Parliamone

 

Erika ed Omar: informazione, disinformazione o speculazione?

 

Alcune riflessioni sulle notizie, spesso distorte o travisate, che molti media diffondono non appena si ipotizzano permessi premio e benefici penitenziari per le persone detenute, soprattutto per quelle condannate per reati gravi e note alla cronaca

 

A cura di Marino Occhipinti

 

Ultimamente si è sentito parecchio parlare, come se si trattasse di cosa fatta, dell’imminente libertà di Erika ed Omar, i due ragazzi condannati per il cosiddetto “massacro di Novi Ligure”. In realtà si tratta della probabile (futura) concessione di permessi premio, che sarà strettamente legata, così come ha stabilito il Tribunale per i minorenni di Torino, ad una attività di volontariato per la quale dovrà essere presentato un apposito ed idoneo progetto. Cominciare a fruire dei permessi premio significa avere la possibilità di uscire dal carcere per un massimo di sessanta giorni l’anno, per chi ha commesso i reati da minorenne, mentre per gli adulti le giornate di “libera uscita” si riducono a quarantacinque. Non si tratta quindi della fine della detenzione.

I permessi premio cominciano quasi sempre con gradualità, con brevi uscite in “struttura protetta” o accompagnate dai volontari nel corso di attività. Si deve sottostare a tutta una serie di divieti, di condizioni e di limitazioni, le “prescrizioni” appunto, stabilite caso per caso dal Magistrato di Sorveglianza, non facili da rispettare. In caso di trasgressione – essere in possesso o fare uso di un telefono cellulare rientra tra queste; incontrare per caso un amico con il quale hai condiviso la cella per anni e fermarti per un saluto, non foss’altro per educazione, è una trasgressione perché non si possono frequentare pregiudicati – il beneficio viene revocato ed a quel punto sarà indispensabile una lunga attesa per riuscire a riottenerlo.

I permessi premio hanno lo scopo di avviare i detenuti ad un graduale percorso di riavvicinamento al mondo esterno che, prima o poi, dovrà comunque riaccogliere queste persone. Per quanto possa apparire immorale e scandaloso, dare dei segnali di riavvicinamento alla libertà, con patti e regole precise, ad un essere umano che ha commesso un reato, quando questi manifesta la volontà di reinserirsi, è un passaggio indispensabile per incentivarlo a migliorarsi, per spingerlo ad un cambiamento in positivo.

In teoria i permessi premio si possono ottenere dopo aver scontato almeno un quarto di pena per i reati più lievi e almeno la metà per quelli più gravi. Nella pratica succede che questi termini minimi si innalzino notevolmente: tra la domanda e la prima risposta, spesso negativa, intercorre la cosiddetta “istruzione” del fascicolo. Si tratta di accertamenti vari ed a volte complessi come la verifica della pericolosità, l’assenza di collegamenti con la criminalità, il parere del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza, la redazione dell’osservazione scientifica della personalità da parte degli operatori del carcere dove confluiscono tutte le informazioni oggettive e soggettive, compresa la correttezza del comportamento in carcere e le motivazioni che hanno indotto alla commissione del reato… C’è veramente da perdersi.

 

Nelle comunità si devono seguire regole ferree, non sono collegi

 

A contorno dell’annuncio sui presunti permessi ad Omar e a Erika si sono sentite e si lette le notizie più disparate: “È stata loro accordata la liberazione anticipata, e la condanna di Omar è scesa da quattordici a dieci anni e quella di Erika da sedici a dodici…”. Un calcolo piuttosto strano, perché, ammesso che sia stato concesso il beneficio in questione, meglio conosciuto come “sconto di pena per buona condotta”, ciò può aver abbassato la pena per non più di 315 giorni.

I conti sono presto fatti, dal momento che la diminuzione è concessa – sempre che il comportamento carcerario sia stato ineccepibile e la persona abbia partecipato alle attività rieducative, quindi non in maniera automatica ma previa attenta “osservazione” e conseguente valutazione del Magistrato di Sorveglianza – per un periodo pari a quarantacinque giorni per ogni semestre di detenzione effettivamente espiata. Erika ed Omar, che hanno commesso il reato nel febbraio del 2001, possono quindi beneficiare della liberazione anticipata per sette semestri, 315 giorni. Un periodo molto lontano dai quattro anni sbandierati dagli organi di informazione. Questa è solo la prima e forse la più banale delle incongruenze relative alla polemica su Erika ed Omar, sufficiente però a far comprendere la superficialità con la quale alcuni media diffondono le notizie.

Nella trasmissione Porta a porta, durante la quale si è discusso sull’opportunità o meno di concedere i benefici ai due ragazzi, si è polemizzato, per esempio, sul ruolo delle comunità. Si è cercato di farle apparire come dei collegi dove i minori che hanno commesso reati, quando i giudici li “affidano” a tali strutture per scontare la pena come alternativa alla detenzione in carcere, possono uscire e scorrazzare liberamente senza controllo alcuno. È stato grazie all’intervento puntuale e focoso di don Mazzi, che si è potuta chiarire la falsa indicazione: i ragazzi devono sottostare alle regole limitative della libertà stabilite dal magistrato, oltre a quelle che già disciplinano – e spesso in maniera ferrea – la vita di comunità.

Insomma, ha garantito don Mazzi, la vita in comunità è molto dura, quasi quanto quella che il minore dovrebbe trascorrere in carcere. Si tratta “semplicemente” di una modalità diversa di espiazione della pena, con lo scopo di aiutare il giovane che ha sbagliato, facendolo crescere in un contesto diverso da quello prettamente detentivo. D’altronde è la stessa legislazione minorile a prevedere un utilizzo limitatissimo della detenzione in carcere, da applicare solamente come extrema ratio, suggerendo invece ai giudici, ove possibile, l’uso di forme alternative di pena, studiate ad hoc a seconda dei casi.

 

Non ho mai conosciuto un assassino che avesse la faccia del vincitore

 

La giornalista Barbara Palombelli, presente a Porta a porta, ha sostenuto invece che quando ai giovani autori di crimini efferati vengono inflitte condanne relativamente lievi, questi si ergono spesso ad eroi. Si presentano in comunità o in carcere come dei vincitori, vantandosi con gli altri detenuti e con gli amici di averla fatta franca, vanificando così, di fatto, l’effetto dissuasivo della pena. Eppure in oltre dieci anni di carcere ne ho conosciuti di detenuti, anche abbastanza giovani, condannati per reati gravi – per esempio omicidi maturati nell’ambito familiare, commessi in un attimo di follia, o durante una rapina – ma non ne rammento neppure uno, dico uno, che avesse la faccia del vincitore.

Non so quali carceri abbia frequentato Barbara Palombelli e quali detenuti abbia potuto esaminare ed osservare, ma io che in carcere ci vivo, nel viso di chi ha ucciso ho sempre e soltanto letto e visto disperazione, angoscia, sofferenza, rammarico. Mai soddisfazione, ed è per questo che mi amareggiano tali asserzioni, che non mi pare corrispondano alla realtà. Non me ne voglia Barbara Palombelli, ma davvero non capisco come possa immaginare – parole sue – il senso di impunità che passa per la testa di un assassino. Lo sostengo con convinzione perché, malauguratamente, di un reato tanto grave porto il peso sulla coscienza tutti i giorni, attimo per attimo.

Neppure se mi avessero assolto, anziché condannarmi all’ergastolo, mi sarei sentito un vincitore. Dopo aver ucciso, e lo dico nonostante siano trascorsi diciassette anni dal fatto, ti si spegne qualcosa dentro. Una parte di te se ne se ne va via. Per sempre. Sembra che i tuoi occhi non riflettano più la loro luce naturale, che il tuo cuore non trovi più il sorriso e la durata della condanna è l’ultimo degli affanni e delle inquietudini ad assalirti. Non appena cerchi di rilassarti anche solo per un attimo ecco riaffiorare prepotentemente i ricordi. Chiudi gli occhi e vedi l’immagine della persona che hai ucciso. Quando la sera cala il silenzio e vorresti finalmente riposare la mente… cominciano invece a riecheggiarti in testa le urla strazianti di una madre, di quella madre, che al processo non regge alla particolareggiata descrizione di come le è stato ucciso il figlio. E tu, che sai di aver causato tanto dolore, trascorri notti insonni… Ma quali vincitori… è la disfatta più completa. Proprio oggi pomeriggio ho sfiorato l’argomento con L., un mio compagno di sezione, condannato a “soli” quindici anni per omicidio. Non l’ho visto “esultare” per la pena mite, ammesso che quindici anni siano pochi, quanto piuttosto tormentarsi per aver tolto la vita ad un uomo. “Sai” mi ha detto con la voce incrinata, “anche una volta scontata la pena non avrò mai più il coraggio di tornare al mio paese. Non riuscirei a guardare negli occhi le persone che conoscevo…”. E su quella frase abbiamo preferito troncare il dialogo per non intristire ancora di più la nostra giornata.

 

La vera sfida è riuscire a capire che una persona normale può sbagliare

 

Un’altra affermazione mi è rimasta impressa, sempre della Palombelli. Commentando la scarcerazione di un diciassettenne, avvenuta dopo soli sette mesi che questi aveva ammazzato un altro ragazzo (bisognerebbe anche spiegare che l’omicida rimane comunque in attesa di giudizio e che dovrà poi scontare la condanna che gli verrà inflitta), ha detto che lei, madre molto severa, non darebbe mandato ad un avvocato, dopo così poco tempo, per chiedere la remissione in libertà del proprio figlio qualora si fosse macchiato di un grave delitto.

Mi è subito venuta in mente una lunga e-mail, giunta sul nostro sito www.ristretti.it un paio di anni fa, poi pubblicata anche su Ristretti Orizzonti. Era di un giovane agente di polizia che descriveva, con dovizia di particolari, il suo stato d’animo: erano i sentimenti di un poliziotto che si ritrova, improvvisamente, a essere anche parente di un detenuto. Ne voglio citare un pezzo, di quella e-mail, perché davvero fa riflettere: “Se una settimana prima che incominciasse la mia ‘doppia’ vita (da poliziotto e da parente di un detenuto) qualcuno mi avesse chiesto che cosa avrei fatto, se mi fosse accaduto quanto poi si è verificato, gli avrei risposto che quel parente ‘avrei dimenticato’ di averlo. Fortunatamente, invece, ho cominciato da subito a correre contro corrente; ho avuto la fortuna di iniziare a crescere ed arricchirmi (‘poveri’ quelli che non hanno la fortuna di capire!) di un’esperienza non comune: capire che la vita non è scontata… capire tante cose che non avresti mai accettato… capire che una persona, ‘normale’, può sbagliare… Non è stato facile, ci sono voluti anni perché io giungessi a capire quanto era accaduto, non è un’esperienza che capita a tutti e non è semplice accettare le cose che non hai scelto di vivere. È sempre facile dire ‘io avrei fatto così, io mi sarei comportato così’, ma quando capita a te è veramente tutto diverso... è veramente un altro mondo, un mondo parallelo, e solo chi lo vive e lo affronta dalla parte ed a fianco del detenuto, può capire”.

Detto ciò mi preme però, a questo punto, sgombrare il campo da possibili equivoci e da eventuali strumentalizzazioni. Lo faccio condividendo il pensiero di Edoardo Albinati, scrittore ed insegnante nel carcere romano di Rebibbia, quando afferma che “i detenuti non sono affatto dei soggetti deboli, dei poverini”. Le vittime sono ben altre, aggiungo io, e cioè coloro che pagano sulla propria pelle, e spesso in maniera drammatica ed irreparabile, per i nostri errori. Ma ciò non dovrebbe diventare la leva per sollevare ogni volta un polverone e “sbranare”, puntualmente e indistintamente, tutta la categoria di chi sta in carcere.

Comprendo assolutamente lo sgomento e l’incredulità dei cittadini di fronte alla seppur parziale, temporanea e supercontrollata “libertà” che viene a volte concessa agli autori di crimini gravi mediante i permessi premio, e ancor di più comprendo il desiderio di vendetta delle vittime, quando ancora ci sono, e dei loro parenti, che hanno tutto il diritto di dire e di manifestare ciò che in qualche modo può aiutarle a stare meglio. Ma allo stesso tempo, a meno che non si voglia una pena svincolata e slegata da finalità e progetti, e cioè una sanzione soltanto dura e chiusa – quindi inevitabilmente riproduttrice all’infinito di se stessa e basta – è opportuno passare attraverso l’applicazione dei percorsi premiali previsti dalle leggi esistenti.

 

Lasciare il carcere per qualche ora non significa tornare liberi

 

Lasciare il carcere per qualche ora, per incontrare la propria famiglia o partecipare a qualche attività di volontariato, non significa tornare liberi. È semplicemente un atto di umanità delle istituzioni verso chi ha smesso di essere pericoloso per la società. E comunque non si finisce di pagare una colpa solo perché si esce temporaneamente dal carcere: la pena continua e la giustizia è e sarà sempre dalla parte delle vittime e dei cittadini onesti, come è giusto che sia.

Un guazzabuglio, così mi è parsa alla fine la trasmissione Porta a porta. Per focalizzare quale beneficio sarà eventualmente concesso ad Omar è stata necessaria una pausa pubblicitaria. Lo psichiatra Paolo Crepet, tirando ad indovinare, ha sostenuto che in questi quattro anni “Erika non può essere cambiata facendo buchi alle torte e dialogando un’ora a settimana con una psicologa”. Il ministro della Giustizia, carte alla mano, l’ha prontamente smentito sciorinando con dovizia di particolari le attività che Erika svolge e il trattamento terapeutico al quale è costantemente sottoposta.

Del ministro ha però stonato la lunga insistenza sul fatto che la “sete di giustizia dei cittadini deve essere soddisfatta”. Il magistrato per i minorenni Simonetta Matone ha invece cercato di evidenziare le maglie larghe delle comunità, dalle quali i minori responsabili di reati “possono addirittura essere autorizzati ad uscirne per frequentare le scuole”. Insomma, una trasmissione piena di esperti di giustizia e di minori. Una tavola rotonda dove, mentre tutti sapevano cosa Erika ed Omar non dovevano fare, quasi nessuno aveva invece idea di cosa fosse meglio per loro, come del resto succede troppo spesso quando l’argomento riguarda il carcere ed i detenuti.

Propongo una discussione più approfondita: non può essere sempre e solo l’analisi della severità della condanna l’argomento in ballo. C’è un problema di idoneità e serietà della pena di cui bisogna iniziare a farsi carico. Il carcere, per quanto severo possa essere, non è automaticamente una risposta idonea e seria al reato. Con mezzi non sempre adeguati e “civili” riesce magari a contenere la pericolosità di chi ha commesso un reato, ma troppo frequentemente restituisce alla società le persone uguali a come sono entrate. In alcuni casi anche peggiori.

 

 

Riflessioni dal carcere sul “caso Jucker” e su altri casi analoghi

 

Ma qualcuno davvero pensa che un uomo ammazzi la persona che ha comunque, in un qualche momento della sua vita, amato, e poi si freghi le mani soddisfatto per aver preso “soltanto” sedici anni di galera?

 

di Stefano Bentivogli

 

Da omicidio aggravato ad omicidio semplice per il riconoscimento delle attenuanti che compensano le aggravanti, poi un terzo di pena in meno per il rito abbreviato, da trenta a sedici anni di carcere. Su questa decisione della Corte di Appello di Milano sul caso Jucker si sono aperte perplessità, critiche ed indignazione. Si scopre allora che la giustizia non è una cosa semplice, che non è mai perfetta, che è gestita da uomini che cercano di applicare dei codici interpretandone il senso, che non accontenta quasi mai nessuno.

Dietro le sbarre del carcere, sembrerà incredibile, i commenti su questa condanna non sono stati molto lontani da quelli che sono echeggiati fuori, alla televisione e sui giornali. Credo sia lecito e naturale commentare fatti di questo genere, ma chi fa informazione dovrebbe spiegare un po’ di più come stanno le cose. Cos’è per legge, ad esempio, l’incapacità di intendere e volere al momento della commissione del reato?

Qualcuno dovrebbe avere il coraggio di spiegare anche che in alcuni casi, dove tale incapacità viene accertata, l’imputato può venire assolto. Non sarà mai che la Procura di Milano è venuta ad un accordo con la difesa per evitare l’assoluzione? Io non so come sono andate le cose, so però che sono meno semplici di come sono state presentate, di qui l’invito agli organi di informazione ad essere più puntuali: se la pena è troppo lunga o troppo breve è un’opinione che dovrebbe maturare a fronte della spiegazione chiara di come stanno le cose, e non essere precostituita dallo stato d’animo evocato dalla modalità del delitto. Lo stesso vale per gli sconti di pena e per i permessi premio, che in questo caso, come in quello di Omar ed Erika, sono stati un bell’esempio di “disinformazione militante”. E invece non c’è traccia di opinioni “maturate” davvero grazie anche a un’informazione attenta e precisa, e si trova ovunque quel “comune sentire” che di comune ha soprattutto la frettolosità e la superficialità dei giudizi.

Anche a me quella condanna ha fatto riflettere, ma sulla nostra capacità di giudicare un delitto assurdo come l’uccisione di una persona amata. La mente ed i sentimenti umani sono formidabili quanto possono essere terribili, e fare giustizia in termini “contabili” di fronte alla mancanza di senso delle azioni di una persona non sarà mai una cosa semplice.

I giudici sono delegati a questo compito. Prima di condannare anche loro, cerchiamo almeno di capire qual è stata la loro valutazione, e chi per lavoro deve raccontare alla gente come sono andate le cose faccia informazione, spieghi, non faccia solo eco alle opinioni, queste se le faranno comunque le persone, a ragion veduta ed informate.

La gran parte degli omicidi poi avviene tra le mura di casa, tra persone legate da affetti, e spesso si parla della depressione come causa scatenante. Il continuo e giusto richiamo ad una tutela delle vittime e dei parenti, per i quali nei fatti nessun risarcimento reale è possibile per il danno subito, continua a sovrastare l’osservazione del dilagante disagio mentale che emerge da questi delitti.

È una realtà che dovrebbe far riflettere seriamente sui nostri stili di vita, sul nostro reale benessere, perché gli esiti rischiano di diventare poi drammatici. Ed è insensato liquidare la faccenda ogni volta con la contabilità penale, fatta troppo spesso senza la minima cognizione di causa.

Una considerazione, poi, va fatta su certe affermazioni, che si sono sentite in alcuni telegiornali, in particolare Studio Aperto: “L’assassino ora è felice”, “l’assassino è soddisfatto”. Ma qualcuno davvero pensa che un uomo ammazzi la persona che ha comunque, in un qualche momento della sua vita, amato, e poi si freghi le mani soddisfatto per aver preso solo sedici anni di galera?

Una seconda considerazione è che è abbastanza assurdo fare un’informazione in cui si tratta un individuo, che ha in ogni caso manifestato un pesante disagio psichico, come una persona “normale” assetata di sangue.

La terza e ultima considerazione è che ci sono paesi, come la Germania, nei quali la persona incensurata che commette un omicidio viene sì condannata all’ergastolo, ma quella pena viene poi automaticamente ridotta e diventa il cosiddetto “piccolo ergastolo”, quindici o al massimo venti anni. La civilissima Germania non pare scandalizzarsi, dunque, dei quindici anni di pena per un omicidio che non abbia a che fare con scelte legate alla delinquenza organizzata, ma sia l’espressione di una mente che ha smesso di “funzionare normalmente”.

 

 

L’ultima moda dell’informazione: le “ingiuste scarcerazioni”

 

Palermo: a proposito delle polemiche intorno agli arresti domiciliari concessi a padre e figlio, che hanno picchiato e ucciso un automobilista che li aveva tamponati

 

A cura di Graziano Scialpi

 

Due auto si tamponano a Palermo. Da una delle due auto scendono padre e figlio e iniziano a picchiarsi con l’altro automobilista, che muore a causa delle percosse ricevute. I due, piccoli imprenditori incensurati, vengono arrestati. Dopo quattro mesi di custodia cautelare in carcere, il Gip concede loro gli arresti domiciliari. Nulla di strano o di fuori dall’ordinario. Una notizia da decima pagina del quotidiano locale. Eppure sui mass media nazionali si scatena il finimondo: l’ennesimo caso che farà discutere! Interviste alla vedova che chiede giustizia e lancia una pesante accusa: mi hanno offerto dei soldi! Ma come: ci sono persone che per un piccolo furto fanno tre-quattro anni di carcere e loro sono liberi dopo quattro mesi!

E non si tratta che dell’ultimo caso che ha avuto risonanza sui telegiornali nazionali, ormai contagiatisi a vicenda, come sempre accade, dall’ultima moda dell’informazione: le “ingiuste scarcerazioni”. E siccome scatta la gara a chi suona più forte la grancassa, ecco che partono i sondaggi tra la gente comune e le interviste ai “vip” su come bisognerebbe riformare il sistema penale e penitenziario. E anche qui scatta la gara a chi è più severo: ci vogliono pene più pesanti, ci vuole la “certezza della pena”, bisogna abolire i benefici di legge. Roba da far rizzare i capelli in testa: persone che non hanno la più pallida idea di come funziona il nostro sistema penale e penitenziario si permettono non solo di affermare che deve essere riformato, ma anche di dire come deve essere riformato. E i politici si accodano in nome del sacro “sentire comune”. Ma si tratta di cose serie o dell’ennesima manifestazione da repubblica delle banane?

 

Proviamo a dare la notizia come avrebbe dovuto essere riportata

 

I due assassini sono stati arrestati e dopo l’arresto hanno confessato di aver aggredito il malcapitato automobilista che li aveva tamponati. Uno dei due si è assunto la responsabilità di avergli sferrato i colpi che gli sono stati fatali. È stata svolta l’autopsia. Sono stati sentiti i testimoni e il Pubblico ministero ha formulato l’accusa di omicidio preterintenzionale, cioè: secondo l’accusa i due avevano sì intenzione di picchiare l’uomo, ma non certo di ucciderlo. Il caso tipico di questo reato è: tizio spinge caio, caio cade a terra in conseguenza della spinta, batte la testa e muore. Un reato grave, ma certo non grave come l’omicidio volontario.

A questo punto non sussistevano più le necessità della custodia cautelare in carcere che sono: pericolo di fuga, pericolo di inquinamento delle prove e pericolo di reiterazione del reato. Se non è presente alcuna di queste tre condizioni, il sospettato o l’accusato deve essere rimesso in libertà, perché per la legge è innocente fino a che una sentenza definitiva non stabilirà il contrario. Inoltre bisogna considerare che i due arrestati in questione erano incensurati ed avevano una regolare professione. Avrebbero potuto essere scarcerati immediatamente, in attesa del processo.

Eppure hanno trascorso in carcere quattro mesi in custodia cautelare e il Gip non li ha rimessi a piede libero, li ha mandati agli arresti domiciliari. Cioè non possono uscire di casa altrimenti verranno riportati in galera. Ma la loro vicenda non è finita qui. Non “hanno fatto solo quattro mesi di galera”. Adesso dovranno affrontare il processo, anzi i processi. E qui sì che ci sarebbe da gridare allo scandalo. Perché passeranno anni prima che un tribunale emetta la sentenza di condanna per il delitto che i due hanno già confessato.

 

La pena è certa, sempre. Sono i tempi che non sono mai certi

 

Occorreranno cinque, sette, magari dieci anni prima che i due palermitani varchino di nuovo le porte del carcere per scontare la condanna. E non sarà una condanna lieve, perché il solo omicidio preterintenzionale (articolo 584 Codice penale) prevede la reclusione dai dieci ai diciotto anni. Ed a questo bisogna aggiungere l’aggressione, le percosse, le aggravanti di aver commesso il fatto in più persone e per futili motivi. La scarcerazione dei due palermitani non è la fine, è solo l’inizio dell’iter giudiziario che li condurrà in carcere. E non bisogna scordare l’altro scandalo: si sono offerti di risarcire il danno. Ma quale scandalo? È previsto dalla legge, la stessa legge che considera un’aggravante, che si paga con una pena maggiorata, la povertà che non consente di risarcire il danno alle vittime (alla faccia dell’eguaglianza di fronte alla legge).

 

Ma cosa sarebbe accaduto “in un paese serio”?

 

Cosa avrebbero fatto a quei due in un paese a “tolleranza zero”? Come avrebbero trattato i due palermitani negli Stati Uniti delle condanne a morte? È molto semplice: i due sarebbero stati arrestati e la mattina seguente sarebbero comparsi davanti a un giudice che avrebbe fissato la data del processo (non oltre un mese) e li avrebbe scarcerati immediatamente dietro cauzione. Negli Stati Uniti quei due avrebbero trascorso in cella solo ventiquattro ore! Eppure non c’è nessuno che si sogna di dire che in America se uccidi qualcuno non vai in galera perché tanto c’è la cauzione. Nessuno si sogna di dirlo perché gli italiani conoscono il sistema penale statunitense molto meglio di quanto conoscono quello del paese in cui vivono. E lo conoscono meglio perché i telefilm americani spiegano il sistema penale del loro paese molto più correttamente di quanto molti giornalisti nostrani facciano con il nostro sistema. Quindi l’opinione pubblica italiana è vittima dell’ignoranza dei giornalisti?

Sveliamo un piccolo “segreto”. Per diventare giornalisti professionisti bisogna sostenere un esame di stato. Parte integrante di questo esame è proprio il sistema penale italiano del quale bisogna conoscere il funzionamento. Oltretutto l’Ordine dei giornalisti organizza per i candidati dei frequentatissimi seminari di preparazione di una settimana che si tengono presso delle sedi universitarie come quella di Urbino. Nel corso di questi seminari gli aspiranti giornalisti possono seguire delle lezioni tenute da avvocati e da presidenti di Corti d’appello che spiegano loro ogni particolare aspetto dei vari tipi e gradi di processo e della custodia cautelare. Svelato questo piccolo segreto ripetiamo la domanda: cosa c’è dietro a questa mala informazione la cui unica conseguenza logica è la barbara giustizia di piazza? Anzi facciamoci un’altra domanda. La legge non ammette ignoranza, ma chi insegna la legge agli italiani?

 

 

Il “comune sentire” e la durata delle pene

 

di Giovanni Tamburino

Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia

 

Quello che ci siamo proposti è di indagare quanto ci sia di “fatale” nel ricorrere al carcere come sanzione di un reato. Non ci sono però in proposito delle spiegazioni “monofattoriali”, bisogna piuttosto ricorrere a spiegazioni multifattoriali, complesse. Anche queste richiedono un approccio attento, critico, direi quasi umile. Una di esse è certamente il modo con cui la criminalità viene avvertita dalla società. Non vi è dubbio che questo è un fattore rilevante: la risposta sanzionatoria è una variabile che dipende anche, e sottolineo “anche”, perché è sbagliato pensare a un unico fattore, dal modo in cui la criminalità viene avvertita dalla società. E rispetto a questo modo noi inevitabilmente andiamo col pensiero ai massmedia. Perché non vi è una società che avverte un fenomeno, ma vi è una società che rileva ciò che le viene fatto avvertire. E questo va detto per una responsabilizzazione adeguata, perché ognuno si ponga di fronte al suo tasso di responsabilità e ne risponda. Io personalmente ritengo che si faccia bene a esprimere preoccupazione sulla criminalità. Io penso, però, anche che a volte nell’informazione vi sia un’enfasi eccessiva e che comunque vi sia una pigrizia nel descrivere in modo approfondito alcuni fenomeni sociali, e quello della criminalità in particolare.

Credo che la constatazione per cui in Italia la durata media delle sanzioni detentive è notevolmente aumentata ed è anche notevolmente superiore a quella di altri paesi, sia legata in parte anche a questo fatto, al modo cioè in cui la società avverte il pericolo rappresentato dalla criminalità. Recentemente, per esempio, c’è stata tutta una polemica, assolutamente sciocca, nei confronti della magistratura, che sarebbe stata di mano troppo leggera nell’irrogare le sanzioni.

Personalmente penso che questo tipo di polemica con l’andar del tempo lasci un “deposito”, che concorra poi a far pensare che effettivamente la risposta sanzionatoria debba essere più elevata. E guardate che questo è un campo in cui effettivamente il giudice ha uno spazio di discrezionalità, perché ci sono dei margini tra il minimo e il massimo della pena che vengono gestiti anche a seconda di quello che è, e questo non mi scandalizza affatto, un sentire diffuso, un sentire sociale.

Questo non è affatto scandaloso, perché qui non si tratta, come qualcuno dice facendoci regredire di secoli, di interpretare la legge secondo il sentire popolare, cioè in un modo che assomiglia, come disse molto bene tempo fa Zagrebelsky, al processo di Barabba, che si concluse “bene” come voleva la folla, ma non si concluse certamente bene secondo l’interpretazione giusta della legge. Però là dove ci sono dei margini di discrezionalità, il giudice, che non è solo, che non è un essere staccato dalla società, li riempie, e anche legittimamente, secondo un sentire comune.

Ecco allora che questa può essere una ragione che concorre alla spiegazione delle pene più lunghe, a parità della gravità del reato.

(Da un intervento alla Tavola Rotonda “La situazione carceraria in Europa”, organizzata dall’Università di Padova, dalla Fondazione Lanza e dal Gruppo Operatori Volontari Carcerari).

 

In un milione di piccoli pezzi

 

Parliamo di tossicodipendenza a partire da un libro in cui l’autore descrive i suoi primi ventitré anni di vita, di cui ben dieci in preda all’alcool e alle droghe. A commentarlo, un detenuto che la droga, la voglia di uscirne e le ricadute, la comunità e il carcere li ha sperimentati direttamente

 

A cura di Stefano Bentivogli

 

Non so che effetto possa fare, ad una persona che non conosce la dipendenza da alcool e stupefacenti la lettura di un libro come “In un milione di piccoli pezzi” di James Frey. So però che anche per me, che pure l’argomento lo conosco fin troppo bene, leggerlo è stata un’esperienza faticosa e snervante. è scritto infatti in maniera convulsa e a volte caotica: frasi sparate una dietro l’altra, spesso senza un aggancio logico; dialoghi che irrompono come lampi nella narrazione indiretta, spiazzando continuamente il lettore; una punteggiatura quanto meno eccentrica, con uno sterminio di punti e quasi neanche una virgola… Di libri un po’ strampalati mi era già capitato di leggerne altri, ma in nessun caso la loro “digestione” si era rivelata così combattuta. Leggere “In un milione di piccoli pezzi” è stato infatti una continua battaglia, fors’anche perché mi sentivo troppo personalmente coinvolto in una storia che – pur diversissima dalla mia – ha con essa molti punti d’incontro.

L’autore parla in prima persona dei suoi ventitré anni di vita, di cui ben dieci in preda all’alcool e alle droghe, dilungandosi soprattutto sui due mesi passati in una clinica per disintossicarsi. Una clinica degli States molto diversa dalle strutture terapeutiche che ho conosciuto io, in Italia, sia  per ambiente che per tipologia di persone, ma che tuttavia ha con esse fatali punti in comune, se non altro perché le metodologie di disintossicazione adottate in Italia derivano perlopiù da quelle sperimentate molti anni prima in America, dove infatti sono nati gli “Alcolisti Anonimi” e “I dodici passi”, che per molti continuano a rappresentare ancora oggi i “testi sacri” contro la dipendenza.

 

Una crisi d’astinenza è come  respirare senza ossigeno

 

Il libro racconta, in sostanza, la sfibrante lotta ingaggiata da James alla dipendenza fisica e psicologica dalle droghe. In clinica ci arriva letteralmente a pezzi, e per chi ha provato un’esperienza del genere non è facile reggere l’urto della sua testimonianza:  pagine e pagine di freddo, di vomito, di tremore, di paura, di insonnia, di incubi… Dibattersi in una crisi d’astinenza è come affannarsi a respirare in assenza di ossigeno: si ha la sensazione angosciosa di essere sul punto di morire e di non poterci far nulla. Proprio per questo è molto difficile deciderla razionalmente, l’astinenza. è molto più facile precipitarci dentro, o perché si è costretti in maniera drammaticamente impulsiva a scegliere se morire davvero o morire “solo” di dolore, o perché è qualcun altro che ha deciso per noi. Le prime volte, soprattutto, l’astinenza e la crisi che essa innesca hanno la raggelante imprevedibilità di un incidente; ma con gli anni si finisce, almeno in parte, ad abituarsi all’idea di doverci convivere, come se dentro di sé si fosse riusciti a dare una misura anche a un dolore che le prime volte pareva inesauribile. Si tratta però – e l’ho verificato sulla mia pelle – di una forma di consapevolezza passiva, di una “abitudine al dolore” che sancisce un aggravamento della propria situazione.

A suo modo, James è un personaggio simpatico, testardamente avvincente: vuole trovare la sua strada, contesta tutto quello che gli viene proposto come terapia e, per quanto accetti il dialogo, è ostinato come un mulo e non cede praticamente su niente. Ma nella mia esperienza pratica, di tipi come lui in verità ne ho conosciuti ben pochi. Chi si trova nelle sue condizioni, in genere, è talmente pressato a fidarsi ciecamente di quello che gli viene presentato come sua unica possibilità di salvezza che, almeno in parte, si adegua alle logiche di comportamento che gli vengono imposte, non foss’altro per assicurarsi un brandello di tranquillità.

 

Le regole di tante comunità sono spesso più mortificanti che formative

 

Gran parte dei tradizionali programmi terapeutici contro la dipendenza – e non solo il carcere –  impongono regole apparentemente insensate e quindi difficilmente accettabili, sul piano razionale. Personalmente ne ho viste e sentite di tutti i colori, ma… guai a protestare che, soggiacendo a certe regole –  così insensate e così prescrittive – ti senti un emerito idiota che sta buttando via il proprio tempo e, peggio ancora, il proprio “senso di sé”.

In certi casi, è vero, si tratta di regole che relativamente ad alcune specifiche problematiche hanno anche una loro sensatezza, ma che tuttavia – estese a tutti, in maniera indiscriminata – acquistano il sapore amaro e talvolta provocatorio di un’imposizione fine a se stessa, e quindi più mortificante che formativa. Ho visto passare dei guai per aver mangiato una caramella al liquore pur non essendo alcolisti, divieti di ascolto di particolari brani musicali, punizioni assegnate perché il letto non era perfettamente tirato, tremila problemi ad avere rapporti umani con l’altro sesso che in alcune realtà è proprio assente.

Molto stile caserma per la disciplina, ma con ulteriori annessi e connessi di tipo morale o meglio moralistico. Il servizio militare serviva solo, si diceva, a farti diventare un uomo, a farti staccare dalla protezione della famiglia, in comunità invece sembra quasi che ti si debba cambiare completamente, la tua vita è tutta un disastro ed anche tu. In qualsiasi cosa tu faccia potrebbe esserci il germe della tua dipendenza. Non è semplice da accettare. Spesso ci si adegua sperando che il programma finisca presto e ci si abitua a fare delle cose a cui non si dà un minimo di senso. In comunità ci sono poi le punizioni, perché alla trasgressione delle regole corrispondono sanzioni di vario genere.

Fino a poco tempo fa c’erano a volte il taglio a zero dei capelli, il sequestro delle poche sigarette che venivano concesse ogni giorno, urla selvagge di rimprovero alle quali si doveva sottostare, giornate intere a spaccare le pietre con la mazza, a contare i sassolini del cortile, a pulire continuamente lo stesso vetro, a non poter rivolgere la parola a nessuno, a dover chiedere il permesso a qualcuno prima di fare qualsiasi cosa, fosse stato anche alzarsi da una sedia.

Non voglio generalizzare, anche perché negli ultimi anni – un po’ per la mutata tipologia dei tossicodipendenti, un po’ per gli scarsi successi che sono stati ottenuti applicando troppo “alla lettera” quei metodi – le comunità hanno cominciato a mettere in discussione il loro modo di operare ed oggi sono parecchie quelle che sperimentano metodologie e filosofie nuove rispetto a quelle propugnate da “Alcolisti Anonimi” e da “I dodici passi”. Fino a qualche anno fa, però, la maggior parte delle nostre comunità era ancora più rigida e dura della clinica americana descritta da James Frey: i programmi duravano anni, non due mesi soltanto, e soprattutto la vita in comunità era scandita da ritmi tanto implacabili che, praticamente, non c’era mai il tempo per starsene seduti a sorseggiare tremila caffè e a fumarsi in pace una sigaretta via l’altra... Tutto era rigidamente razionato, anche il cibo. E il tempo se ne andava tutto in duro lavoro fisico e riunioni in gruppo, con sbandamenti traumatici tra ergoterapia e psicoterapia relazionale, secondo gli inappellabili indirizzi ideologici della Direzione.

 

Anche il carcere alimenta i “mali” che dovrebbe combattere

 

Oltre alla clinica e ai suoi metodi, James descrive anche i suoi compagni di terapia, utenti ed operatori; ed è questa forse la parte più piacevole del libro, quella che concilia l’individualità dei  drammi personali con un sentire comune e con un’umanità diffusa che costituiscono, certamente, il patrimonio più importante di questo tipo di esperienze. E infatti, nei rari casi in cui scatta davvero la prepotente molla interiore che porta un “tossico” ad affrancarsi dalla sua dipendenza, ciò non avviene per merito delle “lezioni di vita” uguali per tutti e della disciplina schiacciatutti: avviene, semmai, perché quella persona è riuscita a recuperare la sintonia con se stessa e con gli altri che aveva perduto, rientrando in contatto con una sensibilità e un sentire comune che pareva aver smarrito per sempre. Leggendo questa parte del libro, in cui è evidente la contraddizione stridente fra dispotismo delle regole e solidarietà fra simili, mi è venuto da pensare che anche il modello-carcere è afflitto dallo stesso problema: e che spesso, proprio per l’ottusa implacabilità delle sue regole (spesso incomprensibili, non di rado del tutto insensate), finisce per alimentare gli stessi “mali” che dovrebbe combattere.

Il carcere entra in questo libro come uno spettro che aleggia su James e su gran parte dei suoi amici. Anche in America, come da noi, i primi reati non comportano necessariamente la reclusione in carcere; ma dopo, con il radicalizzarsi della situazione, le cose cambiano nettamente, per via della ben nota legge che in alcuni stati prevede – dopo il terzo reato - “l’ergastolo senza libertà sulla parola”, che è davvero un bel sistema per risolvere alla radice la piaga della recidiva, togliendo dalla circolazione le persone senza intervenire sui problemi che le hanno indotte a delinquere. E sono problemi drammaticamente seri, come dimostra il fatto che - per ammissione degli stessi operatori di queste cliniche a pagamento d’Oltreoceano – è considerato un buon risultato se il 15% degli utenti non incappa in ricadute nel primo anno dopo la fine del programma. In Italia i dati sono ancora più bassi e continuano a restare maledettamente incerti, anche a fronte di percorsi terapeutici veramente duri. Pochi, però, se la sentono di dire che le comunità non servono a niente.

A parte James, che esce dalla storia come il miracolo di se stesso, quasi tutti gli altri fanno una brutta fine. Lo stesso potrei dire io, per la mia esperienza: molti di quelli che ho incontrato non ci sono più, altri li ho ritrovati a dieci anni di distanza nella cella vicino la mia, altri sono rimasti a lavorare nelle comunità, e anche diversi di loro sono poi ricaduti. Le dimensioni del problema sono tali, e così forte è in me la consapevolezza dei miei fallimenti, che proprio non me la sento di dare lezioni a nessuno.

Di una cosa, però, sono convinto: che le ricette “uguali per tutti” non possono portare lontano, perché ogni persona è un “caso a sé”, e per indurla ad affrancarsi dalla dipendenza (sia di droga o di alcol) occorre puntare su quello che in effetti è e su quanto di bello e di buono comunque ha. E questo non vuol dire mettere in discussione la ragion d’essere delle comunità: che servono, eccome, e che costituiscono un passaggio spesso indispensabile per tutti, anche per chi fa più fatica degli altri. Ci vuole tanto, tanto tempo per ridare un valore alla propria esistenza quando si è ridotti “in un milione di piccoli pezzi”. E dentro a una gabbia affollata, purtroppo, è ancora più complicato.

 

 

Carcerazione meno dura per i tossicodipendenti, e anche meno “inevitabile” 

 

Ciò che dà un fastidio terribile è che ancora non si riesca a collegare il problema della droga a quello di che razza di mondo stiamo costruendo

 

Droga e carcere sono tornate di attualità in questi giorni: perché è riemerso il disegno di legge Fini, fonte di ansie e di calcoli forse per difetto su quanti diventeranno i detenuti se verrà approvata; e perché il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha lanciato un progetto, “Dap-prima”, sul quale non ci sono ancora molte informazioni, ma che suscita senz’altro l’interesse di quel numero ormai spropositato di detenuti, dentro per reati di droga. Abbiamo fatto allora una discussione “preliminare” in redazione, prendendo spunto da un libro durissimo, che è una storia di dipendenza estrema, e tornando a parlare di tutti i dubbi che ci sentiamo addosso quando tentiamo di capire che cosa si fa e che cosa si potrebbe, forse, fare, per rendere meno dura la carcerazione per i tossicodipendenti, e anche meno “inevitabile”.

 

Ornella Favero: In questi giorni si discute molto del disegno di legge Fini sulle droghe, abbiamo ritenuto  allora importante tornare a parlare di carcere e tossicodipendenza. Tra l’altro, anche tra le detenute della Giudecca è un tema molto forte e sentito, perché quasi tutte le donne sono dentro per problemi legati alla tossicodipendenza e l’uscita è spesso traumatica, nel senso che quasi nessuna dopo la galera vuole andare in comunità, ma è anche vero che molto spesso le persone non sono neppure pronte ad affrontare da sole una vita “normale”. Quindi non so quale possa essere l’alternativa e mi piacerebbe discuterne. Si potrebbe proprio partire dal libro “In un milione di piccoli pezzi” di cui pubblichiamo la recensione.

Stefano Bentivogli: Il racconto del libro è essenzialmente la liberazione dalla sostanza. Più di 200 pagine sono di crisi d’astinenza da sostanze, crack, cocaina e alcol. E sono pagine pesantissime, soprattutto per chi l’astinenza la conosce, con il rischio che chi l’astinenza invece non la conosce possa immaginare che sia un deterrente, e invece non lo è. Ma cosa significa tutto ciò? Significa che la sofferenza che una crisi di astinenza ti comporta è incredibile, è pazzesca, e veramente non si riesce a capire come avendo conosciuto una sofferenza tale, nel momento in cui la interrompi tu possa in qualche modo ri-finirci dentro. Beh… non è possibile, ma è quasi normale praticamente. Questo è il tipico caso, come il mio, di una persona che si è fatta diverse crisi d’astinenza, e dà la dimensione di quello che è il livello di equilibrio personale al quale si arriva: cioè, essere in grado di gestire la crisi d’astinenza, che è una cosa che non auguro a nessuno. Per cui la prima parte del libro è proprio questo: una persona che si ritrova in un milione di piccoli pezzi, e riesce però a ricomporre un minimo di equilibrio, e a fare un percorso che all’inizio è di liberazione dall’assedio della sostanza, poi  di ricostruzione della sua vita.

Ma la parte del libro più appassionante è proprio quella dove si parla del rapporto personale tra alcolista, craccaro e eroinomane, di cui uno è giudice di professione, l’altro è un esponente della mafia e il terzo invece è uno sbandato qualsiasi, il momento in cui c’è la possibilità di scambiarsi le esperienze, anche in maniera particolarmente intima. Se davvero la strada per provocare un cambiamento positivo nella persona è quella di valorizzarla proprio come persona, il carcere non è certo il posto più adatto. Ma allora perché uno smette di farsi? E che indicazione si può dare per far capire qual è il punto critico sul quale bisogna lavorare? Una volta erano convintissimi che all’origine della tossicodipendenza ci fosse il rapporto con i genitori, e se uno si bucava doveva aver avuto per forza un’infanzia infelice… e se non era quello allora significava che avevi problemi con la tua donna…

Ornella Favero: Stai parlando delle cause possibili, ma discutendo con le donne della Giudecca viene fuori spesso anche il discorso sulla ricerca pura e semplice del piacere… Io non sono moralista, accetto il fatto che ognuno può cercare il piacere dove e come vuole, ma i disastri della dipendenza li ho visti. Cosa andreste a dire voi ad un ragazzo? Che tipo di prevenzione si può fare davvero oggi?

Graziano Scialpi: I maggiori problemi derivano dalla proibizione, altrimenti sarebbe come per gli alcolisti che sono una valanga, ma non sono costretti ad andare a scippare e a rubare… e vi assicuro che quando ad un alcolista inizia a mancare il vino ammazza anche i bambini, perché le crisi d’astinenza d’alcol sono peggiori di quelle dell’eroina, eppure ci si convive tranquillamente…

Stefano Bentivogli: Io aggiungerei anche che con la droga uno viene portato in fretta nell’illegalità, perché nella maggior parte dei casi l’uso di sostanze illegali ti induce, per il fatto di doverti procurare i soldi, a commettere reati… allora io penso ai due scenari. Se uno si muove nella legalità con il suo problema di dipendenza, che possibilità si hanno di rintracciarlo per dargli una mano, e quali possibilità ci sono invece di intercettare uno che si muove nell’illegalità? Ecco, la differenza è che quest’ultimo sarà intercettato dalla polizia e prima o poi anche dal carcere, e lo si ferma solo così, all’altro invece si potrebbe andare incontro con un altro tipo di figura non repressiva.

Graziano Scialpi: Durante le discussioni sul proibizionismo io sostengo sempre questa tesi: pensi che sia più facile recuperare una ragazza che ha un problema di dipendenza, o recuperare una ragazza che, oltre al problema di dipendenza, a sedici anni ha dovuto andare sul marciapiede per procurarsi l’eroina?

Ornella Favero: Credo che quello su cui dobbiamo ragionare è ancora un discorso di riduzione del danno, perché anche il concetto di legalizzazione non è per dire “che bello”, il punto è vedere che cosa può fare meno male.

Paolo Moresco: Al di là di tutto, tra uno che ha dei problemi ed è “normale”, e uno che ha dei problemi ed è costretto a diventare anche criminale, c’è una bella differenza. Il fatto è che tu puoi convivere con l’alcol, diventando un alcolizzato bestia, ma senza diventare un criminale. Nel momento in cui invece usi droga diventi automaticamente un criminale e sei doppiamente pericoloso per te e per gli altri. L’alcol è un male che la società ha metabolizzato, mentre la droga…

Graziano Scialpi: Ma tu pensa se fosse liberalizzata, ci sarebbe subito una diminuzione consistente della micro e della media criminalità. Cominceresti a togliere miliardi di miliardi a mafia, camorra, ‘ndrangheta… Socialmente i vantaggi sarebbero enormi.

Stefano Bentivogli: Secondo me Graziano ha ragione su questa falsa morale. Lo Stato prende i soldi stratassando tabacchi e alcolici, e lì non si pone nessun problema, ovvio, li limita per i minori, però ha deciso di convivere con questo fenomeno e di controllarlo in qualche modo facendo anche campagne contro l’alcol e contro il fumo… con gli stupefacenti la scelta è stata un’altra, di tipo morale. Perché in questo caso non si ragiona per una riduzione del danno? Perché si è deciso di nasconderla, questa gente, farla finire in galera o in comunità, o comunque fuori dalla società… perché non si mettono le persone in condizioni di convivere… e attenzione, se una persona ha dei problemi, probabilmente è convivendo con altri, che invece non li hanno, che ne ricava qualche vantaggio.

Graziano Scialpi: La droga è un “comodo” problema sul quale fai cadere tutti i mali della società e la gente si concentra su questo e non pensa alle altre cose… Io mi ricordo il periodo di Craxi, quando certi politici rubavano dalla mattina alla sera, e il problema cos’era? Proibiamo lo spinello…

Andrea Andriotto: Sono d’accordissimo sul fatto che sarebbe meglio se fosse legalizzata, ma il terreno della prevenzione è difficilissimo, perché io ricordo che se qualcuno una volta veniva da me a dirmi “Guarda che fa male! Guarda come sono finito io!…”, anche se era nel letto che stava morendo proprio a causa della droga, io mi ritenevo comunque più forte di lui… Sulla prevenzione bisognerebbe veramente trovare un modo d’intervento più efficace. Di recente sono uscito in permesso ed ho saputo che una persona a me cara ha iniziato a fare uso di droghe. Ma io non posso dirgli niente, perché ogni volta che provo a mettermi nei suoi panni mi ricordo di quando c’ero io al posto suo e quello che mi dicevano gli altri non mi faceva né caldo né freddo. Però non posso nemmeno limitarmi a dirgli “guarda che fa male. Ma se hai bisogno sai che ci sono…”, perché quando capirà di aver bisogno? Lo capirà in tempo? Non è assolutamente facile intervenire… è un rischio che hanno corso anche i miei genitori, perché loro quando hanno saputo, hanno deciso di tagliarmi fuori da tutto, di cancellare quella che era la mia vita, sostenendo che quello che facevano loro era giusto e lo facevano solo per me. E io ad un certo punto ho risposto: “Ma che cazzo volete dalla mia vita?”, e me ne sono andato via.

Stefano Bentivogli: Io dove ho visto qualcosa che cambiava è stato quando era la persona che aveva il problema a muoversi verso qualcun altro…

Graziano Scialpi: Sulla questione della prevenzione io ho anche un’altra convinzione. Secondo me liberalizzandola si toglierebbe gran parte di quel fascino trasgressivo che ha la droga sui giovani. Non dico che funzionerebbe con tutti, ma su un 10-15 per cento credo di sì.

Gianfranco Gimona: Io la prima volta che mi sono fatto una canna è stato perché ero con i miei amici, ma il primo bicchiere di vino l’ho bevuto da solo, a casa mia, ed ero un ragazzino, l’alcol si compra liberamente e io ce l’avevo in casa, ma supponi per esempio che fosse stata liberalizzata anche l’eroina e avessi trovato quella…

Claudio Polonio: Secondo me però non si possono paragonare vino ed eroina. L’eroina è una cosa diversa da tutte le altre, è la peggiore…

Stefano Bentivogli: No, non è così, perché la tossicodipendenza oggi dilaga e l’eroina non la usa quasi più nessuno…

Claudio Polonio: Quelli che hanno provato l’eroina che sono qui non pensano che se fosse liberalizzata molta più gente ci ficcherebbe la testa dentro? Tu l’hai provata e hai detto che non ne sei più uscito. Se tutti la assaggiano, se tutti hanno la possibilità di conoscerla…

Graziano Scialpi: Ti spiego il meccanismo perverso: bombardano i giovani dicendo che se fumi uno spinello diventi subito dipendente, allora i ragazzini si fumano lo spinello, si accorgono che non diventano dipendenti e dicono “mi hanno raccontato un sacco di balle. Sarà così anche per l’eroina…”. E infatti per le prime due tre volte non diventano dipendenti…

Ornella Favero: Io però vorrei chiarire una cosa: parlare di legalizzazione non significa smettere di dire i danni che provoca la droga, non fare più informazione e prevenzione. È ovvio che le cose dovrebbero andare di pari passo: un’informazione seria e la legalizzazione. Il concetto di base è comunque che l’uomo quando vuole rovinarsi, quando non vuole pensare, quando ha dei problemi… perché è questo il nocciolo della questione, andare a capire cosa c’è dietro…,  l’uomo in ogni caso la strada la trova lo stesso per farsi del male.

Paolo Moresco: Qualcuno pensa che lui non è così debole e perciò non è diventato dipendente da sostanze… io credo non sia questione di debolezza assoluta, perché io non mi sono mai drogato e sono stato fortunato… ci sono degli incontri casuali nella vita, non è che uno può dire “a me non è mai capitato perché sono forte”…

Stefano Bentivogli: Io volevo dire a Claudio, che ha questa fissa che l’eroina è la peggiore… se fosse così non ci sarebbe oggi l’Italia piena di ecstasy, di sostanze dopanti…

Andrea Andriotto: Però la droga che crea più danni, che ti fa sentire socialmente più una merda è l’eroina… l’eroina è anche quella che ti fa stare “bene”, se hai un problema di qualsiasi tipo ti fai una pera e il problema non c’è più…

Ornella Favero: Ma è proprio questo il problema. Quando ne discutiamo alla Giudecca, tutte le donne, anche le più intelligenti e attive, hanno questo concetto del piacere… ma fino a che punto una persona è in grado di dominare la situazione, fino a dove può spingersi e con quali rischi?

Antonella Barone (educatrice): C’è differenza tra chi lo fa solo per piacere, e chi invece lo fa perché ne ricava un tipo di forza che gli permette di affrontare le situazioni più difficili, di vincere le insicurezze. In questo caso credo sia più facile che uno diventi dipendente dalla sostanza, perché è convinto che quello che riesce a fare con la cocaina o con l’eroina non riuscirebbe a farlo senza…

Andrea Andriotto: È difficile che uno cominci e diventi rapidamente dipendente, non è che all’inizio la usa subito tutti i giorni… di solito la si assaggia, la si prova ancora dopo 15 giorni, per esempio … per il piacere, sicuramente. Poi nel momento in cui capisci lo sballo che ti dà, allora la vai a cercare quando ne senti il bisogno perché hai un problema…

Antonella Barone: Tutti gli assuntori di cocaina, anche non detenuti, nel mondo dello spettacolo per esempio si usa molto la cocaina, lo fanno per una questione di prestazioni.

Ornella Favero: Il problema è: la strada per tornare indietro fin quando ce l’hai? Con l’alcol, per esempio, ho visto un sacco di gente, intelligente, capace, che aveva sotto controllo la situazione, che stra-beveva però poi stava dei periodi lunghi senza bere, ma ad un certo punto della sua vita ho visto un crollo verticale, con un bisogno di bere sempre meno controllabile… cambiava il carattere, cresceva l’aggressività, si deteriorava il rapporto con la famiglia.

Stefano Bentivogli: Secondo te controllavano l’uso dell’alcol o i problemi che avevano? Probabilmente sono arrivati ad un momento della loro vita in cui non riuscivano più a controllare i problemi che avevano, e allora si sono buttati sull’alcol, ma potrebbe essere anche l’eroina o altro…

Ornella Favero: Ma allora qual è quell’equilibrio in cui tu sai che puoi concederti l’uso di qualche sostanza fino ad un certo punto, e che comunque, anche se hai dei problemi, se ti muore qualcuno, se hai un crollo, non cadrai a farne uso sempre? Io sono una persona che vuole vivere bene, e guardandomi intorno ho sempre messo su un piatto della bilancia quello che poteva darmi piacere, farmi star bene, e sull’altro gli eventuali rischi, e poi ho fatto le mie scelte.

Antonella Barone: Il fatto è che, se sei in ansia, per te l’importante è superare quel momento e andare avanti, non hai una prospettiva, non vai oltre al momento o all’oggi, perché sembra che superato quel momento sei a posto, e invece no, ed è proprio questa la trappola… Però tutti i modi di fare prevenzione mi sembrano terroristici.

Stefano Bentivogli: Il problema non sono le sostanze, ma le dipendenze, perché c’è gente che arriva a quarant’anni e poi si mangia interi patrimoni alle slot machine… Allora il problema non è fare prevenzione rispetto alla sostanza, ma sulla dipendenza. Per cui educhi le persone a rimanere libere… Il discorso è che qualcuno riesce ad avere un percorso che lo porta alla non dipendenza, mentre altri improvvisamente nel loro percorso diventano dipendenti da qualche cosa e hanno meno difese per venirne fuori. Molto spesso poi andare a trovare la causa delle dipendenze secondo me è quasi uno sfizio da intellettuali. Nel senso che alla fine la strada che trova l’autore del libro di cui abbiamo parlato è quella di dire semplicemente “Io so che questo per me è un problema e devo imparare a dire no. E non a scappare ogni volta che ce l’ho davanti, perché il mondo beve alcol e la mia vita non può essere scappare ogni volta dall’alcol. Quindi l’unica cosa è una scelta mia personale…”.

Paolo Moresco: Quello che condivido in pieno con Stefano è quando dice che le regole vincono se sono persuasive e non solo imposte. Perché ci si convince a seguire delle regole quando ci si rende conto che conviene seguirle… E questa è anche l’occasione pedagogica persa dal carcere…

Ornella Favero: Io mi domando sempre cos’è che può convincere un ragazzo a non finire in una forma di dipendenza. In questi anni due cose almeno ho capito: la prima è la complessità del problema, e il fatto che non esistono semplificazioni e ricette valide per tutti, e già questo è un grosso passo avanti; la seconda, che quello che salva una persona è trovare un equilibrio e una consapevolezza critica, e in questo soprattutto la scuola dovrebbe avere un ruolo, e non essere invece troppo “asettica” e lontana dalla vita vera, dai problemi veri dei ragazzi.

Marino Occhipinti: L’unica cosa sulla quale non concordo con Stefano è che lui banalizza troppo la storia della dipendenza. Io quando penso alla dipendenza penso subito all’eroina, perché quelli che si facevano di eroina li ho visti morire quasi tutti, e quelli che si sono salvati è perché sono finiti in carcere. Dei tuoi amici, per esempio, quanti si sono salvati?

Stefano Bentivogli: È vero, non ne sono sopravissuti tanti. La tua paura è ovvia, e qui ti do ragione. Ma comunque, secondo me, stiamo scivolando sul terreno ambiguo del “è meglio questo o è meglio quello, è meglio la dipendenza fisica o è meglio la dipendenza psicologica, è peggio quella droga o è meglio quell’altra?”, secondo me è, appunto, uno scivolone.

Graziano Scialpi: Noi siamo in galera, e se vai a vedere le sentenze dicono che noi siamo privati della libertà, che è il bene supremo, ma la libertà è anche e soprattutto libertà di sbagliare. Nel momento in cui io ti costringo a fare la vita giusta, felice e sana, in realtà alla fine hai perso sempre tu perché ti ho privato della libertà di disporre della tua vita.

Ornella Favero: Io proprio per questo non credo al sistema di quelle comunità dove devi seguire regole ferree, dove se ti fai un’altra volta sei escluso, perché è vero che la libertà è soprattutto libertà di sbagliare. Ma, detto questo, non è che ognuno di noi è solo con se stesso e la sua possibilità di sbagliare. Io non sono contenta di rifare gli errori che fanno tanti altri, solo perché così sono più libera di sbagliare, a me piace ricavare qualcosa di buono dalle esperienze degli altri…

Graziano Scialpi: Secondo me la prevenzione la puoi fare solo a livello sociale, e non con dei messaggi, ma con ambienti sociali dove il ragazzo che cresce ha interessi, ha spazi, ha cose per cui non si creano quei vuoti che poi vengono colmati con la droga. Perché il ragazzo felice che ha un’esistenza piena, che ha interessi, che ha amici, non va tanto facilmente a cercare la droga. Oggi i giovani sono bombardati da modelli, rispetto ai quali un ragazzino, anche il figlio di quello che ha i soldi, sarà sempre inadeguato. Io credo che un grosso problema di prevenzione sia proprio questo, perché uno cresce sentendosi costantemente inadeguato rispetto a dei modelli che gli propinano, i modelli del giovane ricco, di successo, che vince sempre, con i bei vestiti, sempre sereno, con le belle ragazze, con la bella macchina, e qui sta il grosso problema, perché questi modelli sono irraggiungibili. E questo in tanta gente, magari in momenti di crisi, apre il varco a certe dipendenze.

Alessandro Tessaro: Qui si è parlato tanto di eroina, però la maggior parte dei tossicodipendenti di oggi usano cocaina, perché sembra che l’eroina sia passata in secondo piano, è per i vecchi.

Andrea Andriotto: Ma chi sta in strada nella maggior parte dei casi se la fa in vena e gli altri la pippano, e la differenza non è da poco: se dobbiamo star qui a fare le distinzioni tra sostanze, in questo caso è come se fossero due sostanze totalmente diverse…

Alessandro Tessaro: Sì, ci sono i poveracci che la usano come anche quelli che girano in Mercedes che se la tirano… ma questi non si sentono tossici, dicono “me la pippo ma non sono tossico”…

Marino Occhipinti: Infatti, ho conosciuto ragazzi inseriti nella vita sociale, figli di professori, di gente in vista, che si facevano… e quelle sembravano famiglie perfette…

Ornella Favero: Soldi o non soldi, successo o non successo, di fondo c’è comunque questo disperato bisogno di riempire la vita di qualcosa… è questa la fonte di tutti i problemi.

Marino Occhipinti: Alcuni di voi sostengono ancora che non bisogna fare distinzioni tra le sostanze, o addirittura tra le varie dipendenze, ma io ad una persona cara che proprio si vuol drogare, mi sentirei almeno di dirgli di non farsi di eroina. Perché, ripeto, di eroina ne ho visti morire veramente tanti. E poi dell’eroina generalmente diventi schiavo, non conti e non decidi più nulla, ti preoccupi soltanto di come procurarti la dose. All’inizio per stare bene, man mano che vai avanti devi procurartela per non stare male. Ricordo un ragazzo, uscito la domenica da una comunità con tutti gli onori - perché dopo sette anni che stava lì era diventato anche operatore, e cioè aiutava i nuovi arrivati a venirne fuori, a superare la fase critica -  e il mercoledì era in piazza Verdi a Bologna che cercava droga…

Graziano Scialpi: Ma infatti, quelli sono ormai dipendenti da quella comunità, resistono finché c’è la comunità che gli riempie la vita, che gli dice cosa fare dalla mattina alla sera. Ma appena mettono piede fuori ed hanno di nuovo a che fare con se stessi…

Stefano Bentivogli: Ciò che a me dà un fastidio terribile è che ancora non si riesca a collegare il problema della droga a quello di che razza di mondo stiamo costruendo, perché la responsabilità non ce l’hanno loro, a quell’età, ma ce l’ha chi gli ha preparato questo mondo qui. Chi li bombarda per televisione tutti i giorni. E d’altre parte chi dovrebbe darti gli anticorpi per difenderti non te li dà più: la famiglia, la scuola,  che prima ti preparavano per fare delle scelte.

Ornella Favero: Comunque secondo me la voglia di “evadere” dalla vita esiste sempre. Il punto è dove intercetti questa evasione dalla vita per vedere se è possibile vivere in modo diverso, avere degli interessi diversi, imparare un rapporto diverso anche con lo star male, perché invece viviamo in un mondo in cui la sofferenza, la solitudine sono cose che le persone non sanno più affrontare. Quello che io contesto a certe comunità, e anche al carcere, è di credere che si possano imporre degli esempi positivi. Basta guardare all’amore, paradossalmente nelle vicende d’amore puoi avere seimila esperienze, ma rifai sempre gli stessi errori… vuol dire che l’esempio, l’esperienza non servono a molto… Quindi io penso che con i ragazzi quello che può essere utile è la testimonianza raccontata senza nessun bisogno di farla diventare esempio e modello.

 

 

Precedente Home Su Successiva