificazione, purtroppo uscirà uguale a prima, e sarà stata una sconfitta per lui e per la società. Voglio fare un esempio concreto, che è stato per me una grandissima sorpresa: ho incontrato nei colloqui moltissimi detenuti che non avevano nemmeno letto la sentenza di condanna. Come si fa a partire da un progetto trattamentale per una persona, che poi si scopre che non ha neppure letto la sentenza di condanna? Per quanto mi riguarda in questi casi si deve resettare tutto, io dico al detenuto: prima leggi la sentenza e poi ci rivediamo. Questo implica ovviamente ancora un periodo di osservazione, deve passare il tempo perché vuol dire che non hai nemmeno la consapevolezza di quello che hai fatto.

 

Linda Arata: Ripensando anch’io alla motivazione degli ultimi provvedimenti in cui ho scritto: “necessita di una ulteriore osservazione”, in alcuni casi la collegavo alla necessità di un approfondimento della “rivisitazione critica” del passato deviante, perché il detenuto si era limitato ad un inizio di riflessione sulle motivazioni che l’hanno indotto a compiere il reato e sulle conseguenze della vicenda sulla propria persona o sulla famiglia del detenuto, ma senza alcuna riflessione, neanche minima, sulla vittima del reato, argomento di approfondimento che veniva suggerito per l’ulteriore osservazione, non solo tramite i colloqui con gli educatori, ma con tutti gli altri operatori che vengono a contatto con il detenuto. Infatti altra questione rilevante è la pluralità delle fonti di informazione sulle persone detenute che devono essere portate a conoscenza del magistrato di Sorveglianza. Questo è un aspetto forse scontato, ma almeno per me indispensabile, a maggior ragione in una situazione di sovraffollamento, dove il momento del colloquio individuale con l’educatore può non essere così frequente e dove è necessario vengano predisposte delle prassi che consentano di portare a conoscenza del magistrato di Sorveglianza tutte le informazioni sul percorso di vita durante la detenzione di un soggetto da parte di tutte le persone che vengono in contatto con lui.

 

Marcello Bortolato: Infatti è fondamentale il rapporto tra tutti coloro che entrano in contatto con il detenuto all’interno del carcere, non solo gli operatori istituzionali. Quindi se il detenuto viene visto per otto ore al giorno dal suo datore di lavoro interno, è evidente che l’apporto di quella persona che lo vede tutti i giorni è fondamentale. Il GOT integrato con gli assistenti volontari, noi lo riteniamo fondamentale. Poi è ovvio che l’interessato, leggendo la sintesi, può vedere delle cose che non sono pertinenti, ma comunque dopo della sintesi si discute anche con il magistrato. Quante volte abbiamo visto il detenuto dire “Non è vero quello che c’è scritto lì, adesso vi dico come stanno le cose”, cioè sono tutti elementi di cui si può discutere. Cercate di non vedere la sintesi come questa pietra che non si può modificare, che oramai ha messo una barriera ineliminabile tra me ed il mondo che mi aspetta fuori, anche se certo a volte può deludere, può essere non corrispondente alla realtà dei fatti. Sul calendario delle sintesi invece osservo che recentemente si è verificato qualcosa che ha lasciato perplessi, perché a volte si fanno sintesi per detenuti che non sono ancora ammissibili ai benefici, mentre per quelli ammissibili non si fanno. Oppure per quelli che hanno un fine pena breve ancora la sintesi non c’è, poi in qualche modo si riesce a superare questo scoglio attraverso le relazioni comportamentali, che sono utilissime. Però qui bisogna distinguere due ipotesi: se il ritardo riguarda un detenuto per il quale i benefici sono inammissibili, si può anche chiudere un occhio. Se invece i benefici sono ammissibili, allora l’organizzazione interna deve cercare di velocizzare il più possibile l’elaborazione di questi documenti. Non dobbiamo sottovalutare, per esempio, il rapporto con lo psicologo, soprattutto in un Istituto come questo dove ci sono detenuti con pene lunghe; l’apporto dell’osservazione psicologica è fondamentale perché incide sia sulle cause del disadattamento, dove c’è, sia sull’atteggiamento personale nei confronti delle proprie condotte passate e presenti. Ma se il Ministero dimezza i fondi per lo psicologo, noi come possiamo fare? Quindi i problemi sono tanti e sono gravi, noi cerchiamo di mettercela tutta e di fare il possibile.

 

Giovanna Donzella, psicologa: Noi abbiamo calcolato che praticamente possiamo dedicare sei minuti all’anno per ogni detenuto, a me arrivano effettivamente delle richieste di colloquio verso le quali io sono obbligatoriamente inadempiente. Questo costituisce una violazione del diritto del detenuto a ricevere un trattamento, con una possibile proiezione esterna di difficile applicazione se manca l’osservazione della personalità. Il non poter osservare i cambiamenti della personalità del recluso rende più difficile alla magistratura di Sorveglianza valutare la pericolosità sociale dell’individuo e di conseguenza concedere delle misure alternative. E poi tra l’altro noi, dopo che abbiamo fatto quel poco che possiamo fare di relazione, non possiamo più vedere i detenuti. Cioè proprio nel momento in cui io devo entrare in contatto con un detenuto e fargli capire perché noi abbiamo fatto una relazione negativa o positiva, non possiamo più vedere il detenuto, perché abbiamo solo 23 ore al mese, che continuano anche a diminuire.

 

Salvatore Pirruccio, Direttore della Casa di Reclusione di Padova: Mi aggancio a quello che diceva la dottoressa Donzella, le ore sono poche e quello di cui parlava era la restituzione al detenuto di ciò che si è scritto nella sintesi. Questo lo abbiamo iniziato a fare da qualche tempo con gli educatori, il cui compito è anche di discutere con il detenuto perché abbiamo scritto quelle cose.  Io stamane leggevo sulla Rassegna Stampa che mi manda Ristretti che c’è stata una specie di ispezione da parte dell’Onorevole Bernardini al carcere di Rimini, e una cosa mi ha colpito: lì ci sono in servizio sei educatori per 254 detenuti non definitivi, noi ne abbiamo 830 qui tutti definitivi e gli educatori sono ugualmente sei. Se un detenuto deve fare 20, 25 anni io domani mattina non gli posso fare la sintesi, perché per lui magari può essere utile, ma così tolgo spazio agli altri! Allora una scelta va fatta, a meno che domani non arrivino 20 nuovi educatori! Voi sapete poi che l’equipe è formata anche dall’assistente sociale, figura fondamentale senza la quale non si può fare una sintesi, ma gli assistenti sociali sono dimezzati negli ultimi anni e farli venire qui a parlare prima con voi almeno una volta e poi riunirsi con gli altri addetti per fare l’equipe è un’avventura! Questa è la realtà. Noi partiamo da questi presupposti, ecco perché poi le sintesi cercano di tener conto di quello che è possibile fare. Dovete capire che l’osservazione non è soltanto chiamare il detenuto 3, 4, 5 volte anziché una, è altro, è chiedere per esempio all’agente di sezione cosa gliene pare di quel detenuto, vedere quello che fa il detenuto, con chi passeggia nei cortili, con chi gioca a biliardino nelle sale socialità. Anche questa è osservazione! È giusto impostare il discorso per far fare un percorso trattamentale al condannato, e il colloquio con l’educatore è importante, ma è solo l’inizio, poi ci sono le altre attività. Ma comunque le educatrici diranno cosa fanno nell’ambito dell’osservazione e della restituzione al detenuto di quello che c’è scritto sulla sintesi. Sul fatto poi di dare al detenuto la sintesi, io personalmente sarei anche d’accordo, ma il Ministero ha fatto tante circolari, e tra le righe si ribadisce sempre che la sintesi è una cosa che va al magistrato e basta, poi finisce nella cartella del detenuto e l’avvocato la può richiedere.

 

Marcello Bortolato: Sì però effettivamente è un’incongruenza che si potrebbe superare, visto che se c’è un procedimento di sorveglianza la sintesi integrale conflui­sce nel fascicolo, e a quel punto il detenuto ha accesso a tutti i documenti.

 

Dritan Iberisha, Ristretti Orizzonti: Con quello che il magistrato ha detto prima sull’osservazione io sono d’accordo, ma non del tutto. Prendiamo il lavoro, secondo me il datore di lavoro non può dire molto per quasi nessuno di noi, perché che opinione può dare il datore di lavoro di chi lava i piatti per quattro ore? il detenuto va in cucina e lava i piatti, termina il suo turno e sale sopra.  Lo stesso vale per i lavoranti delle biciclette o delle valigie, secondo me non li conoscono se non fanno un trattamento come il nostro. Qui a Ristretti ci stiamo da mattina a sera, scendiamo alle 8.10, qualcuno risale alle 11.00, qualcun altro ritorna in cella solo alle 15.30, e stiamo qui. Si parla, si discute, talvolta si litiga, questo per migliorare qualcosa anche nel rapporto tra noi detenuti. Abbiamo avuto ospiti importanti, persone come Agnese Moro, Benedetta Tobagi, loro sono dei famigliari delle vittime e ci stanno facendo capire veramente cosa pensano della revisione critica per noi autori di reati più o meno gravi. Ma nelle sezioni la carcerazione non è quella che viviamo qui a Ristretti, la carcerazione è un’altra! Nelle sezioni si parla di Milan, Inter, si parla del rea­to per cui sei in galera, per rapine, per omicidi, droga, e nessuno può permettersi di chiedere ai detenuti il motivo per il quale hanno fatto ciò che hanno fatto. La vita della sezione è quella, calcetto, andare a camminare, socialità, vita di cella, giocare a pallone, è difficile cambiare se si vive così. Sì, sono molti gli elementi che concorrono all’osservazione, famigliari, sociali, comportamentali, religiosi, ma non per tutti è così chiaro come possano essere davvero parte di un percorso di rieducazione.

 

Lorena Orazi, Responsabile dell’Area pedagogica: Vorrei intervenire anch’io, che sono la persona responsabile dell’Area trattamentale e da tanto tempo mi confronto su questi temi. Pure io penso che questo incontro sia una bellissima occasione, manca solo l’UEPE, altra importante componente dell’Amministrazione Penitenziaria che partecipa all’osservazione scientifica della personalità.

Lo “stato dell’arte” è quello che ha detto il dottor Bortolato, è l’Art. 27 del nuovo Regolamento di esecuzione insieme all’art. 15 dell’Ordinamento Penitenziario in cui sono elencati gli elementi del Trattamento. Se parlo per esempio di attività lavorative, in questo carcere ci sono 130 posti dell’Amministrazione tra quelli a rotazione e quelli fissi su 830 persone, ben pochi se non ci fossero le cooperative che aiutano a promuovere il lavoro, uno degli elementi fondamentali del trattamento. Quindi debbo dire a Iberisha che non sono tanto d’accordo con lui sulla riflessione rispetto al lavoro, nel senso che l’osservazione su come una persona si inserisce al lavoro riguarda proprio come la persona sta all’interno di quel gruppo, con i suoi compagni, come magari accetta di imparare a svolgere i suoi compiti. Anche quello per noi è oro, perché come facciamo noi educatori l’osservazione? La facciamo così: dal momento in cui entrate la prima volta e vi prendiamo in carico con la vostra storia di vita nell’Istituto precedente. Io sabato ho fatto quattro colloqui di primo ingresso di persone con pene anche importanti e il mio impegno è stato di comunicare loro che li stavamo accogliendo in un posto, che in qualche modo avrebbe dovuto garantire una continuità nel trattamento. Due di loro prima lavoravano fisse, con quale faccia io vado a dire loro che ne terremo conto? Io devo dirgli che capitano in un posto dove ci sono 830 persone detenute, di cui 70 ergastolani, e comunque tutte persone che hanno pene rilevanti, che stanno qui da anni senza riuscire a lavorare. Se io a quello che è appena arrivato dovessi garantire una prosecuzione del trattamento, perché questo dicono anche le Circolari, mentirei perché nei fatti non è così. Dopodiché inizia l’osservazione, che è qualcosa di assolutamente dinamico in cui vale, in primis, la relazione che si riesce a stabilire con la persona, ed anche da parte nostra la capacità di intercettare tutti coloro con cui voi detenuti avete a che fare: il volontario del gruppo di ascolto, piuttosto che l’insegnante, il parroco della parrocchia che viene a fare il colloquio una volta ogni tanto... Noi dobbiamo avere le antenne e nel corso del tempo valorizzare tutto questo. Poi però ci sono tutti coloro che non trovano niente che li stimoli a partecipare e quindi quelle sono le persone che andrebbero motivate a trovare un interesse.  La sintesi rappresenta un momento importante per tutti, in cui confluiscono a volte delle aspettative che poi non sempre sono rispettate nell’ipotesi trattamentale. Quando io vado a parlare con il detenuto di come si è conclusa l’ipotesi trattamentale, è chiaro che non posso prescindere dal perché siamo arrivati a quelle conclusioni, mi sembra abbastanza logico che uno debba motivare l’elaborato e le conclusioni di quel momento, che sono anche il punto di partenza per il dopo.

 

Ornella Favero: Nella circolare sull’area educativa del 2005 si legge: ”Le proposte trattamentali maturate durante l’osservazione ed ipotizzate dal GOT devono essere rese note al soggetto interessato (per verificare la sua collaborazione), già prima di consolidarle nel documento di sintesi…”. È vero che c’è il sovraffollamento, però io personalmente credo che si debba partire dal sovraffollamento (perché è un dato di fatto) proprio per dire con chiarezza quali cose possono essere fatte, e ce ne sono molte, e quali no. Credo che se vogliamo che ci sia una effettiva revisione critica (io parlerei di acquisizione di responsabilità, di responsabilizzazione della persona, che mi piace di più), la persona detenuta ha bisogno di capire di più. Altrimenti succede quello che un detenuto ha detto di recente agli studenti “Io in carcere cosa ho imparato? Ho imparato a vivere in carcere, ma la vita fuori è un’altra cosa!”. Quindi c’è bisogno di misurarsi in concreto su che cosa è questo reinserimento, ed è fondamentale capire come si forma il giudizio sulla persona che poi dovrà iniziare un percorso verso l’esterno, anche perché il detenuto non è l’oggetto dell’osservazione, non si può mettersi con la lente di ingrandimento a guardarlo: lui è il SOGGETTO. Altrimenti chi uscirà dal carcere alla fine della pena? Delle persone che simulano bene un cambiamento o persone decisamente refrattarie a qualsiasi ipotesi di trattamento concretamente realizzabile.

 

Lorena Orazi: Vengo adesso da un corso di formazione sul “Trattamento: prassi e norma”, destinato ai responsabili di area, un laboratorio sulla conoscenza del detenuto, proprio a partire dalla limitatezza degli strumenti, delle risorse dell’Amministrazione penitenziaria, rispetto alla capacità di avvicinare la persona che è in esecuzione di pena.  Gli stimoli sono sempre questi di cui siamo assolutamente consapevoli: riuscire a valorizzare tutto l’esistente per raccogliere più elementi e punti di vista, e questo deve essere l’orientamento del nostro lavoro. Anche attraverso questa formalizzazione un po’ meccanicistica dei GOT.

 

Ornella Favero: Ma noi appunto abbiamo chiesto che i GOT vengano attivati veramente, e non meccanicisticamente per un quarto d’ora, questa è la nostra richiesta.

 

Lorena Orazi: Appunto tutti questi strumenti che poi devono essere calati nella realtà e uno gli deve dare sostanza più che un nome, perché anche il “patto trattamentale” tra Istituzione e detenuto è un nome per il quale a suo tempo, quando uscì la circolare, ragionammo su qual era il significato. E devo dire che lo abbiamo per due anni proposto alle persone che facevano le attività scolastiche e molti ce l’hanno restituito, visto che non era obbligatorio firmarlo, perché l’impegno che chiedevamo noi come amministrazione, ma anche gli insegnanti che venivano a fare lezione, era che se iniziavano avrebbero dovuto impegnarsi a finire l’anno scolastico. Alcuni me l’hanno restituito dicendo per esempio: “Scusi, un patto significa che io e lei siamo più o meno sullo stesso piano, allora io le chiedo: io vado a scuola, però vorrei anche lavorare”. E io dovevo rispondere: “Guarda, per come è organizzata la scuola in questo momento un lavoro fisso è un po’ incompatibile, però c’è il lavoro a rotazione”.

 

Ornella Favero: Ma forse perché bisogna discuterne tutti di cos’è il patto trattamentale, se no il detenuto firma o non firma il patto senza nessuna consapevolezza.

 

Lorena Orazi: Certo, il patto con le persone è un patto che va non solo codificato, ma conquistato sia da parte dell’operatore che della persona, perché quando io dico a un detenuto che deve riflettere di più su come sono maturati i reati, che cos’è questo se non un invito? Allora io devo conquistare la fiducia della persona e il fatto che lui si impegni su questo lo devo negoziare tutti i giorni, non una volta ogni due anni, o ogni volta che c’è un aggiornamento di sintesi, perché quello è solo il momento in cui si tirano le somme.

 

Sandro Calderoni, Ristretti Orizzonti: Ma voi spesso dite che una persona deve attivarsi, noi però non parliamo delle persone che comunque hanno degli strumenti e la capacità di proporsi, ma in sezione ci sono persone che non hanno questi strumenti, o magari non conoscono le opportunità che ci sono. Noi qui cerchiamo di fare delle proposte, la richiesta di attivare in modo più ampio e partecipativo le commissioni può essere una banalità, però il fatto che una commissione comunque all’interno di una sezione organizzi qualcosa e proponga questo all’educatore può essere importante.

 

Lorena Orazi: Quella delle commissioni è una inadempienza di cui sono assolutamente responsabile, siccome io sono una persona di sostanza, penso che se io nomino un tavolo di commissione devo essere in grado di stargli dietro, di far incontrare le persone, di realizzare le cose che propongono, se no mi sento davvero una nullità. Avete ragione comunque, la commissione sportiva bisogna organizzarla.

 

Ornella Favero: Forse bisogna mettere in moto dei meccanismi diversi, che all’inizio magari possono aggravare il carico di lavoro, ma poi quando funzionano non è più cosi. Questo vale per le commissioni, per il progetto di istituto, i GOT, e vale anche per le attività, se venite ad ascoltare un incontro con le scuole, conoscete forse di più i trenta detenuti che vi partecipano che non magari con i colloqui individuali.  Quindi ci sono tanti strumenti, bisogna discuterne seriamente. Quando noi in un incontro con voi educatrici abbiamo voluto discutere della circolare che parla della maggior presenza ai piani degli educatori, è sembrata una provocazione, ma non lo è affatto, come non lo è quando per lo stesso motivo abbiamo proposto che ci sia il medico di sezione. Lo hanno fatto in alcune carceri, all’inizio è uno sconquasso, però poi quando entra a regime è una soluzione che fa funzionare le cose meglio perché il medico è lì, è un punto di riferimento, il detenuto sa che quello è il suo medico curante.

 

Rossella Favero: Ci sono davvero tanti strumenti, per esempio parlavamo con il dottor Bortolato che sia lui che io abbiamo avuto al sesto blocco un’esperienza molto interessante, chiesta da un volontario, di incontrare i detenuti semplicemente per farsi fare delle domande. Secondo me questo è uno strumento utile per tutti, nel senso di incontrare i detenuti a gruppi, anche perché così risolvi dei problemi tecnici, ma soprattutto dai un senso di speranza. Io sono arrivata qui come insegnante nel novantacinque, di educatori ce ne sono sempre stati pochi, quindi abbiamo conosciuto questa criticità, però forse abbiamo perso per strada alcuni strumenti. Faccio un piccolo esempio: una delle cose belle che ha fatto la scuola è un vademecum, che ha due parti, carcere-scuola e scuola-carcere, è il frutto di un lavoro comune, perché la scuola voleva spiegarsi al carcere e il carcere voleva spiegarsi alla scuola. Allora, su questi problemi bisogna che noi facciamo un salto di qualità, nel senso che affrontiamo questi temi tramite dei seminari tipo quello sulla rieducazione, ma anche la revisione critica, o altri temi che ci stanno a cuore, perché è strano Lorena che tu dica qui che il GOT non è da fare in modo meccanicistico, quindi molto rapidamente prima della sintesi, perché lo sappiamo bene che i GOT cominciano appunto quando comincia il trattamento, e abbiamo chiesto noi di farli.  Io sono amaramente contenta che si facciano adesso, i GOT, anche se li convocate proprio per un quarto d’ora poco prima della sintesi, perché se non si riesce ad avere altri contatti si fa anche questo, perché questo scambio fra diverse componenti è fondamentale. Ci sono però volontari e operatori delle cooperative che mi hanno chiesto “Ma cos’è questo GOT?”, allora non è che basta ricevere l’invito al GOT, si dovrebbe ragionare su qual è il nostro ruolo di operatori non istituzionali, però per fare questa cosa bisogna che ci sia condivisione su questi temi. Perché è quello il problema, che le persone detenute torneranno nella società, e devono avere uno spiraglio verso il futuro, e questa cosa va condivisa dando una speranza, la speranza in se stessi e nel rapporto con il mondo.

 

Sara Gambino, funzionaria della professionalità giuridico-pedagogica: Io ho un’esperienza soltanto di due anni per cui non so di fatto probabilmente molte cose già provate, sperimentate, fallite, da rinegoziare, diciamo che ho poca conoscenza da questo punto di vista, ma ci sono tanti punti in realtà che secondo me sono fondamentali: uno è il fatto che la condivisione di strumenti nuovi o la possibilità di trovare alternative è fuor di dubbio che non sia altro che una cosa positiva.  Allora nel mio lavoro quotidiano a me viene chiesta una cosa che è un po’ difficile, quella sostanzialmente di entrare all’interno di un vissuto che cambia, che si modifica e che si è stratificato rispetto a tante cose: la provenienza sociale, le convinzioni, i sentimenti, l’affettività, l’esperienza, il livello culturale, tante cose di una persona per cui io ho bisogno in qualche modo che il detenuto si apra a me nella maniera più genuina possibile, ma perché? C’è una qualità della relazione che secondo me è una cosa difficilissima da raggiungere, nel senso che comunque nella relazione siamo pienamente consapevoli che osserviamo le persone dentro un contesto, il carcere, che ha dei rimandi alla società, ma che sicuramente non è quello della società. Però allo stesso tempo si può creare una autenticità se si parte dalla consapevolezza che la sintesi è di fatto un tentare di riassumere in forma scritta la lettura di un vissuto di una persona.

 

Cinzia Sattin, funzionaria della professionalità giuridico-pedagogica: Quello che mi ha sorpreso molto oggi è che la dottoressa Arata diceva che si aspetta dalla sintesi di capire il grado di condivisione che il detenuto ha sull’ipotesi trattamentale. Per me con il detenuto dal momento in cui lo vedo al momento in cui chiudo la sintesi è un continuo rinegoziare, questo io non lo racconto nella sintesi ma lo tengo molto presente nella relazione che instauro con la persona, la novità grossa che è uscita oggi è che invece tutto questo è importante e va documentato. Un’altra cosa, vorrei sottolineare che l’osservazione è un lavoro continuo capillare, assillante, di raccolta di informazioni, quindi è un’osservazione costante di comportamenti, di racconti che noi vediamo in continuazione. Vi garantisco che viene fatta, impariamo anche nel tempo perché una volta mi sembrava di perderle tutte, le informazioni, poi piano piano riesco sempre più a fissarle, a condensarle, a capire cosa è importante e cosa invece no. Noi non siamo assistenti sanitari, non funzioniamo con la chiamata a campanello, non siamo delle mamme, svolgiamo il nostro ruolo che è quello di dare un contributo all’osservazione e di promuovere il più possibile queste attività.

 

Ornella Favero: Noi questo incontro lo abbiamo fatto per cercare di capire se nel percorso della persona detenuta c’è la possibilità di attivare delle iniziative per far fronte al fatto che molti di coloro che stanno nelle sezioni sono dei signori nessuno, non hanno né le capacità, né lo stato mentale per chiedere aiuto.

L’idea del detenuto “osservato” forse però bisogna cercare di definirla bene, perché quello che si rischia di vedere è la passività del detenuto. Noi vorremmo invece che ci fossero dei percorsi di condivisione capiti, in cui la persona non si senta semplicemente osservata, ma abbia un ruolo attivo.

 

Il detenuto-cavia

La rieducazione non può avvenire tutta dentro la galera

Elton Kalica ha finito di scontare una pena di quindici anni senza poter accedere a un permesso e a una misura alternativa, facendo il doppio di fatica per non farsi divorare dalla galera e dare un senso alla sua carcerazione. Ma non ci può essere pena sensata se non si ha l’opportunità di rientrare gradualmente nella società per “sperimentarsi” e affrontare a piccoli passi la vita

 

di Ornella Favero

 

Si può scegliere un detenuto, anzi una persona, in una fase così delicata come l’inizio di una nuova vita dopo quindici anni di carcere, per trasformarla in una cavia, in una specie di esperimento su cui poi riflettere insieme per capire meglio i comportamenti degli esseri umani liberati dopo anni di cattività? Io l’ho fatto con Elton Kalica, con il suo consenso naturalmente, perché penso che questo esperimento serva a dimostrare che è insensato far scontare una pena detentiva senza nessuna misura alternativa, a causa di un reato “ostativo”, che cioè non permette di compiere un vero percorso di rieducazione proiettato verso l’esterno. Dal 2002, quando Elton è uscito da una sezione di Alta Sicurezza ed è arrivato in redazione, ci siamo battuti perché, condannato a una pena esagerata, sedici anni e otto mesi, per un sequestro durato due giorni, senza armi, senza violenza, quando era poco più di un ragazzo, potesse almeno accedere ai permessi e poi alle misure alternative. Ma niente, non c’è stato niente da fare, se non assistere alla sofferenza di una persona che vedeva uscire in permesso, e poi magari in semilibertà, uno alla volta i “vecchi” della redazione, anche con reati pesanti alle spalle, come l’omicidio, e lui invece nulla. E però Elton non si è arreso, non si è lasciato andare, ha studiato, si è laureato, ha imparato perfettamente l’italiano, ha immagazzinato tutta la cultura, l’istruzione, la capacità critica che Ristretti Orizzonti, la scuola in carcere, l’Università gli hanno fornito, facendo però sempre una fatica doppia, perché la legge gli ha impedito di fatto un rientro graduale nella società, una “sana” ed equilibrata rieducazione.

 

Fermati, il mondo non sta scappando

 

I primi giorni, dopo la scarcerazione, (per essere più esatti, dopo la seconda scarcerazione, la prima dal carcere, la seconda dal CIE in cui era stato portato e dove non gli è però stato convalidato il trattenimento), è iniziata la vita nuova di Elton. Se dovessi dire il sentimento più forte che ho percepito in lui in quei giorni, non è la felicità della condizione di uomo libero, ma l’ansia, uno stato di ansia continuo, l’idea inconscia di dover fare tutto subito, di dover incontrare gente, “abbracciare” tutto il mondo, vedere la propria vita collocata già in spazi e luoghi ben definiti. Fretta, fretta, fretta, così pressante che a un certo punto non ho saputo dirgli altro che: Fermati, il mondo è qui, non sta scappando. Fermati e comincia a fare delle scelte, non lasciarti fregare dalla voglia di “arraffare” tutto quello che ti è mancato. Saper scegliere è la vera sfida, quando si arriva da una realtà carceraria che ti toglie qualsiasi responsabilità, anche quella di decidere l’ora in cui farai la doccia, come ricordava in una intervista a Ristretti Lucia Castellano, la ex direttrice di Bollate, il carcere più “aperto” d’Italia: “Com’è possibile tentare dei percorsi di rieducazione togliendo ad un detenuto, nel momento in cui varca la soglia di un carcere, qualunque possibilità di decisione? come faccio a educare una persona che non può decidere neanche se vuole farsi una doccia alle dieci di mattina e non alle otto? Allora come faccio io a testare la capacità di una persona di aderire alle regole, se poi le regole gliele impongo io e la muovo io? Sarebbe come insegnare a un bambino a camminare facendolo stare sempre in un girello, non camminerà mai. Secondo me non esiste educazione senza capacità di scegliere”.

 

La decompressione che non c’è

 

Quando è uscito Elton, mi sono resa conto che per me per anni Elton “era la galera”, perché lui restava sempre lì, e non riuscivo neppure a immaginarlo da libero, mentre gli altri detenuti della redazione prima o poi ho cominciato gradualmente a vederli fuori, con i primi permessi premio, con il lavoro all’esterno, alla fine con l’affidamento ai servizi sociali. E mi ricordo lo spaesamento dei primi piccoli permessi premio, fatti magari di poche ore in famiglia, le difficoltà a ritrovare un ruolo all’interno del proprio nucleo famigliare, mi ricordo la telefonata di Paola che, al secondo o terzo permesso, questa volta di alcuni giorni, agli arresti domiciliari in casa dei genitori, a quarant’anni, mi diceva che era tentata di “chiudersi” e di tornare prima in galera, perché non reggeva la tensione e la fatica di ricucire un rapporto, che la detenzione aveva spezzato e logorato. E mi ricordo anche le persone che iniziano a lavorare col lavoro all’esterno o la semilibertà, e la fatica di imparare a rispettare le regole, la battaglia quotidiana per spiegare che non basta, quando si è fuori con una misura alternativa, rigare dritto e non commettere niente di illegale, ci sono anche le regole, il rispetto di quel patto che uno sottoscrive quando esce e che prevede di “contenere” i propri comportamenti entro binari molto stretti. Sugli orari non si può derogare, non si può rischiare di essere fuori ufficio quando il programma prevede di stare in un determinato luogo, non si può frequentare il compagno uscito prima di te dalla galera, e che adesso vorrebbe venire a darti un saluto. NON SI PUO’.

Sto misurando in questi giorni quanto rischioso sia invece uscire senza “decompressione”: io non posso preservare le persone che escono dal carcere dai mali del mondo, non posso stare perennemente a segnalargli i pericoli, però sono certa che un detenuto che esce dal carcere senza passare per le misure alternative è come un sub che dopo un’immersione riemerge senza fare la decompressione rischiando un’embolia.

 

Si può fare a meno dell’età della giovinezza?

 

Se uno entra in galera a vent’anni, e ne esce dieci o quindici anni dopo, tutti vediamo uscire “fisicamente” una persona con una faccia da adulto, i lineamenti più definiti, i segni sul volto di una maturità marcata dalla sofferenza del carcere, e ci aspettiamo di avere a che fare con un adulto. Ma le cose non sono così semplici. La galera infantilizza, e invece di insegnarti a crescere, e ad assumerti le tue responsabilità, ti fa regredire all’età della dipendenza dagli altri, quando niente ti è concesso se non ubbidire. Poi ti trovi di colpo fuori, a decidere di tutto, e dovresti essere quell’adulto che fisiologicamente ha trentacinque o quarant’anni, però tu non sei mai stato giovane, sei stato ragazzo e poi di colpo una scelta sbagliata, una scorciatoia imboccata per cercare la “bella vita” ti hanno catapultato in carcere. “Gioventù bruciata”, verrebbe da dire, perché la storia di chi finisce in galera da giovane è esattamente questo, la storia di un brusco e doloroso passaggio all’età adulta. Solo che è un’età adulta del corpo e della sofferenza, ma non c’è maturità, non c’è nessuna crescita vera, nessun equilibrio tra ragione e sentimento. Uno poi esce e si sente inadeguato, incapace di scegliere se essere un ragazzo invecchiato e vagamente ridicolo o un adulto senza esperienza, senza “pratica della vita”. Vorrebbe disperatamente fare il ragazzo, concedersi un “tempo della giovinezza” un po’ ritardato, ma tutti gli ricordano l’età vera, tutti lo richiamano alle sue responsabilità.

 

I mezzi e i luoghi della vita a venti o a quarant’anni

 

Di questi ragazzi cresciuti in galera mi spaventano l’accelerazione che vorrebbero imprimere alla loro vita una volta usciti dal carcere, la voglia di fare in fretta quello che le persone “normali” fanno nell’arco di molti anni, il senso di frustrazione perché i loro coetanei hanno già una vita con degli obiettivi raggiunti, e loro stanno appena cominciando a fare i primi timidi passi nel mondo. Elton una settimana dopo l’uscita dal carcere è tornato per qualche giorno in Albania, a casa, e una delle prime cose che mi ha raccontato è di aver incontrato i suoi vecchi compagni di scuola, dei trentacinquenni naturalmente “sistemati”, professionisti, con figli, casa, vite “assestate”. Poi è tornato in Italia, e ha dovuto misurarsi con le vite incerte e provvisorie di chi esce dal carcere: la bicicletta come mezzo di trasporto, le case prestate, poi magari le case arredate con i mobili raffazzonati della vita da studenti, la vecchia libreria regalata da un vicino, un tavolo un po’ rovinato che ti ha dato un’amica, con l’aspirazione massima di arrivare presto a permetterti un divano dell’Ikea.  E in queste circostanze, chi è che ti offre aiuto, e qualche volta anche alloggio? Quelli usciti prima di te dal carcere, gli “amici di galera”, magari sinceri e disponibili, ma anche poco adatti a una persona che sta ricostruendosi faticosamente un futuro, e che sarebbe meglio che invece di contare sulla “solidarietà” di quelli che ha conosciuto in carcere, potesse contare su una rete di amicizie con qualche solidità. E non dite per favore che non è il caso di preoccuparsi, che persone come Elton “devono camminare sulle loro gambe” o cose simili, certo lo so, ma so anche che, dopo tanta fatica, perché reggere la galera senza soccombere è una fatica disumana, basta un niente per far tremare una situazione ancora fragilissima.

 

L’uomo senza relazioni

 

E che dire degli “affetti”? In carcere si usa sempre questa orrenda parola “affettività”, che secondo il dizionario Zanichelli è “l’insieme dei sentimenti; la capacità di provare affetto”. Una parola così astratta, una definizione altrettanto fumosa, che forse viene usata per i detenuti perché per loro si può parlare più di “capacità di provare affetti” che di affetti autentici. Se uno poi entra in galera a poco più di vent’anni, e lascia fuori magari una storia d’amore da quasi adolescente, si ritrova poi dopo quindici anni a uscire con l’esperienza e l’impazienza di un ventenne, la maturità mentale di un uomo e quella affettiva di un ragazzino. Recuperare quindici anni di assenza, o di estrema povertà di relazioni, perché la galera è prima di tutto vuoto affettivo, significa anche ricostruire faticosamente quelle figure femminili, che sono state assenti o quasi dalla vita in carcere: la madre, l’amica, l’amante, la compagna. Perché la vita di un detenuto, in Italia, ha poco spazio per gli affetti, le sei ore di colloquio mensili sono una cosa ridicola: il sesso poi, in un mondo pieno di continui richiami sessuali, è invece il grande tabù, quello di cui non si parla e di cui si finge di ignorare l’importanza. Poi è inevitabile che, quando la gente esce di galera, é l’IMPAZIENZA che connota la nascita di ogni relazione, condita spesso dall’illusione che Internet, Facebook e altri analoghi luoghi di incontri virtuali possano tappare tanti buchi di amicizie, di affetti, di amori. Ed è terribilmente complicato rimettersi in carreggiata, e cominciare ad apprezzare i tempi lenti dell’amore, la costruzione faticosa di una relazione.

 

Senza orario, senza bandiera

 

Dopo tanti anni di galera, probabilmente verrebbe voglia di riprendere dalle canzoni di Fabrizio De André questa idea del “senza orario, senza bandiera”, andare incontro alla vita togliendo di mezzo qualsiasi rigidità, qualsiasi controllo, qualsiasi forma di costrizione. Mi sono trovata, i primi giorni della vita libera di Elton, a sentirmi il controllore, il poliziotto, l’occhio eccessivamente protettivo che vigila sulla vita di uno che per anni non ha avuto un momento di intimità, non ha avuto uno spazio suo, non ha vissuto un giorno senza il controllo ossessivo della galera. Ecco perché dalla storia del detenuto-cavia voglio trarre una semplice, elementare verità: non deve esistere pena detentiva senza che sia prevista una fase di “decompressione” prima del rientro nella società, non deve esistere pena detentiva che schiacci le persone e le comprima al punto da togliere loro ogni contatto con la “vita vera” , non deve esistere pena detentiva che non dia alle persone la possibilità di sperimentarsi “ritornando nel mondo” a poco a poco, ricostruendosi con PAZIENZA un futuro.

 

 

Un detenuto, se si sente solo “osservato”, non crescerà mai

Ma la società, difendendo se stessa, fa spesso come il genitore che, solo perché ha sgridato e punito il figlio facendogli dire che non deve più farlo, “estorcendogli” questa “presa di coscienza” si sente a posto con se stesso

di Marco Libietti

 

Vorrei anch’io, dalla mia detenzione domiciliare, partecipare alla discussione della redazione sulla rieducazione, più che altro perché la galera farà sempre parte della mia vita, anche se conto proprio di non doverci tornare più... Perché farà sempre parte della mia vita? per un motivo molto semplice, ci sono esperienze che non possono essere né cancellate né dimenticate, ci sono periodi della vita che ti accompagnano per sempre, nel bene e nel male. Io non posso e non voglio allontanarmi da quel mondo di cui ho fatto parte per tre anni e mezzo.

Se penso al concetto di rieducazione, parto sempre dall’idea che quando sei in carcere hai la sensazione che per gli operatori siamo comunque prima di tutto detenuti, cioè persone che hanno creato danni il più delle volte consapevolmente e che farebbero e direbbero di tutto per uscire ma poco, in realtà, per cambiare.

I concetti antichi, come l’idea che la rieducazione si basi su una osservazione del condannato che assomiglia più a un controllo, covano sempre sotto le ceneri e sono duri a morire, li scalfisci in tanto tempo e con tanto sforzo, ma si riprendono come un’araba fenice nutrendosi della prima mossa sbagliata e dalla loro hanno una forza unica, la consapevolezza che questa mossa errata prima o poi verrà fatta da qualcuno. Da qui nasce una certa idea di osservazione, vista come controllo assillante, di revisione e in ultimo ma non per ultimo di delazione continua, che tutto comporta tranne che lo scopo essenziale, che un detenuto deve essere condotto al reinserimento nella società. Ed è qui che sta il nocciolo della questione: per far sì che questo percorso possa avere un vero senso le persone che si occupano di costruire proprio questi percorsi devono per prima cosa comprendere ed avere ben presente cosa e chi è veramente un detenuto e perché si è ridotto in quello stato...

Un detenuto spesso è una persona che ha una bassa considerazione di se stessa, poca autostima, tendenzialmente non si vuole un gran bene, altrimenti non ci si spiegherebbe perché abbia deciso di buttare via la sua vita. Inoltre ha pochissimo senso di responsabilità, sempre verso se stesso, una persona con queste caratteristiche non la si può affrontare solo con i concetti coercitivi e umilianti dell’osservazione intesa come controllo dei suoi comportamenti. Ma è proprio così che viene per lo più vissuta l’osservazione, e viene vissuta così perché, in definitiva, un detenuto altro non è che un adulto non cresciuto che si impone di non piangere e di non farsi vedere debole di fronte alla punizione. In tal modo però, se non ritrova un ruolo attivo e si sente solo “osservato”, non crescerà mai, non maturerà, non comprenderà come acquisire il senso di responsabilità verso la propria persona e, conseguentemente, verso gli altri. Come si fa a non comprendere che è questo che non è chiaro nella testa di un recluso? Qual è la persona responsabile che si fa così tanto male? che fa male ai suoi cari? giusto un bambino che non è consapevole delle conseguenze delle proprie azioni.

Io sono convinto che gli addetti ai lavori debbano comprendere proprio questo passaggio fondamentale senza il quale non si arriverà da alcuna parte, né oggi né mai. Un detenuto non va trattato a revisioni, che siano solo meccaniche, o mea culpa sociali di cui non può comprendere realmente la sostanza, ma va preso “per mano” e accompagnato alla comprensione. Se non si discute di questo è tutto inutile.

Il punto è che la società si pone, dinnanzi a questa questione, solo nelle vesti del giudice, di un giudice che difende se stesso e non pensa a come risolvere il problema di un suo figlio che ha deragliato, vede solo che corre il rischio di vederlo di nuovo deragliare. Non si pone il problema che, a parte qualcuno, chi deraglia di nuovo lo fa spesso con il cuore in gola, con la morte nel cuore, sa bene dove andrà a finire di nuovo, ma non ha spesso altra possibilità per sopravvivere. Questo perché nessuno gli ha veramente fatto capire come stanno le cose, è stato solo “sgridato” e punito. Per una situazione simile a quella del carcere non vorrebbe più doverci passare perché non è certo un masochista, ma non sa come fare. E qui subentra la responsabilità della società che, difendendo se stessa, fa come il genitore che, solo perché ha sgridato e punito il figlio facendogli dire che non deve più farlo, “estorcendogli” questa “presa di coscienza” si sente a posto con se stesso.

Non è così che funziona, solo che è più facile. Educatori, assistenti sociali, magistrati devono forse accettare come parte del loro ruolo che la persona detenuta deve essere più coinvolta, altrimenti rendono un cattivo servizio alla società e pure a se stessi. È impossibile prescindere da tutto questo se si vuole veramente ottenere qualcosa di valido, migliorativo e duraturo. La società è più matura, è più consapevole? Bene, che lo dimostri non solo sgridando, punendo, “facendo la voce dura”, ma spiegando, comprendendo e insegnando anche con molta fermezza. Si pongano tutti una domanda: serve in casa un atteggiamento solo punitivo? Non credo... figuriamoci fuori e, in special modo, lì in galera.

 

 

Ma cos’è davvero la revisione critica?

Che cosa può portare la persona detenuta a iniziare un percorso di cambiamento? Il lavoro, per esempio, è di fondamentale importanza dentro e fuori, solo che all’interno di una situazione totalmente coercitiva, come è il carcere, al lavoro il detenuto si può semplicemente adeguare, però interiormente rimanere con le stesse idee e “modelli” di vita precedenti

 

Testimonianza raccolta dalla Redazione

 

La mia riflessione parte dall’esperienza che sto facendo con il Progetto Scuole – Carcere: la partecipazione “attiva” delle persone detenute, che intervengono con la propria testimonianza, non è da considerarsi come una sorta di revisione critica? Rispondere alle domande degli studenti è importante, perché spesso sono domande proprio mirate a conoscere chi eravamo e chi siamo ora, e ci mettono nella condizione di rivisitare con onestà “il brutto” del nostro vissuto. Ma qual è “la prova” ultima che sancisce che un detenuto ha veramente fatto la revisione critica? Talvolta si ha l’impressione che le relazioni di sintesi siano come qualcosa di ambivalente e cioè che ciò che viene scritto abbia lo scopo, da un lato, da parte dell’equipe di tutelarsi nell’ipotesi di un eventuale fallimento nel percorso di reinserimento da parte del detenuto, e dall’altro di lasciare che, nonostante la sintesi ed il parere della direzione non aprano nessuna possibilità di uscita, sia eventualmente il magistrato che decide positivamente, assumendosi così tutti gli oneri nel caso che al detenuto vengano concessi i permessi premio o altre misure.  La richiesta poi che fanno a volte gli operatori al detenuto di scrivere una lettera alle vittime del suo reato nella quale lui si assume le proprie responsabilità, è quantomeno una forzatura che il detenuto espleta solo per il raggiungimento del tanto desiderato percorso graduale di riabilitazione. Inoltre spesso le vittime non ricevono di buon grado uno scritto che può smuovere nuovamente un processo di “accettazione” del dolore che forse è ancora vivo e dolente. Quello che più preoccupa noi detenuti è la formula “manca la revisione critica”, che anzitutto andrebbe inserita nel contesto della attuale situazione delle carceri, nella quale è difficile scontare la pena per i detenuti (le possibilità di attività lavorative o altro si assottigliano sempre di più), ma è difficile anche lavorare serenamente, in primis per gli educatori, che in questo carcere per esempio hanno da trattare ognuna più di cento detenuti, spesso con arretrati di lavoro che si ritrovano già dal primo giorno di assunzione. Detto questo credo non sia solo un problema di numeri, l’impressione è che vi sia anche dell’altro. Parecchie sintesi che io ho avuto medo di leggere in passato avevano al centro frasi come “Il detenuto ha partecipato ad attività lavorativa, ha aderito a…, ha partecipato ad attività sportive e corsi”, e venivano tralasciate di solito considerazioni relative al “lontano fine pena”, che semmai spettavano, e forse spettano tuttora, alla magistratura di Sorveglianza, oggi è più facile che ci siano osservazioni sul fine pena, perché per tutto il resto, per il percorso del detenuto, c’è ormai ben poco da osservare, perché sono troppi i detenuti che non sono coinvolti in niente, o quasi. Le ultime circolari del DAP in merito alla ridisegnata figura del funzionario giuridico-pedagogico cercherebbero di riplasmare ed innovare quasi completamente la figura degli educatori, schiodandoli di fatto (almeno in buona parte del loro tempo) dall’Ufficio Educatori e portandoli come supporto nelle sezioni, con il ruolo anche di stimolare e sollecitare le persone che rifuggono da ogni trattamento, o piuttosto che ne sono escluse per effettiva mancanza di attività accessibili a tutti. Non so se questa possa essere almeno in parte una soluzione, so però che per lo meno sarebbe importante discuterne.

 

Ma è davvero il lavoro la “molla” del cambiamento?

 

La questione fondamentale però è che forse il concetto di rieducazione e riabilitazione andrebbe rivisto con questa idea: che in carcere ti venga insegnato a “vivere bene in carcere” non serve a niente!

Il lavoro effettivamente è qualcosa di fondamentale importanza dentro e fuori, solo che all’interno di una situazione totalmente coercitiva, come è il carcere, al lavoro il detenuto si può semplicemente adeguare, essendo in una condizione fortemente costrittiva e ”ricattabile”. Mi spiego: io posso riuscire ad essere solerte, impegnarmi, rispettare tutte le regole lavorative, essere puntualissimo sugli orari, però interiormente rimanere con le stesse idee e “modelli” di vita precedenti, quindi un’adesione puramente formale e funzionale a ciò che uno si è proposto di raggiungere, il tanto agognato pezzetto di libertà in più, o la legittima “scalata alla libertà”. Oggi poi c’è “la gara con spintoni”, per chi riesce a farsi mettere a lavorare prima, e sembra che in questa “gara” tutto sia ammesso: conversioni fulminee, sparlare del proprio compagno di lavoro, lettere anonime. Il “trattamento” del detenuto viene molto spesso inteso come prevalentemente lavorativo. Questa è quasi una cosa naturale, vista l’importanza che ha fuori il lavoro, solo che qui siamo in carcere e quando il lavoro c’è, spesso ricalca i medesimi meccanismi carcerari “vecchio stampo”. Da parte dell’autorità “io ti ordino, tu esegui”, e tra detenuti si sgobba di buona lena, mantenendo però spesso intatto il proprio modo di pensare e ricreando appunto vecchi meccanismi, che sono quelli che hanno contribuito a farci arrivare qui. Le circolari “innovative” sono ovviamente spesso in parte disattese, un po’ perché veramente non si riesce a metterle in pratica, molto perché si vuole mantenere lo “status quo”. Lo studio e altre attività, anche se partecipate in maniera attiva e costante, sono comunque spesso considerate “minori”, questo perché in carcere il dibattito, la partecipazione attiva del detenuto alla vita dell’istituzione che gli sta facendo scontare la pena, per una buona parte degli addetti ai lavori è fantascienza. E però rendere partecipe in modo critico il detenuto a ciò, che invece spesso vive come un “subire” continuo, è una via che agevolerebbe proprio la revisione critica.

 

 

 

La pedagogia è un sapere che non si occupa solo di infanzia

Ma un progetto autenticamente educativo, che voglia realizzare un cambiamento, deve essere condiviso pienamente in tutte le sue fasi dai soggetti coinvolti,  che siano adulti o minori, detenuti o persone libere

 

di Francesca Rapanà, operatrice dello Sportello di segreteria Sociale: nel 2002 ha svolto il tirocinio previsto dal corso di Laurea in Scienze dell’Educazione nella C.R. di Padova

 

Oggi il mio sguardo su questa realtà, pur restando inevitabilmente parziale, è arricchito dal cambiamento di prospettiva legato ad altri ruoli con cui mi sono misurata in questi anni dopo quello di tirocinante educatrice, come volontaria e come agente di rete nelle attività all’interno dell’Istituzione, in particolare allo Sportello di Segretariato sociale e Orientamento giuridico, e all’esterno, in quel difficile terreno in cui si misura la reale possibilità di reinserimento.

Soprattutto da quando sono allo “sportello”, mi sono misurata con la difficoltà di esercitare un ascolto paziente, calmo, attento, attivo, anche quando non devo raccogliere un’informazione precisa, ma solo la volontà della persona di raccontare qualcosa di sé. Non si tratta unicamente di parlare del documento da rinnovare o dell’istanza da presentare, ma di accogliere l’ansia per una risposta che non arriva, la preoccupazione per la famiglia che aspetta, e qualche volta più che legittime “incazzature”, ma anche l’emozione per la concessione di un permesso o magari solo la gratitudine per un documento rinnovato che ti fa sentire forse un po’ meno detenuto, un po’ più cittadino.

 

L’isolamento dell’intento rieducativo in carcere

 

Al di là delle funzioni assegnate all’educatore penitenziario, fare l’educatore nel carcere italiano di oggi significa gestire quotidianamente una situazione emergenziale, in cui la quantità di pratiche burocratiche da evadere impoverisce di molto la frequenza e la qualità delle relazioni personali che dovrebbero essere la base del suo lavoro. Non si dà possibilità di coltivare un rapporto autenticamente pedagogico quando ad un educatore sono assegnate cento-centocinquanta persone, che si incontrano una volta ogni tre, sette, dieci mesi e più; oggi poi il lavoro dell’educatore è spesso appiattito sull’elaborazione della cosiddetta “sintesi di osservazione della personalità” e delle altre relazioni comportamentali richieste dalla Magistratura di Sorveglianza. In queste condizioni la qualità delle informazioni rischia di essere piuttosto superficiale, limitandosi spesso a registrare la “regolarità della condotta”, la “positiva adesione alle attività trattamentali”, l’“atteggiamento partecipativo e collaborativo”, riducendo la ricchezza e la complessità della persona alla sola identità di detenuto e alla capacità che ha di essere un “bravo” detenuto.

Spesso nelle relazioni con il personale dell’Amministrazione, si sottolinea il rischio che il comportamento del detenuto possa essere “strumentale”, poiché il detenuto ha tutto l’interesse a mostrarsi gentile, collaborativo, un “bravo detenuto”, nella speranza che la relazione comportamentale redatta dagli operatori, da cui dipende la possibilità di uscire ogni tanto o uscire prima, sia positiva. Sinceramente questa possibilità non mi stupisce, né mi scandalizza, è necessario tenerne conto; credo, però, che questo rischio non sia legato tanto alla malafede di chi si trova in una situazione strutturalmente caratterizzata da asimmetria di potere e di ruolo. Credo che sia abbastanza comune l’esperienza di cercare di dare una impressione positiva ad una persona che in qualche modo ha il potere di migliorare la situazione in cui siamo, basta pensare ad un colloquio di lavoro. È solo con una conoscenza più approfondita e rapporti più frequenti che quell’impressione potrà essere confermata o modificata. La scarsa frequenza dei colloqui non consente una conoscenza autentica, approfondita, così come non la consente una concezione di relazione tra educatore e detenuto a volte rigida, superficiale, formale, in cui il detenuto sa già a quale modello deve conformarsi per ottenere ciò che vuole. Il contrario quindi di una situazione aperta, in divenire, dagli esiti inaspettati e inattesi com’è quella propriamente educativa. Sta poi all’educatore non confermare questo modello di relazione se è la persona detenuta a proporlo. Sono convinta comunque che se questo atteggiamento può essere esibito è perché i contatti sono rari e credo che difficilmente potrebbe essere mantenuto nel caso di incontri frequenti e approfonditi. Inoltre, ho visto spesso detenuti talmente emozionati per quella preziosa e tanto attesa occasione di incontro con l’educatore, da non riuscire ad ostentare quell’atteggiamento che in qualche modo a volte l’Istituzione propone come desiderabile.

Ma non è solo il sovraffollamento e la sproporzione tra il numero dei detenuti e il numero degli educatori ad osteggiare il fine rieducativo della pena, è un contesto fortemente oppositivo, in cui tutto sembra “remare contro”: rapporti di potere troppo rigidi, deprivazione affettiva, relazionale e sessuale, scarsità di esperienze possibili, scarso rispetto della dignità umana. Come scriveva il pedagogista Piero Bertolini (in uno dei testi più significativi in tema di rieducazione anche se riguardo ai minori) “al di sopra di una certa soglia le carenze materiali, affettive e intellettuali limitano o annullano del tutto l’efficacia di qualsiasi intervento educativo” (Bertolini, Caronia, 1993, p. 78).

L’intervento dell’educatore allora si muove su un doppio livello: da una parte, verso il soggetto in quanto autore di reato, quindi persona problematica, difficile, con esperienze di vita che spesso hanno ridotto la possibilità di immaginare altri tipi di vita possibile; dall’altra verso il soggetto in quanto detenuto, per cercare di neutralizzare gli aspetti distruttivi della detenzione, che rischiano di frustrare sul nascere qualsiasi tentativo di sviluppo personale. La privazione della libertà infatti si accompagna ad una serie di privazioni aggiuntive che rendono insopportabile la detenzione, basti pensare ai rapporti con la famiglia. La legge attuale prevede una telefonata a settimana della durata massima di dieci minuti (artt. 37 e 38 reg. es.) e sei ore di colloquio al mese con i familiari, in locali con altri detenuti e altre famiglie, ambienti rumorosi, con controllo a vista, nei quali ogni forma di privacy è impedita. Soprattutto in vista del reinserimento sociale, il mantenimento dei rapporti con la propria famiglia è fondamentale e andrebbe sostenuto e incoraggiato. Perché non considerare quegli elementi che potrebbero sostenere un percorso di sviluppo di sé e quindi un processo di reinserimento sociale senza compromettere la sicurezza negli Istituti? Avere rapporti con la famiglia e rapporti affettivi e sessuali è funzionale ad una logica di reinserimento, verso cui anche la collettività, ossessionata dalla “sicurezza”, dovrebbe mostrare maggior interesse.

Spesso vedo fuori dal carcere i parenti che aspettano di poter incontrare i loro familiari detenuti, che a loro volta da giorni si stanno preparando al colloquio e per lungo tempo ne ripercorreranno mentalmente ogni fotogramma per allontanarsi dal grigiore penitenziario, prima di ricominciare ad attendere l’incontro successivo. Il tema dell’affettività è quello su cui si concentrano molte delle ansie e delle frustrazioni della maggior parte delle persone in stato di detenzione.

 

La pedagogia penitenziaria è pedagogia?

 

Mi chiedo a questo punto se la situazione delle carceri italiane e il sistema di leggi su cui si fonda sono gli unici elementi contro cui cozza l’istanza rieducativa. Quello che mi sembra è che la teoria pedagogica generale si esprima poco o sia poco ascoltata nella costruzione di una struttura teorica su cui organizzare la progettazione rieducativa dell’adulto detenuto, rispetto invece al contributo di questo sapere agli interventi rivolti al minore deviante.

Una prima indicazione di come il discorso dominante costruisce il suo modello di progetto rieducativo si trova nell’Ordinamento Penitenziario. Nell’art. 1 si legge: “(…) nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti”. Il termine trattamento rieducativo, che indica l’intervento educativo nell’ambito penitenziario, è estraneo ad un lessico propriamente pedagogico, suggerendo un’azione esercitata su un soggetto, che la subisce (il che è anti-pedagogico). Il regolamento esecutivo all’art. 1 specifica “(…) il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale” e ancora all’articolo 27 riguardo all’osservazione della personalità: “L’osservazione scientifica della personalità è diretta all’osservazione dei bisogni di ciascun soggetto, connessi alle eventuali carenze fisico-psichiche, affettive, educative e sociali, che sono state di pregiudizio ad una normale vita di relazione”. Queste indicazioni si basano su una spiegazione deterministica della devianza, visione più che superata.

Immediatamente dopo trova spazio però un’importante specificazione (l’unica) che corregge parzialmente tale visione: “Ai fini dell’osservazione si provvede all’acquisizione di dati giudiziari e penitenziari, clinici, psicologici e sociali e alla loro valutazione con riferimento al modo in cui il soggetto ha vissuto le sue esperienze (corsivo mio)”. Questo passaggio riporta finalmente la centralità del soggetto nel discorso che, qui sì, può declinarsi in senso pedagogico: “La valorizzazione del soggetto inteso come luogo di significazione della realtà e di riformulazione o di superamento delle definizioni condivise della realtà, acquista una particolare centralità all’interno dell’approccio pedagogico (Bertolini, Caronia, 1993, p. 36)”. Bertolini spiega che è proprio nell’attività del soggetto di dare senso al mondo che c’è la possibilità di un intervento pedagogico, contrariamente al paradigma causale, che, “escludendo teoreticamente ogni partecipazione attiva della soggettività alla costruzione della sua «realtà», impedisce di cogliere le condizioni di possibilità di un cambiamento nella vita del ragazzo difficile” (Bertolini parla di minori devianti, ma in questo caso il discorso può valere anche per gli adulti) e individua “l’oggetto specifico di riflessione e di intervento pedagogico: il contributo del soggetto alla costruzione del proprio modello di interpretazione del mondo e di azione nel mondo” (Bertolini, Caronia, 1993, p. 36).

Le leggi definiscono poi la finalità del trattamento rieducativo che deve tendere “a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale (art. 1 comma 2 reg. es.)”. Il tipo di intervento previsto dal Legislatore si concentra quindi sulla modificazione di quelle che sono le condizioni oggettive che influenzano il soggetto; rendere questo discorso pedagogico significherebbe insistere sulla presa in carico globale del soggetto e sugli elementi soggettivi ed esistenziali.

Altri due momenti mi sembrano ambigui nel testo legislativo: l’indicazione della compilazione del programma di trattamento rieducativo e il richiamo a favorire la collaborazione dei condannati e degli internati alle attività di osservazione e trattamento (artt. 13 O.P. e 27 reg.es). Non è solo una pignoleria terminologica, ma sarebbe stato diverso parlare di “progetto” invece di “programma” e “condivisione” al posto di “collaborazione”: il “programma” di solito è prodotto fuori dal soggetto e impostogli dall’alto per raggiungere certi obiettivi, mentre il “progetto” privilegia il soggetto e rimane aperto all’inatteso che inevitabilmente una relazione educativa comporta (Schenetti, 2006); e la collaborazione è forse condizione necessaria, ma non sufficiente, per un progetto che, se vuole realizzare un cambiamento, deve essere condiviso pienamente in tutte le sue fasi dai soggetti coinvolti, dall’inizio alla fine.

Si parla spesso di pedagogia penitenziaria proponendo modelli che di pedagogico non hanno nulla o poco; il contributo della pedagogia stenta a farsi ascoltare (qui come altrove) un po’ (molto) per la pigrizia di questo sapere che lascia sempre che altri dicano la loro, senza alzare la voce per farsi ascoltare e un po’ anche per quell’idea per cui la pedagogia è quella scienza che si occupa dei bambini, magari in modo normativo e prescrittivo. Mi ha colpito che Adriano Sofri, autore di riflessioni profonde sul carcere, parlando dell’infantilizzazione dei detenuti la associ ad una “pedagogia punitiva” 1. Ma quella che non solo ostacola lo sviluppo individuale, ma addirittura produce una regressione del soggetto, non è una pedagogia punitiva, né una cattiva pedagogia, non è proprio pedagogia.

Cosa può essere un intervento autenticamente educativo rivolto ad individui adulti segregati? Persone la cui condizione adulta viene percepita spesso come impedimento sicuro per un cambiamento anche radicale, uno sviluppo di sé, emancipazione da un vocabolario ristretto per dare senso al mondo. Non c’è una risposta, e sicuramente non una o definitiva: ciò che l’educatore può fare credo è recuperare la “responsabilità esistenziale, dare/ridare dignità. (…) restituirgli la sua dignità di essere soggetto, pur sapendo che essa la si deve riconquistare sempre di nuovo (Dallari, Ghirotto 2006, p. 235). Responsabilità, dignità, parole che in carcere sono molto rare. Gli strumenti a disposizione dell’educatore nel carcere di oggi, non sono molti, resta comunque lo spazio del rapporto personale, la conferma al detenuto di essere un soggetto degno di attenzione e di essere ascoltato.

 

1 Da un intervista apparsa su L’unita il 22/08/2002 “Vi racconto il lusso della mia cella”

 

 

 

Prospettiva lavoro

 

Dalle serre di Bollate ai giardini più eleganti di Milano

La filosofia di “Cascina Bollate” non è quella di fare il classico prodotto “da carcere”, per smuovere il senso di carità dei cittadini, ma di lavorare sulle professionalità

 

Intervista a cura di Paola Marchetti

 

Amore per il verde, passione ed entusiasmo, oltre a idee chiare sul reinserimento, sono i tratti che caratterizzano Susanna Magistretti, presidente della Cooperativa Cascina Bollate di Milano. L’abbiamo intervistata per capire come funziona la sua attività all’interno della Casa di Reclusione di Bollate.

 

In cosa consiste la vostra attività? Avete una serra in carcere?

Abbiamo 2 serre da 900 mq e circa 10.000 metri di terra scoperta che abbiamo variamente attrezzato, tra orto, frutteto, ombraia. Abbiamo più di 100.000 piante, con 3-400 varietà. Sono piante da terrazzo, da balcone, da giardino. Ma io le racconterei la storia dal principio: ad un certo punto, dopo aver peregrinato, prima lavorando fuori poi nelle carceri, Beccaria e San Vittore, dove facevo giardini con un progetto legato al Ser.T. a cui dedicavo mezza giornata a settimana, non ero più soddisfatta di questa attività di volontariato per il recupero e inclusione per tossicodipendenti. Poi, per una serie di motivi, da San Vittore sono arrivata a Bollate dove ho lavorato 4/5 mesi in un reparto. Bollate ha molto più verde di San Vittore, tra i due non c’è paragone. In questo reparto, da sempre deputato soprattutto ai tossicodipendenti, e sempre in forma di volontariato, abbiamo messo in piedi un giardinetto e nel 2006 è arrivata l’inaugurazione delle serre a cui la direttrice di allora, Lucia Castellano, mi aveva invitata. Serre meravigliose, fatte costruire dal Ministero nel 2001/2002, però sottoutilizzate e fatte in maniera non consona alle esigenze: una, molto sofisticata - alla faccia dei consumi energetici - sembrava adatta alle orchidee, ma non c’era nessuno che sapesse coltivarle, mentre l’altra era una serra nuda e cruda, senza irrigazione, in cui veniva coltivata solo cipolla di Tropea. Se si fa una serra perché sia produttiva, bisogna utilizzare il denaro in maniera ottimale! L’idea era quella di fare una produzione all’interno del carcere per poi venderla. La produzione, scarsa, di verdura c’era, mentre quella delle piante comprendeva tutte quelle specie presenti già nei supermercati a costi meno elevati e più belle, anche perché sono quelle che arrivano quotidianamente dall’Olanda con grandi tir refrigerati. Quindi coltivare ciclamini o cipolle di Tropea non aveva molto senso e soprattutto non avrebbe avuto mercato. Questo a conferma del mio pensiero: normalmente il verde in Italia viene inteso come una delle pochissime possibilità di miglioramento, di ri-socializzazione, per tossici, matti e detenuti. Quindi c’è l’idea di un verde salvifico in sé e per sé, senza un progetto che valorizzi l’uomo che lavora e il prodotto. Fatto senza dietro un progetto e un pensiero il verde ha zero senso. Se si mette in mano ad un ex detenuto un decespugliatore, gli si dice che da quel momento fa il giardiniere e lo si manda a fare il guard rail della Milano-Brescia o a tagliar siepi, l’ex detenuto in questione, secondo me dopo tre giorni, sopraffatto da un lavoro alienante, insalubre e di solito sottopagato, rimpiange l’epoca in cui faceva rapine… Il giardiniere invece è un mestiere in cui si coltiva il bello e il buono, un mestiere in cui è molto importante la formazione professionale. E il tempo vuoto della carcerazione si riempie e diventa proficuo, imparando davvero un lavoro che non è quello del giardiniere muscolare che invece di menar le mani manovra un decespugliatore. Così, dopo aver visto le serre di Bollate, con il consenso della direttrice di allora, Lucia Castellano, mi sono messa in testa di fare un progetto di vivaio specializzato, consultandomi con dei vivaisti con cui da anni lavoro, tutti specializzati in piante destinate a un mercato di nicchia. Ho deciso di iniziare a fare la vivaista, partendo da quella che era la mia esperienza lavorativa di allora, centrata sulla divulgazione di temi verdi come botanica e giardinaggio, con la collaborazione con alcune riviste, e sulla mia pratica di giardiniera.

 

Forse il verde diviene terapeutico se il risultato è molto bello?

Sì, però, perché il risultato sia bello, sono necessarie alcune qualità: capacità di aspettare, di reggere alle frustrazioni, disciplina. Diciamo che è un insegnamento utilissimo per la riflessione e la perseveranza. Noi facciamo le schede con il nome di ogni seme, il nome botanico, il numero dei semi utilizzati, il tipo di terra, la data di semina, il risultato della semina, la temperatura della terra e, l’anno dopo, si fanno i confronti. Una cosa apparentemente da mentecatti ossessivi, ma in questo modo i detenuti di Cascina Bollate piano piano imparano il mestiere. C’è una sociologa francese, Florence Weber, che nel suo libro “L’honneur des jardiniers” parla dell’aspetto riparativo del mestiere di giardiniere. Una persona può anche aver commesso le azioni più turpi ma, nel momento in cui coltiva la terra e produce il bello e il buono, cioè piante, fiori e verdure, almeno per quell’aspetto della sua vita che riguarda il lavoro, recupera una onorabilità perduta. Ai propri occhi e agli occhi di chi vede i risultati del suo lavoro.

 

Come ha accolto la proposta l’istituzione?

Ci sono stati 9 mesi, da marzo a dicembre 2007, di start up, che è stato molto faticoso perché rappresentava una grande svolta per il carcere stesso. Comunque, le persone che lavoravano lì erano quelle che già prima lavoravano nelle serre e ho dovuto fare una selezione che non è stata semplice. Quello era un posto consolidato, “di potere” e importantissimo per molti detenuti, perché li fa stare fuori tutto il giorno, certo con due poliziotti, però fuori tutto il giorno. C’è stato da far mandare giù all’istituzione il fatto che io entravo con la sega, la vanga e la cesoia e che i detenuti le usavano. C’è stato da fare un salto dalla logica del lavorante alla logica del lavoratore; che è uno spartiacque fondamentale. Il lavorante scende un po’ quando gli pare e può passare quando gli aprono, il lavoratore se deve cominciare alle 8:00, deve cominciare alle 8:00.

 

Si tratta di posti di lavoro vero, quindi?

Così come funziona fuori, noi facciamo dentro, anche se identico non sarà mai, perché, ad esempio, quando mi arriva un camion di terra, devo far preparare l’autorizzazione, devo spedirla al signore che arriva, etc. Tanto per fare un esempio, c’è stato da convincere molti fornitori a perdere un po’ di tempo in più solo per il fatto di dovere entrare in carcere per fare una consegna. Il fuori e il dentro identici non saranno mai, però cerchiamo di andarci molto, molto vicino. La qualità del prodotto è di alto livello; non facciamo né gerani, né ciclamini, né prodotti commerciali come le “stelle di natale”, non ci interessa farle, non solo perché io ho un cattivo carattere e mi fanno schifo, ma soprattutto perché non sono vendibili, se messi a confronto con il prodotto che si trova nei supermarket o nei garden center. Per stare sul mercato la sola possibilità era creare un prodotto di nicchia. Siccome noi dobbiamo fare fatturato, facciamo delle cose per cui abbiamo meno competitor possibili. Il vantaggio di essere a Milano è che non c’era un vivaio specializzato in piante perenni, e quindi non solo il giardiniere dilettante o l’appassionato, ma anche i giardinieri professionali dovevano andare a 30/40 km da Milano per trovare una pianta, che non fosse un ciclamino, mentre ora vengono a Bollate. Non sono tantissimi perché, purtroppo, quello del giardinaggio in Italia è un mercato povero, arretrato, però quelli che vogliono fare un lavoro serio tendono ad usare le piante che, guarda caso, trovano da noi.

 

Organizzare una attività lavorativa in carcere è sempre faticoso, però, se c’è una direzione che dà una mano, e da questo punto di vista Bollate è una situazione molto avanzata, le difficoltà si superano meglio.

Le difficoltà comuni a tutti quelli che lavorano in carcere sono date da alcune assurdità o lentezze burocratiche, che anche gli addetti ai lavori conoscono. In realtà negli ultimi anni gli intoppi burocratici sono molto migliorati, per fortuna, è certo però che, per quanto a Bollate si faccia di tutto per far passare l’idea che il lavoro dentro deve essere uguale (nei tempi, nelle regole e nella produttività) al lavoro fuori, una qualche difficoltà in più c’è.

La difficoltà maggiore non è tanto il portar dentro i prodotti, quanto le persone, ovvero i clienti del vivaio. Abbiamo infatti il negozio dentro il carcere: nell’intercinta tra il primo ingresso, che è quello da dove entrano tutti, compresi i parenti, e l’ingresso del carcere vero e proprio. Lì c’è un bel negozietto con un giardino didattico, aperto tre giorni a settimana, dove tutti possono entrare facendo vedere la carta d’identità e possono comprare quante piante vogliono. Poi, un detenuto in articolo 21 può portare le piante fuori nel parcheggio. Capisco che questo trambusto possa portare scompiglio, e all’inizio non è stato facile, ma ora è diventato una consuetudine, senza più intoppi.

 

Fate una vera selezione professionale, che non c’entra niente con le selezioni che si fanno di solito dentro alle carceri per far lavorare le persone?

Io faccio le selezioni, anche ascoltando cosa dicono gli educatori e dando le priorità in base al bisogno di lavorare che può avere il detenuto. Cerchiamo di capire se funzionano, come funzionano, e tutte quelle mille variabili del carcere. L’importante è che lavorino. Quando capiamo come funzionano, li suddividiamo in base alla responsabilità. In realtà all’inizio fanno un periodo di formazione affiancati, in un rapporto tra pari, da un detenuto anziano e girano per tutto il vivaio che non è proprio piccolissimo: c’è la zona delle rose antiche, la zona degli arbusti, la zona delle graminacee, la zona delle semine, della produzione e moltiplicazione e c’è la zona della ombraia. Iniziano a imparare il mestiere affiancati dal detenuto più anziano, da me, dal vice-presidente della cooperativa, da un altro giardiniere che lavora con noi come volontario. Poi a ciascuno viene data una sua responsabilità, ci sono cioè due detenuti che si occupano della parte della produzione, nella serra calda, altri due che si occupano della zona del frutteto e della serra fredda, un altro detenuto che si occupa del roseto, un altro che si occupa dell’ombraia. Tutti quelli che hanno l’articolo 21 escono tre volte la settimana per fare “le commesse” in negozio, a volte affiancati da un volontario, a volte soli; di questi due o tre escono proprio dal carcere e vanno a fare i lavori nei giardini e nei terrazzi. Questo vuol dire che ad aprile, maggio, giugno, settembre, ottobre sono fuori, se non tutti i giorni della settimana, quasi tutti.

Certo non voglio far la parte della nazi, perché non lo sono, ma quando un detenuto non lavora bene, e non solo quando esce o viene trasferito, dobbiamo rimpiazzarlo; quando abbiamo bisogno di qualche persona in più, perché guadagniamo un po’ più di quattrini, e così lavoriamo tutti un po’ meno e diamo più lavoro, dobbiamo assumere. Tenga conto che nel 2011 abbiamo realizzato un fatturato di 168 mila euro, l’anno precedente di 130 mila euro. Abbiamo assunto a seconda dei quattrini che avevamo e ora abbiamo, oltre ai 6 detenuti, anche due stipendi di giardinieri professionali “liberi”. Facciamo un bando all’anno; un paio d’anni ne abbiamo fatti anche due, comunque minimo un bando all’anno. Il fine pena deve essere almeno di quattro-cinque anni, altrimenti che formazione vogliamo fare?! E non solo: cerchiamo di fare in modo che la persona che prendiamo sia un detenuto che può ottenere l’articolo 21, affinché, se la persona funziona, nel giro di un semestre o, al massimo, di un anno, possa accedere ai benefici, dato che, di sei detenuti che abbiamo in questo momento, tre escono per andare a fare giardini e terrazzi e fiere.

 

Loro sono soci della cooperativa?

Sì, sono soci della cooperativa. Facciamo una formazione sul campo retribuita, e dopo un periodo di prova, li assumiamo a tempo indeterminato, con il contratto delle cooperative sociali di tipo B.

Poi, ogni tanto, quando possiamo, facciamo un bando per delle borse lavoro del Comune di Milano, che sono però limitate ai soli detenuti residenti a Milano. Naturalmente, da questo punto di vista, gli stranieri sono discriminati. Il Comune ci dà l’agio di avere sei mesi di lavoro pagato dalla borsa lavoro, però, normalmente, a meno che uno in borsa lavoro faccia delle grosse cavolate oppure non abbia voglia di fare niente, lo assumiamo. Non è che viviamo di borse lavoro.

 

Nella vostra cooperativa lavorano tutti a tempo pieno?

Lavorano tutti a tempo pieno. C’è stato un caso di un part time di uno che andava a scuola il pomeriggio. Tenga conto che la scuola è una priorità a Bollate, per cui io assumo anche gente che va a scuola sapendo che faranno il part time. Il problema di risolvere in qualche modo questo gap – o attraverso l’assunzione di un altro detenuto che va a scuola e che fa il part time o spostando i lavoratori da una parte all’altra – è un problema mio, non del carcere. Non tenterei neppure di contrappormi a questa regola, in primo luogo perché credo fermamente che la scuola sia fondamentale, e poi perché questo carcere non lo accetterebbe.

 

Come organizzate i contatti con l’esterno?

Prima di tutto con le visite guidate aperte al pubblico: ne facciamo in primavera e in autunno, fissando una data e un orario e mandando le mail a una mailing list dove invitiamo a iscriversi alla visita mandandoci semplicemente il numero del documento d’identità, oltre a nome e cognome.. Vengono dalle 30 alle 50 persone alla volta a cui facciamo fare un piccolo giro nel quale io spiego un po’ il senso del carcere a custodia attenuata, poi li portiamo al vivaio dove ci comprano un sacco di piante. Tenga conto che quando c’è l’ora legale le visite si svolgono dopo le 18, il mercoledì o il giovedì sera fino alle 20.30/21.00 quindi c’è l’aperitivo e un po’ di buffet in serra con i detenuti “tirati a festa”. Una cosa mondanissima! E anche questo è un mezzo perché i detenuti si confrontino con l’esterno. È propedeutico di quel che sarà fuori. Noi abbiamo una ventina di volontari, tutti in articolo 17 che vengono di media mezza o una giornata alla settimana. L’età è “altuccia” visto che la gente normale fino a 60/65 anni lavora, ma abbiamo anche alcuni liberi professionisti di 35/40 anni più una ragazza di 30 che fa la paesaggista ed è stata la nostra prima assunta libera. C’è uno scambio con l’esterno fortissimo, ed è importantissimo perché così il detenuto fantastica meno e tiene un po’ più i piedi per terra, si abitua alla relazione con gente “normale”, con valori “normali”, con idee anche diverse. In un mondo così chiuso, così piegato su se stesso qual è il carcere, in realtà, rompere questa chiusura è importante soprattutto se non si perde mai di vista che l’obiettivo vero è il reinserimento. Il carcere deve essere una sorta di vaso comunicante con l’esterno. Il carcere deve vedere quello che c’è fuori e fuori si deve vedere quello che c’è in carcere. La gente cosiddetta normale deve capire che in carcere non c’è “l’idra a cinque teste”. Quando mi chiedono se in carcere “sono sicura”, io rispondo che lo sono più che fuori, e non solo perché ci sono gli agenti!

 

La distribuzione delle vostre piante è fatta attraverso il negozio interno?

Ma anche attraverso le fiere di giardinaggio che si fanno nella zona – non potremmo andare a Roma per esempio, perché non saprei dove mettere a dormire questi “sciagurati” – e poi abbiamo un punto vendita da “Cargo & High Tech” che è un negozio di arredamento molto grande e bello a Milano, in via Meucci 39. Facciamo terrazzi e giardini per privati, mentre non ci occupiamo di verde pubblico tranne per una cosa che abbiamo fatto, sempre con Cargo & High Tech,. Si è fatta un’operazione su Corso Como che è una strada dove di giorno c’è moda e design, mentre di notte c’è una gran “movida” con tutto quello che comporta, mettendo insieme una cordata di negozianti che hanno sponsorizzato le aiuole che noi abbiamo rea­lizzato. Il fatto che il vivaio di un carcere non faccia solo la rotonda sfigata, ma si occupi di una delle strade più trendy di Milano è importante per molti motivi, primo tra tutti la visibilità che in questo modo si dà al “carcere”, ai detenuti, alle condizioni di detenzione. Il livello del prodotto è alto, la professionalità è alta – e questo vale non solo per me ma anche per tutte le altre cooperative che lavorano a Bollate – perché la filosofia non è quella di fare il classico prodotto “da carcere”, per smuovere il senso di carità dei cittadini, ma di lavorare sulle professionalità. La nostra è un’attività a tutti gli effetti, e vale come tale, per cui siamo molto lontani dall’idea della “beneficenza”. Anche per i volontari il criterio di reclutamento si basa su questi parametri: persone appassionate di giardinaggio e che vogliano imparare. Non voglio gente che abbia come unica motivazione il voler “fare del bene”, ma gente che abbia voglia di imparare e di confrontarsi, visto che siamo in un carcere, con persone con cui normalmente non ci si confronta perché vite così diverse non si incrociano mai. Ci sono un sacco di enti che fanno beneficenza e quindi i volontari che vogliono solo far quello non devono rivolgersi a me!

 

Lei è la presidente della cooperativa?

Io sono la presidente, mentre il vicepresidente è Massimo Iacopetti, un giardiniere professionista molto bravo con cui ci dividiamo il lavoro. Lui si occupa principalmente di tutte la parti tecniche all’interno del vivaio, nelle quali io sono una vera bestia, mentre io, seguendo la parte che mi è più connaturale ed essendo anziana, vado a scocciare, brontolando, quelli che lavorano. Del resto sono anch’io tutti i giorni in vivaio, e, a parte gli scherzi, mi occupo di più di altre cose come lo stabilire la collezione, gestire i lavoratori – ogni 2 o 3 mesi facciamo una riunione collettiva – gestire i rapporti con l’istituzione. In queste riunioni ciascuno può dire la sua, ma lei sa che in carcere dire la propria può aprire delle “faide” che vanno avanti all’infinito, quindi è anche mio ruolo quello di “scardinare” questi meccanismi perversi – quello che mi dice che il suo compagno non lavora se io non ci sono e cose così – e improntare i rapporti sulla completa chiarezza, dove ci si abitui a far le critiche ai colleghi in modo diretto e trasparente. “La critica non è delazione” è il mio motto. Su questo, specie con i nuovi arrivati, c’è molto da combattere. In realtà tutta la parte della “relazione” viene molto (o il più possibile) curata, e di questo mi occupo fondamentalmente io.

 

Sprigionare gli affetti

 

Stare con i miei figli mi fa capire quante soddisfazioni ci sono nella vita oltre ai soldi

Una lettera che ci arriva da un detenuto della redazione, ora in affidamento ai Servizi sociali

Il ritorno a casa con una misura alternativa ti fa scoprire passo passo certe piccole cose che avevi dimenticato, o forse non avevi mai apprezzato abbastanza

 

Di Germano V.

 

Scusatemi se vi scrivo su una tovaglietta del bar, ma ho colto al volo l’attimo altrimenti, tra lavoro e pigrizia, non vi avrei mai scritto. Oggi invece a Roma è una giornata di pioggia, quindi il lavoro è poco ed ho il tempo per scrivere, è solo che non ho un block notes. Ho ricevuto posta e saluti da tutti i ragazzi e mi fa davvero molto piacere, ne approfitto anche per salutarvi tutti con molto affetto. Proverò magari, scrivendovi questa lettera, ad esternare qualche pensiero sperando che li possiate poi utilizzare, intanto vi racconto. Come sapete la mia carcerazione è stata divisa in due periodi e nella prima parte il mio pensiero rispetto alla situazione che vivevo era molto superficiale, mentre quando sono arrivato a Padova era diverso, era come se da lì si fosse iniziato a fare sul serio. Dopo il percorso che ho iniziato anche l’udienza per l’affidamento è stata diversa, non era come uno dei tanti tentativi che si provano a fare, magari con l’avvocato durante la custodia cautelare, dove la sensazione, nel caso di un esito positivo, è quella di averla fatta franca. Dopo il percorso che ho fatto, le riflessioni sulle mie responsabilità, è diverso e credo che sia così per molti.  So che rispetto a tanta altra gente detenuta che ho conosciuto, i miei tre anni di galera si possono definire pochi, però credo che mi abbiano fatto riflettere molto, e anche aiutato a capire qual è il percorso più giusto da seguire in carcere prima che fuori. Quando poi si inizia un percorso alternativo al carcere come l’affidamento, sembra come di aver raggiunto un obiettivo, un traguardo. Sono sicuro però che il rischio che si corre è di credere di avere finito, e invece non è affatto cosi. Io ritengo che sia giusto, e infatti cerco di farlo sempre, ricordare di aver commesso un rea­to per il quale sei stato e saresti potuto ancora essere in carcere, quindi anche nei momenti difficili bisogna dar valore al fatto di poter essere a casa e di aver anche ripreso a lavorare. I problemi tanto ci sarebbero stati comunque, solo che adesso si possono affrontare di persona, mentre prima doveva farlo tua moglie o la tua famiglia. Adesso è circa un mese e mezzo che sono uscito dal carcere, ho la possibilità da pochi giorni di uscire di casa alle sei di mattina per venire ad aprire il bar alle sei e mezza, poi continuo a lavorare fino alle otto di sera, dopodiché potrei rien­trare a casa alle dieci, purché io rimanga nel comune di Fiumicino. Praticamente per tutta la settimana vengo al bar al mattino e ci rimango fino a sera, senza mai spostarmi. Non ho mai lavorato così tante ore in vita mia e a volte dico che per farlo dovevo essere costretto. A parte gli scherzi, è uno stato di restrizione che può non pesare affatto se si è abituati da sempre a vivere in modo regolare, nel mio caso per il momento, e dico per il momento perché è poco più di un mese, sta servendo a farmi vivere più regolarmente, a uscire di casa solo per andare a lavorare e rientrare la sera. Rispetto al carcere ho sicuramente meno tempo per pensare, ma nei momenti in cui lo faccio il pensiero è sempre rivolto alla famiglia prima di tutto. Rifletto spesso su quanto in passato ho dato meno valore a ciò che ho, a quante volte ho risposto frettolosamente perché dovevo scappare o ero preso da altri interessi. Non dico di essermi trasformato, però su alcuni aspetti ci sto pensando molto, forse anche perché so che non serve commettere un reato per tornare in carcere a finire di scontare la pena, basta un piccolo errore, il mancato rispetto di una delle regole previste nel mio programma, e questo mi porta a rigare ancora più dritto, che poi per moltissima gente è la normalità. Mi rendo anche conto che forse è solo l’inizio, ma che rispetto a ciò che ho passato bisogna essere piuttosto certi di non voler più commettere certi sbagli. Trovandomi in questa situazione e dovendo rispettare certe regole, è come se mi si fosse aperta una finestra su un mondo diverso, e mi accorgo che nella vita c’è altro, che si può e si dovrebbe almeno provare ad andare oltre, che nonostante le difficoltà comunque vale la pena di provarci. Dico cosi perché in determinati contesti regna l’egoismo, l’ipocrisia soprattutto quando in ballo ci sono gli interessi e la libertà.

 

Un primitivo che guarda una posata di ferro o un bicchiere di vetro come una scoperta

 

Io adesso mi rendo conto del tempo passato lontano dai miei cari. Mi rendo conto di quante cose nella vita normale si fanno in un giorno, e che i miei figli tutte queste cose le hanno fatte da soli: i compiti, lo sport, la scuola, come se tutto fosse appunto normale e invece mancava a loro sempre il papà, una mancanza che è sicuramente più forte di quella che io ho provato per loro. Adesso che riesco a stare di nuovo con loro a volte anche tutto il giorno, mi rendo conto di quanto sia veramente deprimente durante una carcerazione dover vedere i propri figli in una sala colloqui, di quanto non serva assolutamente a mantenere i rapporti, è solo il minimo che non ti permette di migliorare quasi niente. Ora il rapporto con la mia famiglia è tornato alla normalità e i miei figli sono molto più sereni. Stare con loro mi fa capire quante altre soddisfazioni ci sono nella vita oltre ai soldi e quanto io sono importante per loro. La mia impressione dopo essere uscito, nonostante durante il percorso in carcere abbia usufruito di permessi premio, è di essere stato catapultato violentemente nel mondo di prima. Mi sono ritrovato definitivamente a casa, riprendendo pure a lavorare dopo alcuni anni. Però all’inizio la differenza è tanta e direi che è in meglio. Questo ti fa capire in che modo si vive dentro, quante piccole privazioni ci sono, quali accorgimenti devi prendere per far sì che la convivenza con un compagno di stanza sia tranquilla. Ad esempio il modo in cui si deve cucinare, con un fornelletto a gas nel bagno, tanti prodotti forse pure stupidi ma che quando puoi mangi con piacere, e invece in carcere non vedi mai, le posate e i bicchieri di plastica. Sono tutte cose queste del mangiare, delle posate o delle possibilità che si hanno dentro di vedere la famiglia, che se venissero migliorate non rendono certo un uomo libero, potrebbero solo migliorare la condizione di chi vive in carcere e aiutare a non estraniare troppo una persona dal mondo rea­le, a non renderla un essere primitivo che guarda una posata di ferro o un bicchiere di vetro come se fossero una scoperta.  Un’altra cosa di cui mi sono accorto uscendo è che le persone che incontri dopo tanto tempo rimangono più impressionate di te. Sembra come se dovessi raccontare chissà che cosa, come se fossi uno che torna reduce da qualche guerra. Quando poi racconti qualcosa la gente che ti ascolta rimane a bocca aperta, a dimostrazione che di carcere al di fuori delle mura ne sa pochissimo o niente la maggior parte delle persone. Io solo uscendo mi sono reso conto che è passato parecchio tempo, me ne sono accorto vedendo più che altro i figli di qualche amico o cliente molto cresciuti, oppure i negozi nuovi o quelli vecchi chiusi. Ti accorgi che il mondo fuori si muove, le cose cambiano, mentre dentro no, le giornate sono tutte uguali o quasi, e sembra come se venissi ibernato. Se trovi delle persone lungo il percorso in carcere con cui confrontarti, o hai qualcuno caro per cui vale la pena riflettere e provare a migliorare, forse dalla detenzione puoi ricavarne qualcosa di positivo, altrimenti c’è il rischio di uscire e avere la sensazione che dal giorno prima dell’arresto a oggi non sia successo niente, tutto è come prima, te per primo. Oggi come oggi non posso davvero lamentarmi, perché sono riuscito ad ottenere qualcosa, e già solo questo basta per ritenersi fortunati, visto che, al contrario di quanto si pensa, non è affatto scontato usufruire di misure alternative. L’unica cosa di cui mi piacerebbe lamentarmi, ma che so che non posso assolutamente fare, è con i carabinieri: sanno che esco alle sei di mattina e che rientro alle nove di sera, dopo una giornata di lavoro, e sanno che in casa ci sono due bambini piccoli, e però puntualmente effettuano i controlli alle quattro di mattina. Ma comunque anche nei momenti più difficili, è meglio ricordare dove si stava fino a poco tempo fa.

 

Io mia figlia non l’ho mai incontrata da sola

E ora che potrei farlo, ho paura di non riuscire a entrare con delicatezza nella sua vita, perché non sono mai stato una persona delicata

 

di Dritan Iberisha

 

L’estate scorsa mia figlia da pochi mesi aveva compiuto 18 anni. Un giorno al telefono mi ha chiesto improvvisamente: “Ma adesso papà io posso venire in carcere a trovarti da sola?”. Io sono rimasto un po’ così, poi le ho detto “No, no! Come da sola? Perché? No!”. E lei mi ha risposto “Come perché? Io ho diciotto anni adesso, quindi posso venire”. Io ho preso tempo, e le ho detto che ne avremmo riparlato dopo, perché non sapevo cosa dire. Ma la verità è che io dicevo “No, ne parliamo dopo”, perché ho avuto paura.  Ho avuto paura, perché io mia figlia non l’ho mai incontrata da sola, in tutta la sua vita. Era piccolissima quando mi hanno arrestato, così ho pensato “Ma come faccio a parlarle quando ci troveremo io e lei, uno di fronte all’altra, da soli dopo tutti questi anni?”. E questa è la mia grande paura. Quando manchi da tanti anni è difficile, io tra un po’ tornerò, finirò la pena, ma ho paura che tornando potrei rovinarle la vita; lei è abituata a vivere da sola con la madre, e con un padre in carcere da tanti anni, assente. Certo, loro dicono che mi vogliono bene, mi chiamano padre e marito. Ho nipoti e nipotine che non ho mai visto e che mi chiamano zio, ma io ogni volta che sento le parole padre, marito, zio, mi sento una persona inutile, perché non ho mai svolto concretamente né il ruolo di padre, né di marito, né di zio, e queste bellissime parole uno le deve meritare, e io cosa ho fatto per meritarmele? Niente, anzi ho lasciato la famiglia della vittima senza un figlio, mia figlia per 16 anni senza un padre, mia moglie senza marito.  Ecco perché io so che posso rovinare la vita di mia figlia, perché lei è cresciuta senza usare la parola “papà” e se la usava, la usava una volta alla settimana nella telefonata di 10 minuti, o nelle sale dei colloqui visivi ogni 5-6 mesi, perché le possibilità che loro avevano di venire a trovarmi erano queste. Adesso che esco mi devono conoscere ed abituarsi alla mia presenza di nuovo, io non lo so se l’idea che loro hanno di me corrisponde a quello che sono io, so che nutro la speranza di poter ricominciare una vita insieme nella stessa casa, ma ho anche molte paure. Ho paura di non riuscire a entrare con delicatezza nella loro vita perché non sono mai stato una persona delicata. Devo cercare di non avere fretta di recuperare il tempo perduto (ma come si fa a recuperare il tempo perduto? Secondo me è impossibile), ma devo allo stesso tempo cercare di essere loro utile per il futuro. Sono così orgoglioso di come è cresciuta mia figlia, di che donna sta diventando (e faccio anche fatica a pensare che adesso è una donna e non una bambina). Non smetto mai nella mia mente di pensare a ringraziare anche mia moglie, che per molti anni ha cresciuto mia figlia da sola. Se sono così orgoglioso per mia figlia lo debbo proprio a lei, che oltre a crescere “la mia bambina” ora donna, per molti anni mi ha seguito nelle numerose carceri dove sono stato, entrando ed uscendovi per fare i colloqui familiari con me, portandomi sempre mia figlia senza mai perdersi d’animo e senza un momento di cedimento (o almeno cercava di non farmi vedere i momenti di scoraggiamento per non farmi pesare la situazione…).  I colloqui con loro e il pensiero di avere comunque ancora una famiglia sono stati quello che mi ha tenuto in contatto con la vita anche nei momenti più duri, dove tutto mi sembrava buio e infinitamente faticoso. Ora si tratterà di rinsaldare questo forte legame, con pazienza soprattutto da parte mia, tenendomi bene a mente che il tempo passato “non torna più” e che bisogna sempre avere la forza di ricominciare comunque e ovunque.  Questi ultimi anni di carcerazione mi sono serviti per capire tante cose, per guardare il mondo in un’altra maniera, dico ultimi anni perché nei primi anni passati in carcere non ho fatto niente, se non combinare guai e andare avanti con la testa vuota, invece negli ultimi cinque anni, da quando faccio parte della redazione di Ristretti Orizzonti, la mia vita carceraria è cambiata (c’è voluto un po’, ma ha funzionato). Mi hanno aiutato tanto le discussioni che ogni pomeriggio dal lunedì al venerdì intorno a un tavolo noi detenuti facciamo, i preziosi e faticosi incontri scuole/carcere che le primissime volte consideravo quasi inutili, e così ho fatto un mio bel pezzo di strada, durato anni qui in redazione, e che continuerà ancora per qualche anno. Certo è stata anche l’occasione per incontrare persone “civili” libere, che mi hanno, anche solo per attimi, fatto vedere l’esistenza di un altro mondo che non fosse solo carcere e prepotenza.

 

Quando un amico ti chiama dal Portogallo

La cosa è interessante perché quell’amico è in carcere, e può telefonare liberamente  ai fissi e ai cellulari, agli amici, ai parenti, a tutti

 

di Antonio Floris

 

Durante l’ultimo permesso un giorno mi è squillato il telefonino. Alla parola “pronto….” ha risposto una voce che diceva “sono Paolo”. “Paolo chi? “ ho chiesto io. “Paolo il portoghese”. Paolo il portoghese è tale Paolo Vicente Barata, detenuto fino al mese di ottobre scorso qui, nel carcere Due Palazzi di Padova e poi trasferito in Portogallo per finire di scontare il residuo della pena nel suo Paese di origine. Con questo Paolo siamo stati in cella assieme per quasi due anni, durante i quali è capitato spesso di fare delle considerazioni su come si vive nelle carceri degli altri stati e sulle differenze che ci potevano essere tra le carceri italiane e le altre dell’Unione Europea, e del Portogallo in particolare. A sentire lui tra le tante differenze tra le carceri del Portogallo e quelle dell’Italia c’era quella che da lì un detenuto può telefonare quando vuole e a chi vuole, per di più senza limiti di tempo. La cosa a sentirla dire così mi pareva inverosimile, in quanto qui in Italia il sistema delle telefonate è molto, molto diverso.  Per chi non lo sapesse nelle carceri italiane le telefonate funzionano in questa maniera:  se uno è condannato per reati particolarmente gravi, tipo associazione di stampo mafioso, riduzione in schiavitù ecc. (i cosiddetti reati ostativi indicati nell’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario) può fare solo due telefonate al mese per la durata di dieci minuti ciascuna. Tali telefonate possono essere fatte solo su apparecchi fissi intestati a familiari stretti. In casi particolari la telefonata può essere autorizzata anche su apparecchi mobili. Inoltre le telefonate sono sempre ascoltate e registrate. Se uno invece è condannato per reati cosiddetti comuni, il numero delle telefonate è di una a settimana, sempre per la durata di 10 minuti, sempre su apparecchio fisso intestato a familiari stretti (con rare eccezioni sui cellulari) e anche in tal caso esse sono ascoltate e registrate.  Quando Paolo Barata stava ancora qui in Italia, io già cominciavo ad uscire in permesso e durante i permessi è consentito telefonare dove uno vuole, anche facendo uso del telefonino. Lui sapendo che io avevo un telefonino e sapendo anche che da un giorno all’altro poteva essere trasferito in Portogallo, mi chiese il numero dicendo che una volta arrivato lì mi avrebbe telefonato (naturalmente nei giorni nei quali io ero fuori in permesso). Così successe che dopo arrivato in Portogallo mi scrisse per farmi avere sue notizie. Io gli risposi e tra le altre cose gli dissi anche in quali giorni sarei stato fuori in permesso. Così è successo che ho ricevuto la sua telefonata. Sentendo la sua voce al telefono la prima cosa che mi è venuta in mente di dire è stata: “Quando sei uscito?”. La risposta è stata che non era affatto uscito e che la telefonata la stava facendo dal carcere di Lisbona, visto che da lì poteva telefonare tutti i giorni e a chi voleva. Una cosa questa in Italia, almeno per il momento, inconcepibile.  La domanda che viene da farsi allora è questa: se in Portogallo, e non solo in Portogallo ma in tanti altri stati d’Europa, le telefonate sono libere perché in Italia non lo devono essere? Perché il tutto si riduce a un massimo di 10 minuti a settimana?  La motivazione principale di tale restrizione starebbe nel fatto che il telefono può essere usato anche al fine di commettere dei reati, trasmettendo dei messaggi a qualche ipotetico complice che vive fuori libero. Ma che genere di reati potrebbe commettere uno per telefono? Tutti i detenuti, anche i più sprovveduti, sanno bene che le telefonate sono ascoltate e registrate e sapendo che è così chi sarebbe così ingenuo da rischiare di dire per telefono cose illecite? Tantissime persone sono finite in carcere proprio a causa di intercettazioni telefoniche e quindi bisognerebbe essere dei folli per ricadere ancora negli stessi errori. Poi, ammesso e non concesso che uno sia davvero così folle, sarebbe semplicissimo per coloro che ascoltano (la Polizia Penitenziaria) informare tempestivamente le Procure e prevenire la commissione dei reati.

 

Ci sono tanti buoni motivi per liberalizzare le telefonate

 

A veder bene, i motivi della limitazione delle telefonate a soli 10 minuti a settimana non sono tanto validi. Ci sono invece tanti buoni motivi per liberalizzarle. Ora come ora nelle telefonate che durano appena dieci minuti malamente si riesce a salutare e a chiedere come stai che il tempo è già passato e per poter ritelefonare bisogna aspettare un’altra settimana, o in certi casi 15 giorni. C’è poi da tenere in conto il particolare che tanti detenuti non fanno mai colloqui visivi (vedi il caso di tantissimi stranieri) oppure ne fanno pochissimi, perché magari le loro famiglie vivono in posti lontani centinaia di chilometri dal carcere e hanno pochi mezzi economici. Questi detenuti si trovano penalizzati rispetto agli altri che fanno i colloqui tutte le settimane. Se loro non possono tenere i contatti con i loro familiari attraverso i colloqui, si dovrebbe sopperire a questa carenza almeno permettendo loro di telefonare con frequenza maggiore di una volta a settimana e oltre il limite dei 10 minuti. Le telefonate tra l’altro sono a carico di chi le fa e quindi a costo zero per l’amministrazione. Chi non è stato mai in carcere non può capire quanto importante possa essere una telefonata in certi casi. Quando uno ad esempio è abbattuto o depresso per una infinità di ragioni, o perché quel giorno non ha fatto colloquio e non sa cosa può essere successo, o perché magari aspettava qualche lettera che poi non è arrivata, o peggio ancora perché sa che a casa sua qualcuno sta male e non ha notizie, una semplice telefonata e il sentire una voce amica dall’altro capo della linea lo può aiutare e non poco a superare quel momento difficile.  Tanti disgraziati che si sono suicidati forse non lo avrebbero nea­nche fatto se nel momento così buio nel quale hanno compiuto l’atto estremo che li ha portati al suicidio avessero avuto la possibilità solo di alzare la cornetta e sentire dall’altro capo una voce amica che diceva parole di conforto.  Un’altra cosa che non viene presa per niente in considerazione è che si pensa che le telefonate riguardino solo il detenuto senza pensare mai ai suoi familiari. I familiari che non hanno nessuna colpa devono soffrire pure loro di queste restrizioni. A un bambino non può che fare un gran bene il sentire la voce del padre detenuto o della madre detenuta, due, tre volte la settimana o magari anche tutti i giorni. Così come può far bene a una madre sentire la voce del figlio o a una moglie sentire la voce del marito. È l’Ordinamento stesso alla fine che raccomanda che una particolare cura deve essere dedicata al mantenimento e al rafforzamento dei legami familiari.  Se tutto ciò avviene nella maggior parte degli stati dell’Europa, perché in Italia no?

   

Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere

 

Studenti indisciplinati diventano“socialmente utili

Un progetto per trasformare la sospensione dalle lezioni per motivi disciplinari in un’attività che il ragazzo sospeso deve svolgere in una associazione di volontariato

 

Quando si chiede a un detenuto se ritiene la sua pena giusta, la risposta è più o meno sempre la stessa: il vero problema non sono gli anni di galera, ma come uno li sconta, che senso riesce a dare alla sua pena, se vive la carcerazione riuscendo a trovare qualcosa di utile nelle sue giornate. Di recente sui giornali si è parlato di un progetto, messo a punto dal Centro di Servizio per il volontariato insieme all’Ufficio scolastico provinciale e alla Provincia di Padova, che prevede tra l’altro di trasformare la sospensione dalle lezioni per motivi disciplinari in un’attività che il ragazzo sospeso deve svolgere in una associazione di volontariato.  I detenuti ne hanno discusso con la sensazione che quella “pena” abbia davvero più senso della pura punizione, così come per tanti reati non gravissimi avrebbe più senso, anche per gli adulti, usare di più i lavori socialmente utili o altre modalità per “mettere alla prova” l’autore di reato invece di cacciarlo semplicemente in carcere. Un modo, tra l’altro, per far capire a ragazzi, ma anche ad adulti che con i loro comportamenti non hanno saputo rispettare gli altri, che lavorare gratuitamente in ambito sociale insegna a pensare un po’ meno a se stessi, a confrontarsi anche con la sofferenza e ad appassionarsi a un mondo, quello del volontariato, che ti può davvero rendere la vita meno noiosa. Quelle che seguono sono alcune riflessioni di persone detenute che hanno provato a immedesimarsi nella condizione di studenti che hanno trasgredito alle regole.

 

Scuola e pena

 

di Qamar e Miguel

 

Qualche giorno fa, scorrendo le pagine di un quotidiano locale, ci siamo imbattuti in un articolo che ha attirato la nostra attenzione e che ci ha spinti a riflettere su un tema che riguarda la disciplina nelle scuole e le punizioni che vengono adottate per gli studenti che non la rispettano. L’articolo parlava della possibilità di applicare agli studenti, puniti con una sanzione disciplinare per comportamento scorretto, un nuovo tipo di “pena” diverso dalla sospensione, che oltre a punire svolgesse anche una funzione educativa. Insomma la stessa funzione che in base all’articolo 27 della Costituzione dovrebbero svolgere gli istituti penitenziari di questo Paese.  Noi, che sappiamo cosa vuol dire essere puniti pesantemente con tanti anni di carcere, ci poniamo una domanda: è sempre giusto punire in maniera dura? Secondo noi certi comportamenti più che puniti andrebbero analizzati caso per caso, i ragazzi invece di essere esclusi dalla scuola andrebbero stimolati a seguire le lezioni, responsabilizzati, posti di fronte a delle situazioni che li facciano riflettere, che li rendano consapevoli che all’interno di una comunità bisogna imparare a rispettare gli altri. Punire, senza riuscire a dare un senso alla punizione, non educa e tantomeno rieduca. Se partiamo proprio da quella che è stata la nostra esperienza, ci sembra che il volontariato sarebbe la miglior soluzione per i giovani, così loro possono rieducarsi, e possono rendersi conto dei loro sbagli. Noi siamo venuti in Italia che eravamo ancora giovanissimi, e nel nostro percorso scolastico qui nel vostro Paese abbiamo avuto anche noi una sospensione, ma in quegli anni non c’era l’attività di volontariato, ci mandavano a casa senza rendersi conto che lì, da soli perché i nostri genitori lavoravano, potevamo fare quello che volevamo. Vedendo le attività di volontariato nelle quali possono impegnarsi ora gli studenti ne ricaviamo una buona impressione, così ci sembra che i ragazzi possano capire la loro responssabilità. Quanto alla nostra esperienza carceraria, per noi che siamo entrati in giovane età in carcere, quello che abbiamo capito è che non sempre punire con la galera è una soluzione sensata, perché le carceri italiane sono sovraffollate, e in questa situazione nessuno ti dà la possibilità di rieducarti, di cambiare, di imparare qualcosa, di crescere davvero.

 

Come evitare che il carcere diventi un trampolino di lancio per vivere nell’illegalità

 

di Luigi Guida

 

Io, che sono stato fin da ragazzo “un soggetto difficile”, mi sono subito incuriosito alla notizia che in alcune scuole di Padova si sta adottando un criterio diverso di punizione per i soggetti più indisciplinati, tramutando la classica sospensione dalla scuola in lavori di volontariato, lavori “socialmente utili”. Si è rovesciato il criterio con cui trattare i ragazzi, un po’ come dovrebbe succedere, secondo la Costituzione, anche in carcere: da punitivo a rieducativo. Facendo una riflessione sulla mia esperienza personale credo che un provvedimento del genere sia più utile per rieducare un ragazzo, che magari durante il giorno lavora o va a scuola e nel tempo libero deve dedicarsi al volontariato, riflettendo così sicuramente sui comportamenti che lo hanno portato a non poter trascorrere quel tempo con i suoi amici. Credo invece che l’allontanamento per alcuni giorni dalla scuola possa diventare per lo studente addirittura un “premio”, come accadeva con me quando venivo sospeso, e passavo le intere giornate a non fare nulla, o giocando al computer. Il risultato era quello di non aver speso nemmeno un minuto di quel tempo a riflettere sul perché fossi stato allontanato dalla scuola, senza peraltro neppure rendermi conto di non aver elaborato il senso della punizione ricevuta.Ho vissuto la mia prima esperienza con il carcere minorile per un piccolo reato proprio mentre ero al secondo anno di liceo, penso che se invece di chiudermi in carcere mi avessero fatto svolgere un lavoro di pubblica utilità non avrei abbandonato gli studi, e forse non sarei diventato una persona peggiore di quella che ero prima di varcare la soglia del carcere minorile. Dico questo perché quel tipo di esperienza per un minore, che quasi sempre è poco cosciente dei suoi errori, non lo renderà una persona migliore, anzi io sono uscito con una carica di aggressività che non avevo mai avuto prima, senza trovare più nessuna motivazione per continuare a studiare, e così mi sono allontanato dall’ambiente scolastico e mi sono rifugiato in quello dell’illegalità, che si era radicato in me dopo quell’esperienza. Noi, all’interno della redazione, molto spesso ci confrontiamo su questi temi, sul senso della pena e su come abbiamo vissuto la carcerazione, soprattutto quelli di noi che hanno cominciato a entrare in carcere da ragazzi. Agli studenti che partecipano al progetto di confronto fra la scuola e il carcere cerchiamo di spiegare che la pena non dovrebbe essere semplicemente punitiva, ma dovrebbe tendere a far riflettere sugli errori che hanno portato a commettere il rea­to, e il carcere non deve essere il primo rimedio, ma l’ultimo, almeno per quelle persone che fanno piccoli reati e in particolar modo per i ragazzi minorenni. Se si permettesse loro di svolgere lavori di pubblica utilità, si riuscirebbe forse ad evitare che l’esperienza carceraria diventi un trampolino di lancio per vivere nell’illegalità, come è avvenuto per me.

 

 

La soluzione comunque non è mai La Punizione Che Incattivisce

 

di Alan Canzian

 

Ogni giorno, sfogliando i quotidiani, noi qui dal carcere non possiamo non guardare con ansia al problema dei ragazzi che incominciano a violare le regole in una età giovanissima. È per questo che organizziamo un progetto che ha come scopo principale quello di parlare con gli studenti. È un progetto importante non solo per i giovani, ma anche per noi, che ci apriamo a loro parlando del perché uno finisca in carcere, e non è facile tirare fuori quei momenti del nostro passato che più ci fanno male, però noi siamo convinti che ai ragazzi i nostri racconti portino il beneficio di vedere concretamente le conseguenze di certi comportamenti a rischio. Noi prima di essere detenuti siamo padri e facciamo non poca fatica a metterci davanti a loro e a portare la nostra testimonianza. Appena arrivano con le loro classi sono molto spaesati, non è facile entrare in un posto come questo: allora cerchiamo di metterli a loro agio, piano piano incominciano a farci qualche domanda, lì vedi che vogliono capire anche ascoltando le nostre storie poco felici, e in qualche modo si sentono un po’ partecipi, perché fuori forse hanno un amico che magari ha usato della droga, o per mostrarsi forte davanti a una ragazza ha tirato fuori un coltellino. Un ragazzo davvero non dovrebbe conoscere il carcere al primo reato che fa, così come non dovrebbe essere punito troppo duramente se a scuola non rispetta le regole, le istituzioni dovrebbero cercare di aiutarlo nel modo più costruttivo possibile: per esempio se per caso ha danneggiato delle cose, la miglior punizione è che in qualche modo ripari i danni prodotti, aiutato da una associazione di volontariato, così che la sua “pena” si trasformi in qualcosa di utile per la società. Molte associazioni hanno preso a cuore questo problema e già ci sono i primi sviluppi, speriamo che in futuro tutte le scuole adottino il metodo dei lavori di pubblica utilità. Noi dal carcere cerchiamo di far capire che la soluzione comunque non è mai la punizione che incattivisce e basta, e lo facciamo portando agli studenti la nostra esperienza.

 

 

 

Ma come faccio a raccontare un gesto così tragico ed incredibile?

Eppure è possibile mettere a disposizione dei ragazzi delle scuole la propria esperienza, anche la più tragica, non per cercare giustificazioni, ma per aiutarli a capire

 

di Ulderico Galassini

 

Ristretti Orizzonti l’ho conosciuto in modo superficiale attraverso la rivista che arrivava nella Casa Circondariale di Rovigo, ma solo perché mi occupavo del ritiro di alcuni giornali che mi venivano consegnati in quanto responsabile della biblioteca. Poi sono stato trasferito qui a Padova e dopo quattro mesi sono stato inserito nella redazione. Pensavo di occuparmi di scrivere alcuni articoli per la rivista come già facevo sempre a Rovigo per “Prospettiva Esse”. La grande sorpresa e soddisfazione l’ho avuta quando ho visto tanti giovani entrare in contatto con noi. Ho ascoltato, ho scrutato i volti, cercato di analizzare e capire le reazioni dei ragazzi, dei loro insegnanti ma anche dei detenuti che raccontavano il peggio della loro vita e rispondevano ad ogni tipo di domanda che gli studenti ponevano. Vedevo il mutare delle espressioni del viso di chi raccontava, i ritmi e toni di voce, gli sguardi spesso verso il basso, l’abitudine di cincischiare con qualcosa tra le mani per smorzare le tensioni, il silenzio di chi ascoltava, rispettando la dignità della persona e cercando forse di cogliere i punti critici che hanno portato a commettere un reato e ad essere privati della libertà. Anche i ragazzi mostravano le loro emozioni, a volte esprimevano imbarazzo nel porre le domande, forse per non ferire ulteriormente la persona che stava portando la sua testimonianza e che magari raccontando riproponeva mentalmente il “film” del suo incubo, del male fatto, non solo a se stesso, ma anche alla propria vittima e ad entrambe le famiglie coinvolte. Quante domande mi sono posto, quante volte, alla fine degli incontri con i ragazzi, mi dicevo: “Domani ci provo anch’io!”. Ma come faccio a raccontare un gesto così tragico ed incredibile? Come reagiranno al mio intervento? Ma perché devono credere o ascoltare una storia tanto incomprensibile anche per me stesso? E tante altre domande, dubbi, paure e tensione. Un duello con me stesso. Il giorno dopo tornavo giù, ma non mi esponevo con Ornella, né lei mi forzava; appena i ragazzi si sedevano c’era la gola che si chiudeva e mi sembrava di avere davanti mio figlio, e questo mi impediva di proferire parola.  Ci sono voluti alcuni mesi e tante altre riflessioni personali. Ad un certo punto mi sono chiesto: “Ma se fosse mio figlio a pormi alcune domande e volesse capire cosa ha determinato in me quell’esplosione, sino ad arrivare ad un imprevedibile gesto che avrebbe potuto decimare l’intera famiglia, cosa gli direi? E se questo servisse a lui per riconoscere i limiti che io ho superato e imparare a fermarsi prima?”. Forse questo ha rimescolato tante cose nel mio atteggiamento e messo in moto una più approfondita ricerca di quali, secondo me, potessero essere state le molle che hanno scatenato quel mio gesto tragico, l’aggressione a mia moglie, a mio figlio, a me stesso, dopo una vita senza mai un gesto o una parola violenta. Certo che subito dopo il mio risveglio dalla sala di rianimazione non ho fatto altro che rivedere i momenti del passato e cogliere quello che forse ha spento il mio cervello, l’ha staccato da quella che era stata una lunga vita con la mia famiglia. Quante volte sul mio diario personale ho trascritto emozioni, dolore, amarezza, sconfitta, delusione, paure, ma mai certezze sul perché l’uomo possa arrivare a tanto, ad azioni mostruose: una macchina fuori dagli schemi, un automa incontrollabile. Ecco che allora una mattina ho trovato quella spinta in più che mi ha permesso di mettermi a disposizione dei ragazzi.

 

Nessuno di noi si racconta per chiedere pietà

 

Noi certo non raccontiamo semplicemente i fatti accaduti come fanno i giornali e le TV, ma ripercorriamo la nostra vita di prima del reato, non per cercare giustificazioni, ma solo per far emergere quelli che molto probabilmente sono stati i momenti in cui abbiamo superato i limiti della legalità e posto in atto qualcosa di mostruoso. Se solo chi ti ascolta potesse essere spinto così a riflettere, facendo di questa esperienza un “tesoro”, un archivio di prevenzione e attenzione al quale ricorrere, per evitare di cadere nelle nostre stesse situazioni di oggi, questo mi farebbe sentire bene, mi ripagherebbe della grande difficoltà che incontro nel riportare a galla il mio dramma, che è anche quello di mio figlio, principalmente di mia moglie e di tutti quelli che sono collegati al mio gesto terribile. Con questo progetto poi i ragazzi hanno la possibilità di conoscere anche il carcere nelle sue molteplici sfaccettature, invece di affidarsi in modo acritico all’informazione dei media che spesso distorce, non conosce, non usa terminologie appropriate, vuoi per la superficialità con cui affronta questi temi, vuoi per esigenze commerciali, perché “tirano” di più le storie raccontate calcando la mano ed esagerando i toni. Con questo non vogliamo insegnare ai ragazzi che la pena non deve esserci, ma che deve essere usata per ricomporre quel patto con la società, che con il reato è stato spezzato. Oggi però la pena e il luogo dove viene scontata non sono più in grado di assolvere al loro compito, il carcere è un luogo dove non si rispetta la Costituzione e l’Ordinamento penitenziario ed è la stessa Comunità Europea che ci sollecita un ritorno alla legalità, arrivando anche a considerare il trattamento dei detenuti una “tortura”. Nessuno di noi si racconta per chiedere pietà, né vuole giustificarsi, ma cerca di insegnare a fermarsi prima di arrivare a scivolare in comportamenti illegali e a finire per non sentirsi più persone.  I detenuti poi vorrebbero che fosse concesso loro di sentirsi utili, responsabili, di percepire nella loro carcerazione un po’ di autonomia e considerazione e non sentirsi solo animali da osservare. Può un animale tenuto sempre in gabbia o a catena essere docile o è più facile che una volta slegato inizi ad azzannare il primo che trova sulla sua strada? Non pretendiamo neppure che i ragazzi cambino la loro idea sulle pene e sul carcere, ma che almeno abbiano avuto la possibilità di confrontarsi, entrando nel carcere, che sempre più spesso è posto in un luogo isolato, il meno visibile possibile.  Noi della redazione vorremmo che anche negli altri luoghi di detenzione fossero attuati progetti come il nostro, un modo civile di far incontrare due realtà come quelle della scuola e del carcere, ed ampliare la conoscenza di un luogo dove prima di entrarvi molti hanno pensato: “A me non capiterà mai!”.  Certo che queste nostre realtà esistono perché ci sono dei volontari che credono in un progetto ed hanno trovato la disponibilità anche di una Direzione che ha capito che è necessario far dialogare “I buoni con i cattivi”. Anche quando frequentavo le elementari si scrivevano sulla lavagna i nomi di chi era stato bravo e chi no; cerchiamo allora di lavorare per far aumentare la colonna dei buoni, o perché non sia più necessario dividere il mondo in buoni e cattivi.

 

 

Ma com’è una giornata in carcere?

È la domanda apparentemente più semplice, questa, in realtà è la più complicata: perché non c’è niente da raccontare, e perché  è difficile dare un senso alla noia e alla ripetitività della galera

 

In ogni incontro con le scuole,  c’è sempre uno studente che chiede: “ma com’è la giornata in carcere?”, e paradossalmente le persone detenute, che magari hanno già risposto a domande difficili, che andavano a scavare nella loro vita, invece di tirare un sospiro di sollievo per una domanda così, facile facile, si ritrovano imbarazzati e a non saper rispondere. È la domanda apparentemente più semplice, questa, in realtà è la più complicata: perché non c’è niente da raccontare in una ordinaria giornata di carcere, e perché è difficile dare un senso alla noia e alla ripetitività della galera, e ancora perché una vita senza la possibilità di decidere nulla non è una vita che si possa narrare.

 

 

Un’ordinaria giornata di carcere “poco rieducativo”

Un carcere dove sono diventato una persona peggiore di quando vi sono entrato

di Luigi Guida

 

Sono Luigi, ho trent’anni.

Le mie esperienze con il carcere sono partite quando avevo l’età di sedici anni, già nelle carceri minorili, per ritrovarmi oggi all’età di trenta ad aver fatto fuori e dentro dal carcere come se fosse diventata la cosa più normale di questo mondo, ma soprattutto senza aver mai riflettuto sulla gravità dei miei errori. E così ho collezionato un lungo fine pena, accumulando dal mio primo reato ad oggi oltre venti anni di carcere, per essere diventato per un buon periodo una persona peggiore di come ero entrato. In molti istituti addirittura, nonostante avessi poco più di vent’anni, mi è stato detto da parte degli operatori che ormai ero una persona irrecuperabile, invece io penso che siano stati gli stessi anni passati in carcere a farmi diventare come loro mi hanno definito.  Gli ultimi cinque anni li ho trascorsi tra il carcere di Genova Marassi e Lanciano, devo dire che, nonostante fossimo chiusi per ventidue ore al giorno, il carcere riservava molte attività per il recupero del condannato: come cultura la TV, come sport giocare a carte, o fare qualche flessione chiuso in bagno, perché essendo in otto in cella era l’unico posto dove evitare il fumo delle sigarette, e come corsi di formazione e rieducazione c’era la possibilità di incontrare altri detenuti nel passeggio dell’istituto nell’ora d’aria, questo sì che è il trattamento previsto dalla nostra Costituzione, voluto dai nostri padri costituenti per fare diventare una persona migliore di come è entrata in galera! Le giornate che ho trascorso in carcere negli ultimi anni erano tutte più o meno così:

Ore 7:00 come sveglia c’è un gentile poliziotto che viene ad aprire il blindo, ci si alza tutti e otto per fare la fila per andare in bagno.

Ore 8:00 lo stesso agente che aveva aperto il blindo, accompagnato da altri colleghi, viene a contarti e a fare la battitura delle sbarre alle finestre, da cui fuoriescono dei rumori assordanti. Subito dopo passa il carrello del caffè e del latte, un liquido bianco spesso allungato con l’acqua per far sì che ce ne sia un po’ in più nei bicchieri, e i detenuti non si lamentino per la poca quantità che altrimenti gli spetterebbe.

Ore 9:00 arriva il primo appuntamento “formativo” della giornata, si scende a fare l’ora d’aria, tre sezioni con celle da otto, tutti ammucchiati in una vasca di cemento con alle estremità pezzi di ferri a punta per evitare che ci salti sopra. Lì si apprendono le novità del carcere, chi entra, chi esce, tra le discussioni più gettonate c’è quella di riuscire con uno scambio di idee a trovare il modo di diventare più furbi per non entrare più in un posto così orribile, ma non perché si pensa di voler ritornare a vivere nella legalità, viceversa perché ci si illude che alla prossima saremo più furbi nel non farci beccare, aspettando e sognando quel colpo che sistemi per sempre la tua vita, senza accorgerti che questi tipi di ragionamenti ormai la vita te la stanno sottraendo.

Ore 10:30 si ritorna in cella e si riprende il resto delle attività culturali, guardare la TV. Tra i programmi più gettonati tra noi giovani c’è Uomini e donne o Grande fratello, dove il confronto tra noi è di altissimo livello culturale, comprende lunghi apprezzamenti sull’aspetto fisico dei personaggi e tante volte si conclude ricordando qualche esperienza personale avuta con ragazze, magari che avevano una vaga somiglianza con la ragazza in TV.

Ore 11:30 si mangia, ripassa il carrello del vitto, oggi come ieri e per tutto l’anno ci sarà un menù stabilito, che come primo offre pasta spesso scotta e poco condita, di secondo quando sei fortunato c’è la carne che non sarà mai del peso che ti spetta, stabilito da una tabella ministeriale, e sarà piena di grasso e di qualità scadente, a tal punto che quando la mangi sembra di masticare un chewingum. Vorresti protestare, ma ti accorgi che è inutile farlo perché, se lo fai, ti ritrovi con un rapporto disciplinare e in isolamento, per accorgerti che al tuo rientro in sezione non è cambiato nulla se non il fatto che tu hai perso quarantacinque giorni di liberazione anticipata dal tuo fine pena. Tra il confort che trovi in questi luoghi, tante volte ti può capitare che lo stesso pranzo verrà consumato con persone che in mancanza di sgabelli sono costrette ad usare il letto per sedersi.

Ore 13:00 un nuovo appuntamento formativo, si ritorna tutti all’aria, ovviamente i temi che si affrontano sono sempre gli stessi, possono al limite cambiare gli interpreti della discussione. La conseguenza di questo tipo di socializzazione ti porterà minimo due volte alla settimana a partecipare a delle risse nei passeggi, dove quasi sempre le motivazioni che portano a gesti del genere sono futili, conseguenza di una rabbia repressa, accumulata all’interno delle persone che subiscono questo tipo di trattamento, la classica guerra tra poveri, che invece di riunire insieme le loro forze e combattere un sistema che non funziona, magari con una penna per raccontarlo, finiscono per scontrarsi con altri detenuti che come loro subiscono lo stesso trattamento.

Ore 14:30 Si ritorna in cella, si abbandonano i vestiti del giorno per rimettersi la gloriosa tuta che in questi posti è di una comodità unica. Si inizia a dar vita a lunghissime partite a carte intorno ad un tavolo, dove per far diventare meno noiosa la partita ci si aggiunge una scommessa, che prevede che chi perde lavi i piatti dove ceniamo… dopo pochi minuti verrà interrotta da una nuova conta fatta dall’agente, che ci fa capire che da lì a breve passerà il vitto, perché coincidono gli orari delle due attività.

Ore 17:00 Passa il carrello della cena, di solito come primo ci sono avanzi di verdura bollita chiamati minestra, per secondo quasi sempre uno tra questi alimenti che meritano poco lavoro, formaggio, uova sode, wurstel, la domenica ti perdi anche il piacere della minestra perchè il vitto di sera non passa, ti sarà consegnato all’orario di pranzo, uno tra i tre alimenti sopra indicati da doverti gestire da solo fino alla sera.

Ore 19:30 L’ora più attesa dalla maggior parte della popolazione detenuta, l’ora degli psicofarmaci, lì sì che c’è l’imbarazzo della scelta, l’amministrazione non bada a spese, purché la persona dorma e non dia fastidio. Questo tipo di trattamento non permette così ai detenuti di avere la giusta lucidità per combattere la violazione dei loro diritti, anche quelli più elementari, ecco allora che le amministrazioni ottengono l’obiettivo di tirare a campare in attesa che qualcosa cambi.

Ore 20:00 Una voce nel silenzio della sezione annuncia un’altra conta ed è la quarta dall’inizio della giornata.

Ore 21:00 Nelle celle si spengono le luci e si inizia a lottare con i propri pensieri per dormire, sarà forse a causa delle troppe attività culturali e rieducative che abbiamo svolto durante la giornata se non siamo abbastanza stanchi da fare un bel sonno profondo?

Non è che per caso il fatto che tante persone che sono state in carcere ricommettono reati è quasi sempre la conseguenza di avere sperimentato solo questo tipo di trattamento penitenziario?-

 

 

Un’ordinaria giornata di carcere almeno un po’ rieducativo

Un carcere dove invece cerco di diventare  una persona migliore di quando vi sono entrato

 

di Luigi Guida

 

Ho descritto in precedenza gli aspetti negativi delle esperienze che ho avuto in lunghi anni di carcerazione ed ho evidenziato come quel tipo di trattamento non faccia altro che rendere un detenuto peggiore di come è entrato, con la conseguenza che quasi sicuramente una volta fuori, dopo aver scontato la sua pena, ritornerà a vivere nell’illegalità, come è successo spesso a me in passato. Ora voglio provare a sottolineare la diversità che c’è tra quella realtà e quella che ho trovato nella Casa di reclusione di Padova, dove da un anno e mezzo, se pure con fatica, mi è stata data la possibilità di iniziare quel percorso di rieducazione che qualsiasi carcere dovrebbe predisporre nei confronti dei detenuti, ma che è sempre più difficile trovare.

Ore 7:00 Inizia l’apertura da parte degli agenti del blindo che ti fa capire che da li a poco ti faranno uscire per partecipare a qualche attività, che nel mio caso è quella con “Ristretti Orizzonti”, dove tra le tante iniziative e progetti ho anche la possibilità di scrivere questo tipo di articoli.

Ore 8:30 Dopo aver fatto la colazione si scende giù in redazione, dove inizia la mia giornata formativa (altri detenuti vanno a lavorare o vanno a scuola, purtroppo per il sovraffollamento una buona metà degli 830 detenuti presenti non è impegnata in nulla). Fra le molte attività ci sono gli incontri con gli studenti, un progetto che permette ai ragazzi di conoscere la realtà del carcere e le persone che ci vivono all’interno, e permette a noi di raccontarci con mille difficoltà, ma proprio questo continuo confrontarsi raccontando le proprie esperienze negative ci permette in molti casi di elaborarle e cambiare idea su molti aspetti della nostra vita passata.

Ore 11:30 Si ritorna in sezione, dove viene distribuito il mangiare dell’amministrazione, che anche qui non sarà mai della quantità prevista dalla tabella ministeriale, ma almeno la qualità sembra migliore di quella degli altri istituti che ho citato in precedenza.

Ore13:00 Si ritorna in redazione, dove tutti i detenuti intorno ad un tavolo confrontano le proprie idee e discutono di vari argomenti da trattare, tra essi si trova anche lo spunto per scrivere articoli che verranno poi inseriti nella nostra rivista o pubblicati sul quotidiano Il Mattino di Padova.

Ore 15:30 Si ritorna in sezione, dove le celle sono aperte, io in attesa della cena vado a fare un po’ di attività fisica all’aria, che è prevista per chi va a scuola.

Ore17:00 Dopo aver fatto la doccia si inizia a cenare, ma quasi sempre sei obbligato a cucinare qualcosa sul fornelletto da campeggio, altrimenti il carrello del vitto dell’amministrazione non basta, perchè anche qui si adotta il metodo di tutte le altre carceri, passano alimenti già pronti come formaggio, prosciutto e uova e come primo una minestra che è acqua bollita con avanzi di verdura, ma la diversità tra gli altri istituti è che qui noi della redazione abbiamo denunciato le cose che non funzionano per farle migliorare, e l’effetto non è stato quello di trovarti con un rapporto disciplinare o una denuncia e in isolamento per farti smettere di esprimere le tue idee, ma c’e stato un confronto con il direttore.

Ore18:00 Le celle sono aperte, quindi si ha la possibilità o di andare in saletta a fare socialità (giocare a carte, calcetto etc.) o di passeggiare in sezione e fare due chiacchiere con altri detenuti, dove la differenza con altri istituti è che tra noi detenuti si parla molto meno degli aspetti che ci hanno portato in carcere, ma si pensa di più a quando ci verrà data la possibilità di un reinserimento o l’accesso a qualche beneficio.

Ore 19:30 Si ritorna tutti in cella, c’e la chiusura del blindo e io inizio a scrivere qualche spunto che mi può venire utile per qualche articolo in redazione, in attesa che inizi un film in prima serata che guardo e poi vado a dormire.

Attualmente sono a Padova da un anno e mezzo, il risultato di questo tipo di trattamento mi ha permesso, per la prima volta dopo quasi dieci anni di carcere, di presentare la richiesta della liberazione anticipata prevista come sconto di pena quando il detenuto adotta un buon comportamento, e soprattutto ho visto la volontà da parte degli operatori di iniziare un lavoro con me e nessuno mi ha detto che sono irrecuperabile nonostante la mia giovane età. Quindi non so dirvi se in futuro riuscirò a cambiare radicalmente, e a “redimermi” del tutto, ma sono felice già dei risultati che ho ottenuto fino a questo momento, modificando alcuni aspetti della mia personalità sia nel modo di pensare che di agire, e sarebbe una grande vittoria da parte mia, se in questa detenzione riuscissi a diventare una persona migliore di quella che ero quando sono entrato, e non peggiore come è sempre accaduto in altre carcerazioni.

 

 

Oggi, ieri, l’altro ieri: che differenza fa?

 

di Ulderico Galassini

 

Oggi, ieri, l’altro ieri, in carcere è tutto ripetitivo, meccanico, sempre gestito da altri. Basta pensare al fatto che alla mattina devi attendere un agente della Polizia penitenziaria che ti apra la prima porta - il blindo - e la seconda che è un cancello con tante sbarre e pure lui saldamente chiuso a chiave e a più mandate, non per proteggere un bene prezioso, ma per recludere quello che prima fuori era un uomo e che, come nel caso mio, all’età di 54 anni, dopo anni vissuti con obiettivi molto diversi, ora, per il reato commesso, si chiama detenuto.  Quella cella che nella Casa di reclusione di Padova è stata progettata e costruita per “contenere” un detenuto, ora ne accoglie quasi sempre tre. E già qui sorgono le prime difficoltà del gestire “i flussi” o “turni” di movimento, per alzarti, lavarti, attendere la colazione. Fortunatamente io ho un impegno e quindi non rischio di rimanere chiuso in cella per più di 20 ore al giorno. Sono inserito dall’aprile 2010 nella redazione di Ristretti Orizzonti, che cerco di vivere come se fosse “quasi” il mio ex lavoro e quindi la mia presenza è assidua, mattino e pomeriggio, partecipo anche con piacere ai tanti incontri con gli studenti delle scuole che hanno aderito al Progetto Scuola – Carcere. Ma ci sono detenuti che escono dalla sezione solo per andare all’aria due ore alla mattina e due il pomeriggio. E la vita quotidiana poi com’è? Faccio alcuni esempi: a casa sei tu che decidi di farti la doccia come e quando ti pare; in carcere prima devi chiamare l’agente che ti dovrebbe aprire il cancello, ma se non viene devi avere la pazienza di attendere e se poi arriva vai nella sala docce che solitamente anziché avere 5 erogatori (che erano previsti per massimo 25 persone rinchiuse nelle sezioni) magari ne ha solo due che funzionano e in quelle due ore di tempo a disposizione di 75 persone, tutti dovrebbero riuscire a lavarsi. Se ti lavi, devi rinunciare alle due ore di “aria” (significa uscire dalle celle e dalle sezioni per scendere a piano terra, in una zona all’aperto, ma dove di aperto c’è solo il cielo, perché tu, assieme a tanti altri ti devi muovere in una specie di vasca di cemento, una piscina, non tanto grande, ma senza l’acqua). Ma se hai anche bisogno del medico, devi segnarti il giorno prima ed attendere nella tua cella e sempre in quelle stesse due ore, ammesso che venga. L’unica cosa libera è il pensiero e nessuno può punirti nel caso tu sfoghi dentro di te la tua sofferenza o ribellione soffocata, ma covare rabbia non fa bene a nessuno.  Qui a Padova è un po’ migliorato il servizio telefonate, da quando hanno introdotto un sistema a schede. Noi abbiamo diritto (se abbiamo i soldi per farla) a una telefonata alla settimana per un tempo massimo di 10 minuti, ma in ogni caso devi chiamare per farti aprire e recarti in una stanzetta dove è collocato l’apparecchio telefonico per parlare con i tuoi familiari, che devono avere un telefono fisso. Diversamente ci si deve far autorizzare a chiamare ad un cellulare ma non devi avere avuto, nei 15 giorni precedenti, né colloqui né altre telefonate. Nel mio caso, essendo mio figlio all’università mi è stata autorizzata una telefonata al suo cellulare, ma dobbiamo accontentarci di un’unica chiamata al mese e di soli 10 minuti.  La cosa più difficile è parlare con gli specialisti, psicologi o psichiatri, per le persone, e sono tante, che hanno la necessità di un percorso di sostegno maggiore, che di fatto non avviene. Una psicologa ha dichiarato che può incontrare i detenuti per solo 6 minuti all’anno. Anche questo la dice lunga sulle condizioni delle carceri e del mancato recupero e rieducazione.  Ogni sera poi senti il rumore delle chiavi che velocemente e rumorosamente ti chiudono e ti danno proprio il senso di un animale chiuso in gabbia. Ed allora devi avere la creatività, sempre per chi se lo può permettere, di trovarti un passatempo, compagni permettendo: scrivere, leggere, studiare (per chi frequenta le scuole o l’università), perché se ti rifugi solo nella visione dei programmi televisivi rischi di perdere del tutto il senso della realtà. Ci sono poi tante persone qui dentro che non hanno alcuna possibilità di inserimento in attività lavorative organizzate dalle cooperative o dall’amministrazione (scopino, spesino, portavitto ecc.), che sono riservate a pochi (nelle carceri solo il 20 per cento dei detenuti lavora), che non hanno accesso alla scuola, che per far passare le ore si affidano agli psicofarmaci che ti appiattiscono sul letto e ti fanno dormire. Nessuno va a stanarli da questa condizione di passività o a provare a coinvolgerli anche solo in incontri di gruppo, che sempre per il sovraffollamento nessuno ha il tempo di gestire.  Fortunatamente non è il mio caso.

 

 

Spazio libero

 

Un giorno di libertà non-ritrovata

Succede sempre più spesso agli stranieri: dalla galera al CIE

 

di Elton Kalica

 

Il primo giorno di libertà

Quattordici anni, tre mesi e nove giorni fa, con la faccia sanguinante di una notte in caserma e il petto rigonfio dell’orgoglio dei miei vent’anni, attraversavo il cancello del carcere. Oggi è il mio primo giorno di libertà. Ho finito di scontare la mia condanna ma mi è stato detto di attendere l’arrivo della polizia. In piedi, all’ingresso del carcere, ho visto tutti gli operatori che si recavano nei loro uffici. Qualcuno si è anche fermato a stringermi la mano e augurarmi buona fortuna. Alla fine, ricevo l’ordine di uscire. Pochi passi e sento chiudersi dietro le mie spalle il cancello del fine pena. Piove. La macchina della polizia è coperta di gocce aggrappate che resistono alla sua forma aerodinamica. È una Alfa Romeo, nuovo modello, almeno per me. Il sedile posteriore dell’auto è scomodo, ma la guida è rilassata. L’agente al volante pare non avere tutta la fretta che ostentavano i furgoni blindati penitenziari durante i trasferimenti. Il mio finestrino si è appannato velocemente nascondendomi la città bagnata, le strade, i marciapiedi, le persone, l’odore di questa città. Tutte cose che sogno da anni e che per ora mi rimangono sconosciute. Ma posso aspettare. La certezza che fra poche ore mi troverò immerso nel nuovo mondo accantona la mia curiosità: stanotte dormirò a casa mia. Guardo avanti. Una grossa auto ci precede. Le sue forme accattivanti catturano la mia attenzione. Il poliziotto alla guida si annoia e decide di superarla. Ora, di fronte a noi, il posteriore di un’altra grossa cilindrata dal marchio famoso. Sento svegliarsi il bambino che c’è ancora in me. Vorrei stringere il suo volante, ma provo paura di non riuscire a controllare i suoi cavalli. Decido di non guardare più fuori e sprofondo nel sedile posteriore. Chiudo gli occhi e aspetto in silenzio il mio primo giorno di libertà. Alla fine arriviamo in questura. Il guidatore fa diverse manovre in un parcheggio pieno di auto blu. Infine, si ferma di fronte ad una porta di vetro. Scendo. Prendo le mie due borse e salgo delle scale strette. Mi indicano una panchina in corridoio. Mi siedo. Due poliziotti in borghese mi invitano a seguirli nella stanza in fondo. Mi alzo. Uno di loro mi prende la mano e accompagna, uno alla volta, tutte le dita su un piccolo scanner. Poi ci appoggia i palmi delle mie mani. Misura la mia altezza, mi scatta una foto. Ritorno a sedermi in corridoio. Un poliziotto esce fuori da un altro ufficio e mi dice che ci vorrà un po’. “Ci sono delle procedure da seguire”, spiega, “e devo raccogliere informazioni”. Cerco di non considerarlo un dramma. Tiro fuori dallo zaino un libro. È di un autore giapponese, diventato famoso in questi anni, e sembra scritto bene. Leggo due pagine e delle voci rompono il silenzio. Risate, passi rumorosi accompagnano l’arrivo di un gruppo di cinque militari. Entrano nella stanza, di fronte a me. Uno di loro si siede sulla scrivania. Gli altri lo circondano. Sono tutti giovanissimi. Il poliziotto li raggiunge. Si gira con la schiena verso di me, e gli comunica qualcosa. Gli sguardi dei militari mi dicono che sta parlando di me. Un militare si avvicina e con un tono perfino troppo cortese mi chiede di accomodarmi in uno stanzino vicino. Mi alzo. Mi accorgo che quella parete di vetro che avevo visto di sfuggita, in realtà era una camera di sicurezza. Entro. La porta di vetro si chiude piano dietro di me. La stanza mi accoglie con un’aria soffocante. C’è un odore forte di sporco umano. Lungo i lati ci sono due panche di cemento attaccate a due muri lisci color crema. Di fronte, una larga finestra dal vetro blindato si stende fino al soffitto. La camera di sicurezza dell’ufficio immigrazione è una gabbia di vetro che fa entrare luce in abbondanza, ma che non fa uscire nemmeno una molecola di puzza. Mi domando come hanno fatto quelle pareti a catturare così tanto tanfo. Quanti stranieri hanno trascorso la notte qui per impregnarle in modo così irrimediabile?

Mi siedo sul cemento. Il romanzo ha tutto ciò che serve per assorbire bene la mia angoscia: un adolescente con la saggezza di un adulto che scappa di casa e si rifugia in una biblioteca; la responsabile della biblioteca, una donna che affascina irrimediabilmente il giovane; una ragazza che si traveste da uomo; un uomo con l’intelletto di un adolescente che scappa dal luogo di un omicidio e viaggia in un mondo surreale. Riesco a staccarmi da questa storia tutta giapponese solo quando la porta di vetro si apre. Mi alzo. Fuori è già buio. Fisso il pezzo di corridoio vuoto. Sento i passi avvicinarsi, entra Fabio, il mio professore di diritto, poi amico e ora anche il mio avvocato. Dietro di lui, Ornella, la direttrice di Ristretti con la quale ho condiviso in questi anni gioia e dolori. La loro presenza e le loro facce cupe annunciano dolori. Fabio non riesce a parlare. Ha gli occhi lucidi. Si gira verso Ornella. Lei che è sempre brava con le parole, ora le cerca con difficoltà. Alla fine Fabio si compone e fingendosi formale mi dice che ci sono dei problemi, che pertanto non mi lasceranno andare, che quindi posso dare a loro borse, soldi, telefonino e di tenermi solo l’indispensabile. Ornella piange. Fabio abbassa la testa e a denti stretti sussurra: “Mi vergogno di vivere in un Paese che tratta le persone così… questa è un’ingiustizia… mi dispiace tantissimo”. Cerco di tranquillizzarli. Non so cosa mi aspetta, ma non mi spavento, e non sono nemmeno arrabbiato. Quello che doveva essere il mio primo giorno di libertà sta per finire nella peggiore delle ipotesi, ma mi sento preparato, come se l’avessi sempre saputo senza mai rendermene conto.

 

Stesso cancello

Sono sul sedile posteriore di un’altra auto della polizia. Il finestrino appannato non riesce a nascondere le luci di questa notte bagnata. Ci fermiamo. Un cancello come quello del carcere si apre. Scendo dall’auto della polizia. Di fronte una porta blindata di ferro da galera si apre. Anche i muri sono di cemento da galera. Entro in un locale ampio. Alla mia destra ci sono tre file di tavoli lunghi con le panchine saldate. Alla mia sinistra un grappolo eterogeneo di divise. C’è il grigio della guardia di finanza, indossato da un ufficiale che pare avere il comando. C’è il blu della polizia, due graduati che mi ordinano di togliermi tutti gli effetti personali. Ci sono quattro militari in mimetica, ragazzi giovani, e un loro superiore di qualche anno più vecchio. Vengo perquisito e accompagnato nell’ufficio del magazzino. Il personale del Centro ha una divisa fosforescente, gialla e verde. In un’altra circostanza li avrei scambiati per paramedici della croce verde, ma qui è l’uniforme usata dai membri della cooperativa che gestisce il Centro: ho dedicato un intero capitolo della mia tesi di laurea ai Centri di identificazione e di espulsione, e ho imparato qualcosa sulla cooperativa “Misericordia” leggendo i vari rapporti del Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Una ragazza dall’accento straniero mi chiede il numero delle scarpe. Un altro ragazzo, con lo stesso accento balcanico, mi propone una XL. Scopro presto che si riferiva ad un paio di tute e a una maglietta che mi porta velocemente. Dietro la scrivania, un uomo dai capelli brizzolati trascrive l’elenco degli effetti personali ripetendoli a voce alta con un forte dialetto campano. Poi mi gira il foglio. “Prendiamo in custodia gli oggetti di valore, così non te li rubano”, precisa. Almeno in galera avevano l’onestà di chiamarlo “sequestro di oggetti non consentiti”. Firmo. Dietro di me, due medici richiamano la mia attenzione. Li seguo nella stanza affianco. L’ambulatorio è uguale a quello del carcere. La dottoressa invece è più cordiale di quella della galera. Mi visita, mentre il suo collega riempie la prima pagina del mio nuovo diario clinico. Dopo aver finito di rispondere a tutte le domande, ritorno nella stanza di prima. Mi spoglio. Consegno tutto quello che possiedo e ricevo un sacco nero della spazzatura. Guardo dentro con la certezza di chi è già stato in galera. C’è tutta la fornitura.

 

Stessa cella

Un militare mi invita ad aspettare vicino ai tavoli. Vado a sedermi. Una donna dalla divisa della coo­perativa si avvicina e mi dice: “I tavoli sono per i colloqui con gli avvocati”. Dopo un giorno intero nella camera di sicurezza dell’ufficio stranieri di Padova, non sono nella forma migliore per discutere con lei sul regolamento del Centro. Intreccio le dita e fisso un punto sul muro, ignorandola. Sento i suoi occhi addosso per un po’, e poi i suoi passi si allontanano. Il militare rimane ritto accanto a me. Quindici minuti di silenzio e arriva un gruppo di tre militari e un finanziere. Ci raggiunge anche la donna di prima con in mano un mazzo di chiavi. “Prenditi il sacco e andiamo”, mi ordina mentre guarda le chiavi. Apre una porta che dà all’interno del Centro. La seguo, io e le cinque divise dietro di me. Attraversiamo una stradina. Sceglie una chiave e apre un’altra porta che ci conduce in un corridoio lungo. Lei cammina veloce. Passiamo di fronte ad una grande porta di ferro, dipinto d’azzurro. “Tu sei stato assegnato al terzo blocco” dice lei proseguendo. Ci fermiamo di fronte ad una seconda porta di ferro. Lei sceglie una chiave, la apre. L’interno è buio. Diverse persone ci vengono incontro, guardandomi.  “È arrivato uno nuovo” annuncia lei. Entro dentro senza aspettare il suo ordine. Gli occupanti si fanno largo per permettermi l’ingresso. Sento il portone chiudersi dietro le mie spalle. Appoggio il sacco nero per terra. Gli occhi si abituano subito all’oscurità aiutati dallo schermo di un televisore fissato in alto. Si tratta di una sala comune. Ci sono quattro tavoli lunghi. Le persone mi guardano per un po’ poi prendono posto sulle panchine e fissano il televisore, ignorandomi. In galera sarebbero stati più curiosi, mentre qui un nuovo giunto non desta interesse. Mi giro alla ricerca di un interruttore per la luce. Riesco a distinguerlo. Accendo la luce. “Ciao a tutti”, dico guardandomi intorno. Alcuni si girano a guardarmi. C’è una rappresentanza molto significativa della popolazione terrestre. Alcuni hanno i tratti somatici dell’estremo oriente, altri dell’Africa subsahariana e di quella maghrebina. Ci sono anche due uomini che sembrano essere creoli sudamericani. Poi al tavolo in angolo tre ragazzi dal biondo caucasico e un uomo dai riccioli mediterranei continuano a fissare il televisore. Mi guardo intorno per capire dove mi devo sistemare. A destra e a sinistra ci sono due corridoi piccoli con delle aperture buie. Di fronte un’altra apertura ampia. Sulla traversa della sua cornice, legate con dei lacci, due coperte marroni pendono a mo’ di battenti senza toccare il pavimento bagnato.

“Da dove sei?” sento una voce provenire dal tavolo degli africani. “Albanese”, rispondo. I due biondi e il riccio si alzano in piedi e si avvicinano, seri.

“Dove ti hanno fermato?”, mi chiede il riccio in albanese.

“Vengo dal carcere”, rispondo.

Allunga la mano. Gliela stringo. Si chiama Kastriot. Gli altri due fanno lo stesso. Uno si chiama Armand e l’altro Gjovalin. Mi invitano a sedermi al loro tavolo. Prendiamo posto, salvo Gjovalin che prende il mio sacco nero e sparisce nel buio.

 

Stessa branda

Mi siedo sulla panchina. Il televisore proietta sulla mia schiena immagini e suoni. Appoggio i gomiti sul tavolo. In centro, un portacenere carico di mozziconi e un pacchetto di Diana. Di fronte, Kastriot e Armand mi guardano in silenzio, senza nascondere la curiosità di sentirmi raccontare. Anche in galera, quando arrivava uno nuovo, il suo racconto, altrettanto nuovo, diventava sempre interessante. Di fronte a quattordici anni di galera da raccontare, la quantità d’interesse naturalmente diventa direttamente proporzionale. Al tavolo accanto, le fronti alte e illuminate dai colori in movimento, otto ragazzi guardano il televisore stringendosi su due panche. La fase di suspense del film impone un rigoroso silenzio, ma penso con un certo sollievo che annuncia anche l’avvicinarsi della fine.

“Quanti anni ti sei fatto?”, mi chiede Kastriot.

“Quattrodici anni e tre mesi, circa”, arrotondo io.

“Tutti di fila?”, s’incuriosisce Armand.

“Senza mai mettere piede fuori”, rispondo.

“Troppi”, sentenzia Kastriot. Poi solleva anche lui la fronte e fissa lo schermo del televisore. Va in atto la scena finale. Mi giro anch’io, appoggio la schiena sul tavolo e guardo il televisore con la testa altrove. Gjovalin ci raggiunge. Si siede accanto a me e accende una sigaretta. Guarda anche lui il film, ma ormai l’eroe è riuscito a uccidere il cattivo e a disinnescare la bomba, salvando tutti, compreso me. Qualcuno accende la luce. Quasi tutti si alzano e spariscono nei due corridoi. Mi giro. “Io sono stanco”, confido guardando Kastriot. “dove si dorme qui?”.

“Vieni con me”, mi ordina Kastriot. Lo seguo per il corridoio di sinistra. Ci sono delle aperture senza porte. Attraverso la prima distinguo delle docce e dei lavandini. Il secondo ingresso è di un camerone scuro. I letti ordinati. Kastriot entra nella camera di fronte, in fondo al corridoio.  La camera è grande. Sulla sinistra, per terra, un materasso coperto accuratamente con lenzuola e coperta. Di fronte, tre letti, altrettanto ordinati. Rimango sull’uscio. “Questo qui è il tuo letto”, mi indica quello in mezzo. “Dopo quattordici anni di carcere non puoi dormire per terra, Gjovalin è il più giovane, dormirà lui per terra”, spiega. Poi se ne va. Mi spoglio e mi infilo sotto le lenzuola. Gli occhi cercano il vuoto nel soffitto. Un vuoto nuovo, ma che c’è sempre stato: fino ad un giorno prima credevo di sapere, conoscevo il motivo perché ero chiuso e sul soffitto della mia cella leggevo ogni sera la data del fine pena, sicuro che sarebbe stato il mio primo giorno di libertà. Tanti progetti, troppi desideri, tutte certezze che ora si nascondono nel buio di questa nuova galera, mentre scopro di aver guardato sempre il vuoto, l’illusione di essere abbastanza “grande” da affrontare il mondo, mentre appena fuori dalla galera ritrovare la libertà è significato entrare in un’altra galera, leggermente più grande.

 

 

Il Gruppo di Discussione di Ristretti

La redazione “si allarga” al resto del carcere, e tenta di trasformare la galera in un laboratorio  dove avviare un confronto su quei temi caldi  della giustizia e del carcere, che la politica e l’informazione oggi spesso hanno paura di affrontare

 

A cura della Redazione

 

Se dovessimo “salvare” solo una delle tante attività che Ristretti Orizzonti fa, forse salveremmo proprio la meno “redditizia”, quella che non ci ha dato vantaggi particolari, né ci ha fatto conoscere all’esterno: le faticose, estenuanti, rabbiose discussioni intorno al tavolo della redazione.  È per questo che abbiamo pensato di cercare di allargarle, organizzando un Gruppo di Discussione che almeno due volte al mese (per ora il giovedì dalle 13.30 alle 15.30) si riunisca nella Biblioteca Tommaso Campanella della Casa di reclusione e coinvolga più soggetti.

 

Chi vorremmo coinvolgere

 

Persone detenute delle diverse sezioni, che magari, come succede oggi sempre più di frequente, non sono impegnate in nessuna attività, ma hanno voglia di tirarsi fuori dalle sezioni e di far parte di un gruppo di confronto, che per qualcuno può diventare anche un modo per accedere alla redazione di Ristretti Orizzonti  Docenti e studenti di facoltà che possono avere un interesse ad approfondire temi attinenti alla Giustizia, alle pene, al carcere (Facoltà di Sociologia, di Scienze della Formazione, Psicologia, Giurisprudenza), studenti che hanno fatto o sono interessati a fare un tirocinio nella redazione di Ristretti o a fare tesi di laurea sul carcere Insegnanti coinvolti nel progetto scuole/carcere, che da anni lavorano con le loro classi per sviluppare percorsi sulla legalità e la prevenzione dei comportamenti a rischio

 

I temi su cui confrontarsi

 

Al centro del lavoro di questo Gruppo non c’è comunque il carcere, ma la riflessione su come si arriva a commettere reati, anche perché l’esperienza con le scuole ci insegna che è questo il percorso di approfondimento più interessante. Per avvicinare davvero il carcere al mondo esterno bisogna lavorare ad accorciare la distanza fasulla che l’informazione crea tra chi sta dentro e il resto della società, e il modo migliore per farlo è riflettere sulle storie di vita, capire dove le vite deragliano, far percepire a tutti che dire “a me non capiterà mai” è soltanto un modo di coltivare un’illusione. Non esistono “I totalmente buoni e gli assolutamente cattivi”, gli esseri umani sono ben più complessi, anche se spesso si conoscono poco, a dispetto del fatto che la frase che più incontriamo tra i ragazzi delle scuole è “Io… conoscendomi”.

 

I modi del confronto

 

La discussione può iniziare da una parola, su modello di discussioni già fatte in redazione per esempio sulla parola “orgoglio”, a partire dal fatto che all’origine di tanti reati c’è proprio l’orgoglio, o su “scivolamento”, perché i reati sono più il risultato di un lento scivolamento in comportamenti sempre meno rispettosi della legge che una scelta chiara e definita. Oppure si può partire dalla visione di un film, o dalla lettura di un articolo, o da un testo letterario, o ancora da una canzone, come abbiamo fatto per la discussione sulla canzone di Giorgio Gaber “I mostri che abbiamo dentro”.

 

 

Gli ospiti

 

Se si decide di affrontare un tema che richiede un particolare approfondimento, si possono invitare ospiti che abbiano la competenza per preparare il Gruppo anche a un lavoro di studio, di lettura di testi, di ricerca. Per esempio il tema del rapporto tra vittime e autore di reato, che la redazione di Ristretti ha particolarmente a cuore, sarà uno di quelli più seguiti, a partire proprio dal confronto con alcune vittime del terrorismo, sul modello dell’incontro dedicato all’ergastolo che Ristretti Orizzonti ha fatto con Agnese Moro.

La giustizia riparativa sarà in ogni caso uno dei cardini del lavoro del Gruppo di Discussione, perché è proprio a partire da una idea diversa della Giustizia, non basata sul concetto che al male si deve rispondere con altrettanto male, ma sulla riparazione del danno sociale provocato dal reato, che vorremmo proporre un dibattito sul senso della pena e sul carcere, più che mai urgente nel nostro Paese.

 

L’informazione

 

Il tema dell’informazione resta centrale, anche perché l’arretratezza del dibattito sulle pene nel nostro Paese è legata a una informazione particolarmente scadente e imprecisa. Nel Gruppo si leggeranno e commenteranno quegli articoli che spesso contribuiscono a condizionare pesantemente l’opinione pubblica e si “smonteranno” certe notizie, lavorando sulla PRECISIONE, la PULIZIA dell’informazione, le REGOLE, proprio in un luogo come il carcere, dove rispettare le regole è una doppia sfida: con i professionisti dell’informazione, che spesso le regole, soprattutto sui temi della giustizia e del carcere, le massacrano tranquillamente, e con se stessi, nel senso che chi sta in carcere le regole proprio non le ha viste, non le ha accettate, non le ha mai condivise, e ora è chiamato a farlo più e meglio di chi sta fuori, nel “mondo libero”.

 

Redazione

Arrieta Guevara Miguel, Aslam  Abbas Qamar, Belegu Gentian, Boscarino Vincenzo, Cana Fatjon, Canzian Alain, Cappuzzo Gianluca, Cavallini Marco, El Ins Mohamed, Filippi Filippo, Floris Antonio, Frignani Stefano, Galassini Ulderico, Guida Luigi, Iberisha Dritanet, Ismaili Bardhyl, Kola Pjerin, Kovac Davor, Lazarov Miroslav, Malin Enos, Monzoni Bruno, Munteanu Igor, Napoli Santo, Pupi Elvin, Salem Rachid, Semolin Oddone, Spahija Flamur, Tlili Mohamed, Tripodo Mirko, Turci Bruno, Vacaru Gheorghe, Vitali Serghei

 

Redazione Giudecca

Alessandra, Cinzia, Elda, Lella, Luminita, Margareth, Mimoza, Nawal, Sandra, Tamara, Tania, Vanessa

 

Direttore responsabile

Ornella Favero

 

Segreteria Redazionale

Gabriella Brugliera, Vanna Chiodarelli,  Lucia Faggion, Silvia Giralucci

 

Ufficio stampa e Centro studi

Andrea Andriotto, Elton Kalica, Francesca Rapanà, Francesco Morelli,  Paola Marchetti

 

Servizio abbonamenti
Sandro Calderoni

Sbobinature
Filippo Filippi, Michele Montagnoli, Bruno Monzoni

 

Fotografie
Dritan Iberisha

 

Realizzazione grafica e Copertina
Elton Kalica

 

Responsabile per cinema e spettacolo
Antonella Barone

 

Direttore editoriale

Giovanni Vianello, Associazione di volontariato penitenziario “Il Granello di Senape”

 

Collaboratori

Adriana Bellotti, Angelo Ferrarini, Carlo Lucarelli, Daniele Barosco, Davide Pinardi, Elisa Nicoletti, Fernanda Grossele, Giovanni Viafora, Giulia, Patrizia, Marco Rigamo, Mario Salvati, Paolo Moresco, Tino Ginestri, Roberto Rampanelli  Menotti, Germano Vetturini, Cesk Zefi

 

Stampato

Tipografia Veneta di Rizzo Corrado

Via Elia Dalla Costa, 4/6 - tel. 049.8700757

 

Pubblicazione registrata del Tribunale di Venezia n° 1315 dell’11 gennaio 1999. Spedizione in A.P.

art. 2 comma 20/C. Legge 662/96 Filiale di Padova