Sprigionare gli affetti

 

Solitudine non è uguale a omosessualità

Molte persone rimangono sole ma non per questo cambiano i propri gusti sessuali, eppure in tanti pensano dei detenuti che “non avendo donne, siete costretti a fare queste cose tra di voi”

 

di Elton Kalica

 

Il lungo suono strozzato del campanello mi distrae dal silenzio dei pensieri che mi avevano catturato mentre ero steso sulla branda di ferro della cella. Poi il rumore dei passi dell’agente che raggiungono il cancello in fondo al corridoio. Segue un rumore di chiave che gira come sempre due volte. Percepisco il bisbiglio del visitatore e poi il rumore del cancello che si chiude con chiasso. Rumore leggero di passi nel corridoio. Chi sarà? Mi alzo e raggiungo l’uscio della mia cella, da dove vedo che la curiosità ha spinto fuori dalle celle anche le altre persone detenute, i miei coinquilini.

Accanto all’agente c’è un signore dai capelli brizzolati, veste dei jeans e una felpa azzurra sulle spalle. I due uomini camminano insieme. Il visitatore è un professore di Diritto che svolge attività di volontariato nel nostro carcere seguendomi nel mio percorso di studi universitari: non posso andare ad ascoltare le lezioni all’Università, quindi mi rivolgo a lui per trovare tutto ciò che i testi e i dizionari non mi rivelano. Quando mi succede di non avere concetti difficili da chiarire con lui, conversiamo per una mezz’ora di altre cose; io racconto di me, della mia famiglia, del mio Paese, dei miei progetti, mentre lui rimane quasi sempre incollato alla sua visione storica degli eventi e collega i fatti che sono successi a me, in Albania e poi in Italia, con i dati che hanno segnato il mondo in questi ultimi trent’anni. È curioso come gli viene spontaneo accostare la mia vita agli eventi di importanza internazionale continuando così ad insegnarmi cose nuove.

L’agente chiama il mio nome, come da procedura, per comunicare che la visita è per me e poi scompare nel suo ufficio. Velocemente, prendo dalla borsa il testo che sto studiando e corro nella saletta dove il professore ha già preso posto. Oggi non ho niente da chiedere quindi, nel tentativo di rallegrare per un attimo il colloquio, ripiego sull’ultimo gossip-carcerario. Racconto del caso più eclatante successo di recente: due persone detenute sono state sorprese, da un agente, mentre facevano sesso. Gli spiego che la notizia si è diffusa velocemente in tutto il carcere e che tra i detenuti ho sentito dei commenti molto spietati,  e che probabilmente quei due saranno derisi per tutto il resto della loro condanna, che inoltre dovranno rispondere davanti al Consiglio disciplinare visto che si tratta sempre di un infrazione al regolamento, e che quasi sicuramente seguirà una sanzione.

Approfittando del silenzio con cui il professore mi ascolta continuo a raccontare di un altro caso del genere, di un ragazzo omosessuale che ho conosciuto tre anni fa, al sesto blocco del carcere, e che faceva una vita per niente facile proprio per via della sua diversità. Mentre racconto qualcuna delle brutte esperienze che giornalmente passava quel detenuto, vedo che finalmente il professore vuole dire qualcosa, allora mi fermo. “Devo dire che è una cosa comprensibile; perché sono queste condizioni di ristrettezza che inducono voi a mettervi a fare quelle cose”, mi dice con una specie di arrendevolezza, “non c’è niente da fare”.

“Come, come?”, domando io sorpreso.

“Cioè, so anch’io che qui, non avendo donne, siete costretti a fare queste cose tra di voi”, insiste lui, “ed è questo il problema”.

“Tra di voi! Ma come, professore”, replico io pacato, “anche tu pensi queste cose? Sono otto anni che mi trovo in carcere, e allora, cosa significa? Che anche io mi arrangio così, tra di noi?”.

“Non esattamente, ma in generale è così! L’isolamento fa questo e di più”, conclude lui.

Ricordo che da giovanissimo avevo un’idea molto maligna su quegli ambienti dove convivevano tutti uomini. In realtà, non ero ancora capace di immaginare cos’era veramente un rapporto omosessuale, ma questo non mi impediva di credere che, nelle caserme, negli istituti religiosi e, appunto, nelle carceri, fosse diffusa tale pratica. Non si trattava quindi di un’idea chiara sul come e sul perché, ma semplicemente avevo sentito gli altri parlare e sapevo che c’era.

Alcuni dei miei coetanei di solito ci ricamavano su facendo ridere tutti. I loro commenti sulla vita isolata dei militari, dei preti e dei detenuti solitamente erano seguiti da pessime battute, versi, e imitazioni: certo che quando li sentivo parlare, non pensavo che da lì a qualche anno mi sarei ritrovato a dover anch’io combattere con la solitudine e che avrei dovuto incontrare un giorno delle persone, di grande elevatezza culturale ed esperienza di vita, che continuavano a immaginare il carcere nello stesso modo dei miei amici.

Soltanto a quell’età però io avevo questa visione “ridotta” della vita. Poco dopo capii anch’io che non era così automatica la scelta. Quando, al primo anno di liceo, m’innamorai di una compagna di classe dovetti accontentarmi dei suoi baci (e delle mie mani) fino al secondo anno prima che lei si decidesse a “perdere la sua purezza”. In quel periodo poi, le mattine in cui mia madre lasciava libera la casa erano rare, cosicché ugualmente rare erano le volte che io e la mia ragazza potevamo approfittare della disponibilità della mia casa per scatenare i nostri, a lungo trattenuti, istinti.

Non appena lei mi lasciò, perché venne a sapere che andavo da una vicina di casa non soltanto per chiedere il sale, e quando poco dopo anche la vicina di casa emigrò in Germania insieme alla sua famiglia, finii di nuovo per consolarmi da solo. Passarono otto mesi prima che io trovassi un’altra anima gemella, e per tutto questo tempo la mia vita si poteva paragonare a quella di un seminarista, di un militare oppure di un detenuto, visto che facevo scuola-casa e casa-scuola, ma, nonostante ciò, nemmeno per un attimo pensai di rivolgermi verso quello che consideravo il “sesso scortese”. E non posso certo dire che dal punto di vista affettivo la mia condizione di allora si differenziasse di molto da quella attuale. Così come sono convinto che vi sono tanti uomini fuori di qui, per i quali fare sesso con una donna non sia poi così all’ordine del giorno. Tuttavia, in quel periodo mai mi sfiorò l’idea che, forse, in qualche amico avrei potuto trovare l’affetto che mi mancava.

Sono sicuro che allora, se i miei coetanei avessero deriso di nuovo le persone sole e isolate, li avrei disapprovati con fermezza, oppure se qualcuno mi avesse proposto di riflettere sulla correlazione tra solitudine e omosessualità, non avrei esitato a dire che nulla avevano a che vedere l’una con l’altra; che molte persone rimangono sole ma non per questo cambiano i propri gusti sessuali; che tanti amano persone del proprio sesso ma non come conseguenza della solitudine; che l’omosessualità sicuramente è una cosa molto più profonda di un semplice ripiegare momentaneamente su una strada alternativa.

Mi si intrecciano nella mente questi frammenti di vita, mentre silenziosamente guardo il professore che, così come milioni di persone, continua a pensare che noi qui in carcere passiamo il tempo abbracciandoci, cerchiamo dell’affetto baciandoci e ricordiamo i nostri amori lontani scopando l’uno con l’altro. Mi scorrono davanti agli occhi, come in un film, tutti i colloqui che ho avuto con lui, in cui abbiamo discusso di storia, di guerre, di vita, di principi e di ideali, e immagino lui che, ogni volta che mi saluta, torna a casa sua, nelle braccia di sua moglie, sicuro che io, dopo il nostro colloquio, sono tornato tra le braccia del mio compagno di cella. Non riesco a trattenere un sorriso. Mi sembra improduttivo accogliere la sfida e cercare di convincerlo che le cose non stanno come pensa la maggior parte della gente, e come pensa lui. Accetto la realtà per quella che è.

Non faccio nessun tentativo per cancellare le tracce scolpite nel suo immaginario. Allora mi arrendo e, con un altro sorriso, porto il discorso sui nostri argomenti preferiti di storia dell’Albania e di diritto internazionale, ben sapendo che quando ci saluteremo con una forte stretta di mano, girerà le spalle immaginandomi, appunto, mentre ritorno tra le braccia del mio compagno di cella.

 

 

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