Posta celere

 

“Perdonatemi se comunque non riesco a perdonare chi uccide”

Corrispondenza da fuori a dentro. Ci scrive un lettore che, prima di conoscere il nostro sito, era convinto che in carcere ci fossero persone che meritavano tutto quanto di peggio si possa immaginare

 

a cura della Redazione

 

Quando un lettore, che non è un “addetto ai lavori”, né uno che verso le carceri e chi ci vive ha un atteggiamento in qualche modo di “vicinanza”, ci scrive e decide di condividere con noi alcune sue riflessioni, per noi questo è un vero successo, un segno che stiamo imparando a comunicare nel modo giusto con i cittadini, con quel mondo che qualche volta abbiamo difficoltà a definire: forse dei “liberi”, o dei “regolari”, o degli “incensurati”? Quello che segue è uno scambio di messaggi tra un lettore attento, curioso, con una sua idea, “severa” ma interessante, di come dovrebbero essere le carceri , e un detenuto della nostra redazione. Al centro dello scambio, un reciproco “riconoscersi”, e una riaffermazione dell’importanza di questo filo che lega il dentro al fuori.

la Redazione

 

Ho letto diverse testimonianze e diverse lettere di detenuti e devo dire che tutto quanto appreso mi ha stupito enormemente. Non solo perché ho avuto modo di allargare i miei orizzonti culturali, evitando così il perseguire in pregiudizi, ma anche per aver constatato quanto alla fine in un carcere ci sia più umanità di quel che si crede, umanità morale dei detenuti intendo. Delle condizioni carcerarie in Italia avevo già avuto sentore vedendo un po’ come andavano le cose nel carcere di Sant’Anna qui a Modena, ma non avrei mai pensato che gente che magari aveva fatto reati piccoli più per disperazione che per delinquenza, fosse trattata come descritto in queste pagine. Perdonatemi se comunque non riesco a perdonare chi uccide, in qualunque forma compia un omicidio o per qualunque movente: non ritengo che un omicidio sia una soluzione ai problemi sociali o familiari, non mi pare proprio.

Indipendentemente da questo però ritengo giusto che un carcere sia un luogo di disciplina e di correzione, ma non deve diventare un lazzaretto, un posto di tortura morale, un manicomio. La soluzione sarebbe secondo me, dato che la privazione di libertà è già un buon deterrente, fare in modo che il carcere diventi un posto dove si lavora, dove si studia e dove si vive un po’ dignitosamente e con un’organizzazione disciplinare di stampo militare. Secondo me improntare la rieducazione di un detenuto con le regole disciplinari delle caserme sarebbe un buon aiuto a quelle persone comunque definibili recuperabili. Perché una madre che ruba 1000 euro in una tabaccheria per sfamare i suoi figli deve subire lo stesso trattamento di una che invece i figli li ha ammazzati? Non mi pare molto sensato. Poi anche la questione degli affetti familiari è legittima. Perché negarli? Una persona che ha la possibilità di tenere contatti con la propria famiglia è una persona che non matura propositi di suicidio o di vendetta verso la società. Anzi, sono proprio i familiari che possono cercare di capire le cause che hanno spinto il congiunto a fare quell’errore che lo ha portato dentro, ed è proprio la famiglia che può magari perdonarlo, fargli capire che ha sbagliato e aiutarlo a reintegrarsi nella società una volta pagato il suo debito.

Sinceramente prima di trovare questo sito ero convinto, come tanti, che in carcere ci fossero persone che meritavano tutto quanto di peggio si possa immaginare, ma mi sono reso conto che non è così. Oddio, io non muoio certo dalla voglia di provare l’esperienza carceraria, ma ciò che ha vissuto quella povera donna che si è vista recapitare un mandato di cattura in fabbrica per un reato di 12 anni prima, mi ha lasciato senza parole, oltre che farmi gonfiare gli occhi, perché no, di giusta compassione. Non si può provare altro per un episodio così. E quelle sarebbero criminali?

A parte tutto sono contento di aver conosciuto questo sito, vi è una realtà spesso ignorata nella società e avere pregiudizi in Italia è facile come bere l’acqua, ma nessuno si preoccupa di imparare a distinguere il bicchiere dell’acqua e quello del vino. Poi ho un amico che è stato due anni in carcere solo per aver acquistato un motorino rubato, e l’ha acquistato da un meccanico. Non è assurdo tutto questo? L’amico in questione era, logicamente, incensurato. Ma! Comunque auguro un buon lavoro a voi tutti amici di Ristretti, ma sappiate che con questo sito siete sempre meno “ristretti”. Si spera che ci siano sempre più persone disposte ad accogliervi a braccia aperte quando varcherete il portone delle vostre case, e spero che non siate più visti come persone di serie C, persone di scarto, se vi siete ravveduti davvero e se cercherete di non ricaderci più.

Un saluto a tutti quanti e buon lavoro.

Massimo

 

 

Caro Massimo, siamo stati ben lieti di ricevere la tua lettera. Uno degli scopi principali della nostra informazione è proprio quello di infrangere il muro di pregiudizi che circondano il carcere. Se ogni tanto ci riusciamo, come nel tuo caso, significa che abbiamo lavorato bene e che la nostra fatica non è stata inutile, anche se riconosciamo che l’elemento più importante resta sempre l’intelligenza, l’apertura mentale e la disponibilità a cambiare idea del nostro interlocutore.

Se hai dato una scorsa al nostro sito, ti sarai certamente accorto che in nessun luogo abbiamo sostenuto che la società possa fare a meno delle galere. Il messaggio che cerchiamo di far passare è che in prigione sono sempre e comunque chiuse delle persone, non alieni mostruosi. Il tuo amico che ha avuto quella sfortunata disavventura giudiziaria, con relativa carcerazione, è e resta il tuo amico, la persona che conosci. E tale è restato anche mentre era rinchiuso nella sua cella. Non è “un ricettatore”, non appartiene alla categoria dei “ricettatori”. Non esiste una categoria del genere, così come non esiste una categoria omogenea dei “ladri” o degli “omicidi”. In carcere ci sono solo persone che hanno commesso un reato, persone ciascuna con una propria storia, ciascuna con le proprie esperienze, ciascuna con le proprie tendenze, ciascuna con le proprie attitudini, le proprie speranze, i propri timori. Ogni persona è un caso a sé. Sembra strano, ma questa è una verità che spesso è difficile far capire anche agli stessi carcerati.

Molte volte dentro si sente dire: “Guarda quei due: hanno fatto lo stesso reato, hanno preso la stessa pena. Ma il Magistrato di Sorveglianza a uno ha concesso i permessi premio e all’altro no”. E gli stessi detenuti tendono a ragionare per categorie senza comprendere che, dietro al differente trattamento nei benefici di legge, ci sono storie, personalità e percorsi rieducativi diversi. In ogni caso, sembra che tu abbia individuato il dato oggettivo più importante: cioè che le persone rinchiuse in carcere, prima o poi, tornano in libertà, prima o poi rientrano nella società civile e, se le si tratta come animali, il rischio è che rientrino peggiorate e non “rieducate”. Il problema non è la “certezza della pena”, la giustizia può essere lentissima, ma è sempre certa e inesorabile, come hai potuto leggere. Il problema è che la pena spesso rischia di “prelevare” dalla società delle persone più o meno integrate, magari ad anni di distanza da uno sbaglio commesso, per reinserirvi più tardi dei completi disadattati, sradicati da lavoro, famiglia, affetti e amicizie.

Per quanto riguarda la tua idea di come dovrebbe essere il carcere, ad essere sinceri non capiamo bene cosa intendi per “regole disciplinari di stampo militare”. A noi che ci viviamo pare che il carcere sia già abbastanza militaresco. Ti facciamo solo un esempio: se tu fumi dove non è permesso rischi di prendere una multa. Se un detenuto accende una sigaretta dove non è consentito, oltre alla multa, riceve anche un rapporto disciplinare che gli impedisce di usufruire di 45 giorni di liberazione anticipata (la cosiddetta buona condotta). Una sigaretta costa cioè, in un certo senso, un mese e mezzo di galera in più. Ma forse ti riferivi a quegli esperimenti che stavano conducendo negli Stati Uniti dove, per pene lievi, fino a due-tre anni, era possibile scegliere in alternativa di sottoporsi a sei mesi di durissimo addestramento di tipo militare.

Non sappiamo se questi esperimenti continuino e con che esiti. Ma in Italia cose del genere non sono possibili, e poi quella tipologia di detenuti, perlopiù tossicodipendenti, sono già destinati come forza lavoro gratuita per le comunità, alcune delle quali fatturano ormai miliardi. Anzi, la recente legge ex-Cirielli, che colpisce duramente i recidivi, anche nei benefici di legge, è stata modificata pochi giorni dopo essere stata votata proprio perché, dato che i “recidivi” sono perlopiù poveracci tossicodipendenti con alle spalle decine di piccoli reati fatti per necessità (nessuno ha fatto notare che Brusca, per esempio, non è recidivo, lo hanno beccato una volta sola…), alcune comunità rischiavano di vedersi private della “materia prima”.

Graziano Scialpi

 

 

Ciao a tutti, torno a scrivere qui dopo qualche settimana.

Nel frattempo ho continuato a seguire il vostro sito e devo dire che ogni giorno, oltre a scoprire nuove cose sul vostro mondo, scopro anche in me stesso un cambiamento radicale nel modo di rapportarmi a voi e al mondo carcerario. È  vero che in carcere ci sono persone che hanno commesso reati, che hanno delle vittime sulla coscienza, che hanno sbagliato, trasgredito e violato e che devono comunque pagare per quello che hanno fatto, però la cosa che mi ha colpito di più è come molti cambiano di fronte a questa esperienza dentro il carcere (e non sempre è un male questo), ma la cosa che più mi fa stare male come cittadino libero è vedere come la società riaccoglie queste persone una volta scontata la pena.

Io ho lavorato tre anni per una cooperativa sociale come tecnico informatico: lavoratore regolare con tanto di contratto di categoria. Non sono entrato come “affidato”: non ho pendenze di alcun genere con la giustizia, per mia fortuna. In questa cooperativa ho conosciuto persone in affidamento, ex-detenuti anche ex-tossicodipendenti ancora sotto cura di metadone con affidamento gestito dal Ser.T. Ebbene vi posso garantire che questi due ragazzi sono due degli amici più cari e più onesti coi quali ho avuto a che fare, e se devo fare delle preferenze su quali persone affidare o prestare dei soldi o dare massima fiducia, be’ questi sono loro. Ad uno di questi ho fatto un debito per un acquisto di un PC per lui, e il debito l’ho fatto a nome mio e le rate arrivavano a me. Certo ho corso un bel rischio: lui poteva rifiutarsi di pagare, ma cosa ci avrebbe guadagnato? Per conservare 77 euro al mese per due anni avrebbe perso un amico che gli aveva dato coraggio di vivere e un’amicizia sincera. È stata, sinceramente, la persona più onesta ed affidabile con la quale ho avuto a che fare. Cari detenuti, per vostra fortuna fuori non siamo tutti pieni di pregiudizi, cattivi pensieri o ritrosia nei vostri confronti.

Per come la vedo e la penso io, voi siete persone con le quali la sorte, la vita non sono state generose anche se la colpa è pure vostra, di voi stessi, e siete persone che, avendo maturato l’esperienza carceraria non si sono fatte indottrinare su cattive strade, e se la lezione della privazione di libertà è servita, siete le persone più sagge e mature con le quali avere a che fare, perché siete comunque persone che sanno cosa vuol dire soffrire. Non deprimetevi mai e sappiate che fuori ci sono tanti come me pronti ad aiutarvi e a non farvi sprofondare nella solitudine, che forse diventa la pena accessoria più grave, dopo quella ufficiale già scontata. Ho letto che a volte qualcuno è tornato dentro quasi facendolo apposta perché fuori la vita è più inferno che dentro. Beh è proprio questo che dobbiamo evitare: uscire dal carcere deve essere speranza di vita migliore, la libertà deve far vivere.

 

Massimo

 

 

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