Contro informazione

 

Servirebbe la certezza di una Giustizia tempestiva ed efficace

Le eterne elezioni e i tempi eterni della giustizia

La custodia cautelare che può durare anni, le condanne o le assoluzioni che arrivano quando i responsabili dei reati magari sono diventati persone diverse, pene lunghissime e un Codice penale che è ancora quello fascista: qualcuno si deciderà a sbloccare una Giustizia vecchia e immobile?

a cura della Redazione

 

In carcere la maggior parte delle persone detenute non può votare, eppure i programmi elettorali li legge o li ascolta dalla televisione con grande attenzione, per cercare di capire che ne sarà della sua vita dopo le elezioni. Anche perché “l’aria che tira” di questi tempi non è delle migliori per chi ha sbagliato e sta pagando per il reato commesso: tutti parlano di sicurezza, quasi nessuno ricorda i problemi della Giustizia, i tempi spaventosamente lunghi, la custodia cautelare che può durare anni, le condanne o le assoluzioni che arrivano quando i responsabili dei reati magari sono diventati persone diverse.

Se ho commesso un reato non

dovrei essere punito a distanza di anni

 

di Franco Garaffoni

 

In carcere una buona lettura tiene lontani i fantasmi, ci sono però letture che li alimentano, e mi riferisco ai programmi dei partiti, in particolare quelli sulla sicurezza, sulla certezza della pena, sulla durata dei processi. È doveroso da parte di un politico rassicurare i cittadini su temi così scottanti, ogni persona deve sentirsi adeguatamente protetta dallo Stato, ma per favore che ci sia chiarezza e informazione corretta. Oggi questo spesso non avviene.

Prendiamo per esempio la certezza della pena: leggendo i giornali e seguendo l’informazione televisiva si potrebbe credere che, se come dicono nessuno finisce in galera, i 53.000 detenuti nelle carceri non stiano scontando la propria pena ma facendo non si sa che cosa. Una parte di verità in questa affermazione esiste ed è quella che riguarda la metà della popolazione detenuta, che è in attesa di giudizio, e che sino a conclusione del processo, cioè Primo grado, Appello e Cassazione, è innocente di fronte alla legge e di conseguenza ai cittadini, ma questo in campagna elettorale non si dice, nonostante si sappia che di questi 25.000 detenuti circa la metà risulterà probabilmente innocente. Ma voglio fare un’altra considerazione su un tema non abbastanza dibattuto, la durata dei processi. Se qualche politico o Magistrato pensa che la lunghezza dei processi possa in qualche modo agevolare un imputato non mi trova d’accordo. Per una velocizzazione della giustizia, per una dimostrazione di efficacia e tempestività, per la sicurezza del cittadino ma anche per il recupero del detenuto è auspicabile che la condanna avvenga in tempi brevi, non è concepibile che un reato commesso debba essere punito a distanza di anni, quando la persona magari ha cambiato vita, si è sposata, ha figli. Davanti ad un reato lo Stato deve intervenire tempestivamente, diversamente si innesca un meccanismo di falsa impunità che può portare alla commissione di altri reati.

Quando io commisi il primo reato, se avessi scontato la pena subito avrei avuto la possibilità di capire e valutare dovutamente quanto commesso, dando anche un giusto valore alla libertà. Una espiazione tempestiva avrebbe comportato da parte mia una valutazione diversa nei confronti della giustizia, e forse non sarei stato indotto a commettere altri reati. Quindi ci saranno persone che hanno soldi ed energie per tirare in lungo i processi in vista di una possibile prescrizione, ma non è quello che voglio io, né lo vogliono tanti come me qui dentro.

Una condanna spropositata, e io non c’ero a difendermi

 

di Maher Gdoura

Con tutto quello che ho sentito dire dai politici sulla certezza della pena, direi che io non mi spavento, anzi, per me va bene!, perché credo che la certezza della pena come la intendono loro a me va benissimo, basta che mi diano la condanna nell’arco di 2-3 anni. Io ho commesso dei reati legati agli stupefacenti nel 1995 e la mia condanna è andata definitiva solo nel 2002. Quando ho fatto il reato avevo 22 anni e mi sono ritrovato a scontare la pena che ne avevo 30.

La cosa più grave è che la persona può anche cambiare durante questo periodo. Nel 1999, dopo aver riflettuto molto sulla mia vita e aver capito che quello che stavo facendo non poteva continuare, sono andato via dall’Italia. Avevo deciso di cambiare, ma ho dovuto lottare perché non era facile rientrare in una vita regolare. Mi sono quindi trasferito a Parigi, dove ho regolarizzato la mia posizione poiché ho trovato un lavoro onesto. Facevo l’autista e inoltre per tre giorni alla settimana allenavo dei bambini in una polisportiva parigina. E infine mi sono anche sposato. Insomma avevo cominciato a vivere una vita tranquilla. Ma nel frattempo in Italia mi stavano processando e sono andati avanti in questo procedimento condannandomi in contumacia, quindi senza di me e senza il mio avvocato.

Io non ne sapevo nulla finché, nel 2003, mentre ero di passaggio in Italia, mi fermano i carabinieri a un posto di blocco per un controllo di routine. Dopo aver avuto notizie via radio mi mettono le manette e mi dicono che mi devono portare in carcere per scontare una pena di diciotto anni. Altro che buttare alle spalle il passato, mi sono ritrovato ad affrontare un mondo difficile come il carcere e vivere anche il disagio della lontananza dalla famiglia. All’inizio non volevo accettare la situazione, ho continuato a protestare, ma dopo un anno di malessere mi sono rassegnato e sto cercando di vivere serenamente le giornate.

Ecco, avrei preferito essere arrestato, processato e condannato subito appena commesso il reato e non dopo sette anni, quando ormai avevo un’altra vita, una famiglia, un lavoro. La certezza della pena c’è in Italia perché ti condannano sempre, a pene pesantissime e anche in tua assenza, in contumacia, invece i tempi lunghi sono l’unica incertezza, che è l’incertezza di non sapere mai quando ti assolveranno o ti condanneranno e quando dovrai andare in galera.

Se l’informazione fosse più corretta,

avrei fatto tre anni di galera in meno

 

di Paola Marchetti

Sono stata arrestata, condannata e incarcerata in Baviera. Lì la vita da detenuta era molto dura e anche per questo avevo deciso che sarei venuta a scontare la pena in Italia, dove in carcere, a quel che si dice, “non ci si rimane a lungo”. Almeno era quello che l’informazione mi aveva fatto credere, visto che la mia esperienza su questioni di giustizia e carcere era pressoché nulla al momento dell’arresto. È chiaro che non era solo per uscire prima che volevo tornare in Italia: c’erano mia figlia e la famiglia, c’era la voglia di impiegare il mio tempo in modo più costruttivo, come per esempio portare a termine gli studi universitari. Ho trascorso i primi dieci mesi in attesa di processo nel carcere di Norimberga, e un anno e sette mesi in quello di Aichach, unico “penale” femminile del Bayern, da cui le donne tedesche che ho conosciuto dentro volevano farsi trasferire per scontare la loro pena in un altro Land, proprio perché il carcere bavarese è davvero punitivo.

Io sapevo, e il giudice che mi ha condannato l’aveva dichiarato in sede processuale, che, come persona incensurata, avevo diritto, secondo la legge tedesca, a richiedere la scarcerazione a metà pena e quindi ad uscire libera dopo quattro anni e tre mesi scontati, visto che ero stata condannata a otto anni e sei mesi. La concessione di questo beneficio in Germania era legata solo a quella che viene definita “buona condotta” e rispetto a questo ero certa che non avrei avuto problemi: sono una persona tranquilla, che evita le “rogne”, che riesce a rapportarsi con il prossimo in modo positivo. Certo, anche in Italia esiste un “premio” per chi si comporta bene, la “liberazione anticipata” che dà uno sconto di pena di tre mesi ogni anno, non di sei come in Germania.

Ma io ero sicura che quando fossi giunta in un carcere italiano, sarei uscita in breve tempo, se non libera, almeno in semilibertà, o in detenzione domiciliare o in qualche altro modo. Del resto tutti i media ce lo fanno credere!

Da quando sono stata arrestata ad oggi sono passati sette anni e due mesi. Trascorsi sei anni dentro, sono “uscita” in semilibertà con il lavoro esterno e il rientro in carcere la sera, poi mi hanno concesso l’affidamento in prova ai servizi sociali – una specie di miracolo, visto che erano dieci anni che non ne concedevano alle detenute della Giudecca – l’ultimo anno e due mesi. E sia la semilibertà che l’affidamento non sono assolutamente condizioni di libertà come si vuol far credere. Ho meritato tutta la “liberazione anticipata” per la mia buona condotta. Finirò nel dicembre 2008.

Fossi rimasta in Baviera avrei finito a metà marzo del 2006. Insomma, vorrei sapere chi sono quelli che mettono in giro la notizia falsa e tendenziosa secondo cui in Italia in carcere ci si sta poco, i benefici sono automatici e concessi con grande “generosità” e le pene sono le più basse d’Europa. Se i nostri media facessero un’informazione corretta, obiettiva, in una parola, seria, avrei fatto tre anni di galera in meno!

Processo in tempi certi e vicini al

momento della commissione del reato

Alcune riflessioni a proposito di quanto ha dichiarato Pietro Grasso, Procuratore nazionale antimafia: “Fra rito abbreviato in primo grado, concordato in appello e benefici penitenziari, un capomafia può sperare di lasciare il carcere in cinque o sei anni”

 

a cura della Redazione

 

Hanno suscitato dubbi e ansia la scarcerazione del figlio di Totò Riina per decorrenza dei termini della custodia cautelare e le parole di Pietro Grasso, Procuratore nazionale antimafia, così pieno di rabbia per le storture della giustizia italiana, da arrivare a dichiarare: “Noi magistrati ci sentiamo ormai lavoratori socialmente inutili. Fra rito abbreviato in primo grado, concordato in appello e benefici penitenziari, un capomafia può sperare di lasciare il carcere in cinque o sei anni”. Ma forse questa idea di quasi totale e generalizzata impunità di chi commette reati non è del tutto rispondente alla realtà, e dal carcere arrivano, a contrastarla, le voci di chi la galera se la sta facendo, e tanta anche.

Ma cosa volete, che si facciano tutti giustizia da sé?

 

di Elton Kalica

 

Mi ha sempre fatto star male sentire tanti giornalisti fare conti da ragioniere sulla giustizia e sugli anni di galera che si fanno per questo o per quel reato. Il ragionare in modo estremista per provare la tesi che oggi la galera non la fa nessuno lo trovo non solo sbagliato, ma anche terribilmente ingiusto nei confronti delle vittime dei reati, per le quali è senz’altro motivo di ulteriore dolore sentir dire dai giornali e dalla televisione che oggi in Italia chi commette un reato la fa franca.

Ma finché lo dicono certi giornalisti è un conto, loro devono cercare notizie “forti”, per aumentare le vendite prima che per fare informazione, mi ha lasciato senza parole invece l’intervista del Procuratore Nazionale Antimafia Pietro Grasso, che sostiene che oggi quasi nessuno, nemmeno i mafiosi, sconta la pena in carcere.

Io sono in galera insieme a migliaia di persone e la cosa assurda è che siamo qui non solo per aver infranto la legge, ma anche per via di quella convinzione, inculcata in tanti di noi da chi fa informazione, che in Italia la galera si può evitare, basta essere abbastanza furbi. E molti di noi prima di entrare qui dentro la pensavano nello stesso modo del capo procuratore, e cioè che in carcere ci restano poco anche i mafiosi, figurati chi ruba, truffa o rapina. Invece alle fine in galera ci siamo finiti eccome. E ci accorgiamo tutti i giorni che quando si rimane intrappolati nella ragnatela della Giustizia, dalla galera è difficile uscire. L’operazione che fa il magistrato nella sua intervista, calcolando quanti anni di carcere si prende un trafficante di droga che patteggia e che concorda la pena in appello, è ovviamente una cosa possibile, ma quelle sono strategie difensive che usa solo chi può pagarsi decine di migliaia di euro per mantenere un esercito di avvocati, oppure chi può addirittura cambiare le leggi come gli pare: per noi comuni mortali c’è solo la pena detentiva.

Chi vive in carcere oggi sa che le pene in Italia sono alte e che i processi, anche se lenti, alla fine ti presentano sempre il conto al quale non puoi sfuggire. Ci rammarica però leggere troppo spesso dichiarazioni sul fatto che nessuno in questo Paese paga per i suoi reati, perché non capiamo che cosa si vuole ottenere con questi allarmismi. Insomma se anche i magistrati dicono che la giustizia è un disastro, cosa devono pensare i cittadini? Saremo anche stupidi, oltre che cattivi, ma di fronte a certe reazioni rimaniamo spiazzati anche noi che dello Stato abbiamo avuto meno rispetto degli altri. Ci spiegate per favore se volete più legalità, più solidarietà e più armonia sociale oppure volete coltivare odio e paura, in modo che le persone continuino a perdere la fiducia nella giustizia e decidano di farsi giustizia da sé?

Tanti di noi hanno aspettato anni in carcere

prima di essere processati, e a volte assolti

 

di Daniele Barosco

 

L’articolo 303 del Codice di Procedura penale regola lo spinoso tema della decorrenza dei termini della carcerazione preventiva, la più lunga prevista in Europa anche per fattispecie di reato non comprese dagli altri Paesi membri, come ad esempio il “concorso esterno in associazione mafiosa”. Fare il processo in “tempi ragionevoli” è un dettato costituzionale, allora perché ci si deve scandalizzare che un imputato di estorsione ed altri reati comuni sia messo in libertà “solo” dopo sei anni di carcerazione preventiva? Che questo imputato si chiami Riina, Rossi o Bianchi poco importa, è in ogni caso terribile pensare che un cittadino debba attendere in carcere anche sei anni senza avere un processo che giunga alla sua fine naturale, cioè una condanna o una assoluzione. Immaginare che la carcerazione preventiva possa essere prorogabile all’infinito significa negare e cancellare l’articolo 13 della Costituzione che garantisce la libertà a tutti i cittadini e può restringerla solo in casi eccezionali, e in nessun caso a vita, in quanto le pene devono tendere al reinserimento ed essere umane. A me sembra strano che il Procuratore Grasso sostenga che fra riti abbreviati e altri sconti di pena il lavoro dei magistrati è praticamente inutile, soprattutto se penso che in Italia vige un regime carcerario durissimo, il 41bis, a cui sono costrette più di 500 persone condannate a più ergastoli che probabilmente non vedranno mai la libertà!

La carcerazione preventiva è un mezzo eccezionale che in Italia è mostruosamente divenuto di uso comune, con il fine solo e chiarissimo di indurre gli indagati di delitti più o meno gravi a confessare le loro colpe presunte. Succede così che chi è privo o quasi di mezzi per garantire la propria difesa finisce in carcere e sconta anni di pena prima che si accerti se eventualmente è innocente. E naturalmente la carcerazione preventiva è spesso lunghissima per tutti i disgraziati, gli stranieri, quelli che non possono garantirsi una difesa decente, e invece pressoché inconsistente per gente come Previti, Tanzi, Ricucci. Il rispetto della decorrenza dei termini di questa “tortura” sottile chiamata “carcerazione preventiva” è un diritto inviolabile importantissimo, è il diritto alla libertà. Così come la garanzia di un processo in tempi certi e vicini al momento della commissione del reato dovrebbe essere un diritto inalienabile, ma è ancora una utopia, tanti di noi hanno aspettato anni in carcere prima di essere processati, e a volte assolti. Io, essendo uno che è passato dentro queste cose, vorrei che nessuno provasse quello che io ho subito, anni di custodia cautelare per una accusa, che poi è in gran parte caduta nel corso del processo, come del resto succede a tanti, a troppi credo.

La “catastrofe fin troppo annunciata” della giustizia

 

di Sandro Calderoni

 

Del problema giustizia in questi anni si sente spesso parlare in termini di catastrofe annunciata, e molti giornali ogni settimana pubblicano statistiche che hanno la capacità di rendere il quadro senza speranza. E qui posso anche capire che ci siano tante persone, giornalisti e non, che scambiano la scadenza della custodia cautelare con i permessi premio o la semilibertà, o la libertà, urlando magari che “il tal delinquente è già fuori”, spesso senza poi spiegare che è fuori in attesa che la condanna diventi definitiva, e definitivo anche il carcere. Si dovrebbe invece ricordare a tutti che una persona non può rimanere in carcere più di un certo numero di anni senza aver subito un processo, anche perché è il caso di non dimenticare che ogni individuo è innocente finché non viene processato ed eventualmente riconosciuto colpevole, e che più del 50 per cento delle persone incriminate in fase dibattimentale viene assolto.

Quello che fatico a capire è però il Procuratore Nazionale Antimafia Pietro Grasso, che solleva una polemica amara verso la lentezza dei processi, ricordando però poi che misure per sveltire i processi ce ne sono diverse, come quelle che “utilizzano” a man bassa i mafiosi, “rito abbreviato in primo grado, concordato in appello e benefici penitenziari”. Il Procuratore Grasso però forse dovrebbe spiegare, per non creare confusione, che il rito abbreviato può essere concesso solo se il Pubblico Ministero lo accetta in udienza preliminare, così come dovrebbe spiegare che il concordato va fatto in accordo con il Procuratore Generale in fase di appello, ed infine che chi ha avuto una condanna per mafia, figuriamoci un capomafia, non può assolutamente accedere ai benefici carcerari, a meno che non sia un collaboratore di giustizia. Del resto, tutte quelle forme alternative al dibattimento penale sono state introdotte proprio per dare respiro a quei magistrati o giudici che si lamentavano perché vi erano troppi processi e nessuno era in grado di far fronte a una situazione simile.

Il Procuratore tutte queste cose certo le sa, ma da persona detenuta io proprio non posso dimenticarle, dato che con queste leggi devo convivere da anni. Ecco perché trovo insolito che persone che di Codici ed Ordinamenti penali sono bene a conoscenza, rilascino dichiarazioni non chiarissime, finendo per suscitare nei cittadini un senso di impotenza e di totale sfiducia nella giustizia.

“Smontiamo” una informazione che tutto fa fuorché informare

Un detenuto “raccontato” dalla cronaca nera e dai suoi compagni di galera

Giornali e televisioni l’hanno descritto come un mostro, noi vorremmo parlare di sofferenza psichica, e di come il carcere spesso non ha i mezzi e il personale per “intercettarla”. Bisognerebbe invece pensare a una galera diversa, più attenta alla complessità delle persone

 

a cura della Redazione

 

Qualche giorno fa a Padova è successo un grave fatto di cronaca di cui è stato autore un tunisino che ha passato sei anni in carcere per omicidio, e che era stato scarcerato perché la Cassazione aveva deciso che il suo processo doveva essere rifatto. Ed era stato rifatto da poco, quel processo, dunque è vero che lui era “libero”, ma stava per rientrare in carcere, con una condanna a ventidue anni. Ora l’hanno arrestato con l’accusa di aver tentato di violentare una donna con la quale aveva avuto una relazione perché lei lo voleva lasciare. I giornali si sono buttati sul fatto e hanno detto di tutto, tranne due verità: che lui era fuori per i tempi interminabili della Giustizia, e che nessuno è riuscito a capire la sua sofferenza mentale. Ma, proprio perché qualcosa sappiamo di lui, l’abbiamo avuto a fianco per mesi, abbiamo deciso di non avere paura di affrontare un argomento così spinoso. E però vorremmo parlarne come cerchiamo di fare sempre, cioè dando una informazione sobria e ONESTA su un caso, che è complesso davvero, e che non merita le semplificazioni usate dai media. Anche perché semplificare realtà così dure e complicate significa non essere per niente attrezzati ad affrontarle, quando capitano. Quella ragazza spaventata a morte merita più di tutti di essere aiutata a capire cosa è successo, e in fondo anche a non pensare di essere stata semplicemente ingannata e usata: allora bisogna avere il coraggio di dire che la persona che le ha fatto del male forse sta facendo da anni del male anche a se stessa, senza che nessuno riesca ad occuparsene seriamente.

Oggi si considerano sane persone che stanno male,

solo per condannarle con più durezza

 

di Elton Kalica

 

Le persone hanno diritto ad essere informate, ma oggi spesso i mezzi di comunicazione di massa riducono tutto al diritto a conoscere la cronaca nera. E proprio la cronaca nera è un modo semplice e poco costoso per riempire le pagine di un giornale, e per accentuare un generale senso di insicurezza, che poi finisce per far raccogliere consensi al partito con il programma più autoritario. Però io credo che noi detenuti, anche se siamo consci di essere responsabili di fatti gravi, abbiamo il diritto di criticare un certo giornalismo che fornisce una informazione quanto meno approssimativa.

Pochi giorni fa a Padova ho letto sui giornali di una aggressione a una donna, io conosco la persona accusata di esserne l’autore. Prima che uscisse dalla galera ho avuto modo spesso di parlare con lui, sapevo il motivo per cui era stato arrestato perché me l’aveva raccontato. Continuo a leggere quello che scrivono i giornali su Alì e non ho ancora trovato un articolo che lo descriva per quello che è realmente, anzi, più che mai mi rendo conto di quanta superficialità si usa nel descrivere gli autori di reati.

Io non sostengo di conoscere bene la personalità di Alì, e non solo perché credo che di personalità lui ne abbia più di una, ma perché reputo che lui sia una persona così complessa che non so chi sarebbe capace di capire qualcosa dei meandri della sua psiche. La cosa più grave però è che in carcere difficilmente il personale è messo in grado di rendersi conto di situazioni di questo genere.

Come tutti gli altri detenuti lui si è fatto la sua carcerazione con poca attenzione al suo star male, che a noi risultava evidente, ma che nessuno ha “intercettato”, vista la scarsità di operatori specializzati a fronte dei numeri sempre più elevati di persone incarcerate con patologie psichiatriche o altre forme di disagio. E poi, quando per colpa dei tempi interminabili della giustizia è stato scarcerato, non c’è stato alcun tipo di presa in carico. Perché il caso di Alì scopre un problema molto più esteso. Oggi in Italia si considerano sane persone, che stanno manifestamente male, per poterle condannare con più durezza, ma poi, dopo anni di galera, vengono rilasciate senza che nessuno se ne occupi, mentre il carcere non solo non ha risanato il problema, ma spesso lo ha peggiorato. Ed è inutile chiedere più galera, invece bisogna pensare a una galera diversa, più attenta alla complessità delle persone. Soltanto una pena che, quando ce n’è bisogno, cura può far sperare alla società che da qui escano persone cambiate. 

Quando si rischia di restituire alla libertà

uomini non pronti ad affrontarla

 

di Franco Garaffoni

 

Ho conosciuto Ali A. Sono detenuto a Padova e partecipo alle attività della redazione di Ristretti Orizzonti e di tutta l’area delle iniziative culturali e di informazione del carcere, discuto con detenuti e volontari di molti argomenti che quotidianamente approfondiamo per ricavarne degli articoli. I fatti di questi ultimi giorni, riportati da tv e giornali, che hanno visto protagonista Alì A., fanno nascere anche in me molte domande. Credo che in tanti si chiedano: possibile che un detenuto, che trascorre sei anni in un carcere, non sia riuscito a riconsiderare il suo passato e su di esso lavorare per dare un significato, una volta scontata la propria pena, al suo futuro? Evidentemente è possibile, ma forse ci sono delle ragioni più nascoste che spiegano certi comportamenti.

Alì A. doveva rimanere in carcere, Ali A. aveva già ucciso una donna che stava per lasciarlo, Ali A. doveva scontare una condanna di 22 anni e invece era ancora fuori: sono tutte considerazioni legittime, ma Alì A. era libero perché la legge ha rispettato i suoi diritti, che sono quelli che ha ognuno di noi di non restare in galera a vita a causa dei tempi lunghissimi della Giustizia. Che sono il vero male, e di quello bisognerebbe parlare di più.

A questo punto mi chiedo però un’altra cosa: in casi come questi si può, da parte delle Istituzioni, intervenire durante gli anni di detenzione per capire se una persona ha bisogno di essere seguita con più attenzione, e anche più cautela? Io credo di sì, soprattutto in relazione al reato commesso, ma anche nel rispetto dei cittadini, perché se la funzione del carcere consiste esclusivamente nella privazione della libertà non si rende nessun servizio ai cittadini, anzi si restituiscono alla libertà uomini non pronti ad affrontarla, e a volte con rischi che comportano vittime. Ed è proprio il rispetto che ogni autore di reato deve avere nei confronti delle vittime che dovrebbe indurre Ali A. ad assumersi le proprie responsabilità, a chiedere aiuto se ne ha bisogno, a non cercare giustificazioni se ha commesso quello di cui è accusato, perché esiste una condanna molto più dura e difficile da affrontare del carcere, è quella che arriva da parte delle persone alle quali, con i nostri reati, abbiamo distrutto la serenità e annientato tutte le sicurezze.

Nella nostra redazione si discute e si ragiona,

ma non abbiamo soluzioni a ogni problema

 

di Adnene El Barrak

 

Sono tunisino e sono in carcere da dodici anni per concorso in omicidio. Da qualche anno frequento la redazione di “Ristretti Orizzonti”, che mi permette non solo di uscire dalla cella per alcune ore al giorno, ma soprattutto di riflettere con persone che vengono da fuori un po’ su tutto ciò che ci succede intorno. In dieci anni di attività, i volontari della redazione hanno visto passare tantissimi detenuti e credo che non sempre sia stato semplice per loro lavorare con noi, dato che siamo persone senz’altro difficili. È inevitabile, se non vogliamo fare a finta che i detenuti che stanno qui diventino tutti buoni in fretta e senza problemi, che a volte succeda, dopo che qualcuno è uscito, di ritrovarsi ancora a discutere su di lui perché commette di nuovo un reato, perché fa male a qualcuno, perché ritorna in carcere.

La cronaca di questi giorni ha parlato di una persona che già aveva commesso un omicidio e che, uscita per decorrenza dei termini della custodia cautelare, ha terrorizzato una donna con la quale aveva avuto una relazione perché lei lo voleva lasciare. Si chiama Alì, io l’ho conosciuto qui in carcere, e allora vorrei dire anch’io qualcosa su ciò che i giornali scrivono di lui.

Innanzitutto provo dispiacere per la ragazza, vittima di un gesto che a me pare di follia, immagino che sia stato terribile per lei passare una simile esperienza, e avere i riflettori puntati addosso per un fatto così drammatico. Ne abbiamo parlato in redazione e ho visto che tutte le persone hanno voluto dedicare a lei la loro solidarietà: anche perché qui dentro nessuno cerca giustificazioni ai propri reati, soprattutto da quando le scuole entrano in carcere e gli studenti ci “interrogano” e ci costringono a essere più sinceri anche con noi stessi.

Però scrivo queste righe anche per puntualizzare qualcosa che in questa vicenda mi ha dato fastidio: sembra che il fatto che uno come Alì prendesse parte alle attività qui dentro e ai dibattiti di Ristretti Orizzonti significhi che lui ha ingannato tutti fingendosi “recuperato”, per poi tornare a commettere reati. Io credo che lui non abbia finto nulla, e noi i problemi che aveva li vedevamo bene, però la redazione è aperta a tutti i detenuti, e qui non si guarda nemmeno il tipo di reato perché tutti, per essere in galera, abbiamo commesso dei fatti anche gravissimi. Noi in redazione siamo semplicemente persone che tentano di fare informazione ragionando su quello che succede, ma anche imparando ad assumersi le proprie responsabilità.

Le troppe promesse della politica

Trasferire i condannati stranieri è una promessa

che nessun Governo può mantenere

Scontare la pena nel proprio paese di origine: a dispetto di tanti proclami di politici, ci sono detenuti che aspettano da anni di poter scontare la pena a casa loro

 

di Elton Kalica

 

Sono quattordici anni che abito in questo paese e alla vigilia di ogni elezione puntualmente sento i politici parlare di lotta agli immigrati che delinquono e immancabilmente promettere di mandare tutti gli stranieri condannati in Italia a scontare la pena nel proprio Paese. Tempo fa avrei anche potuto crederci, visto che non ero abituato a dubitare delle cose dette per televisione, però mi trovo in carcere da dodici anni e, oltre ad aver assunto una natura sospettosa, sono diventato anche un buon conoscitore di questa matteria, dato che siamo in molti ad aver chiesto di scontare la pena vicino a casa, ma fino ad ora le persone trasferite sono pochissime rispetto alle richieste. Allora sono portato a pensare che quelle persone che hanno inserito questo “impegno” nel proprio programma politico non conoscano bene il tema del trasferimento delle persone detenute.

Racconto il mio caso per rendere meglio l’idea.

Dopo l’arresto per un reato grave nel 1997 vengo processato. Il giudizio non è dei più lunghi, quindi, dopo tutti i passaggi previsti dalla legge, la mia sentenza di condanna diventa definitiva nell’arco di quattro anni. Tutta la mia famiglia vive in Albania e l’unico modo che mi viene concesso per comunicare con loro è una telefonata di dieci minuti una volta a settimana. Il tempo passa e i miei genitori stanno sempre peggio senza vedermi, quindi nel 2001 decido di voler andare a scontare la pena in un carcere vicino a casa. Dopo essermi documentato ho scoperto l’esistenza della Convenzione di Strasburgo che disciplina i trasferimenti delle persone condannate. Per coincidenza scopro inoltre che è stata appena sottoscritta tra l’Italia e l’Albania e quindi tutti quelli che sono stati condannati definitivamente possono fare richiesta. Faccio subito la richiesta di essere trasferito in un carcere albanese.

Siamo nel 2008 e io sono ancora in Italia. La cosa curiosa è che mi risulta che il Ministro Castelli non ha firmato nemmeno una delle 445 richieste fatte dai condannati albanesi durante il periodo in cui è stato in carica. E nemmeno il suo successore pare abbia ancora firmato qualcuna di queste istanze.

Di fronte a queste lungaggini della burocrazia davvero non capisco su che cosa si basa chi urla e promette di mandare via gli immigrati condannati.

Voglio fare due conti. Se calcoliamo che in media la sentenza di condanna diventa definitiva dopo tre anni si ha già una riduzione delle persone che potrebbero essere trasferite, e cioè quelle che hanno delle condanne relativamente alte. Aggiungiamo l’attesa per il compimento della procedura internazionale di trasferimento, che è di altri tre anni, ciò conferma che questa misura può essere applicata a chi ha condanne davvero alte. Infine ricordiamoci che la Convenzione di Strasburgo stabilisce che deve essere il condannato a richiedere il trasferimento, e dunque può accadere che qualche condannato non voglia ritornare nel proprio paese dove magari ci sono delle condizioni carcerarie disumane. Il risultato mi sembra abbastanza chiaro: ad essere trasferiti nel proprio paese sarebbe davvero un piccolo numero di detenuti, quindi non può mai essere una soluzione del problema sicurezza.

Sono dodici anni che mi faccio la galera in questo paese e alla vigilia di ogni elezione puntualmente sento i politici parlare di sicurezza, però in tutti i discorsi vedo soltanto propaganda e a volte odio: propaganda perché promettono cose palesemente irrealizzabili e odio perché cercano di convincere la gente che i veri problemi di questo paese sono gli stranieri, i tossicodipendenti, gli zingari e i mendicanti, promettendo repressione. E vedo che sempre più persone sono coinvolte in questo clima di intolleranza, un clima in cui non vivono bene né i detenuti e nemmeno le persone “regolari”, italiane o straniere che siano.

 

 

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