I Ricomincianti

  

Rottami da riciclare o esseri umani che possono avere dei propri obiettivi da raggiungere

 

Una persona condannata, anche per reati molto gravi, ha ancora il diritto di ricercare la felicità?

 

di Francesco Morelli

 

Un’amica mi ha dato le bozze di un suo libro, autobiografico, che non verrà mai pubblicato. L’ho trovato "così – così", però ha un titolo interessante: ACCONTI.

Sono gli anticipi, dilazionati negli anni, di una felicità impossibile da raggiungere pienamente. Il "saldo" non arriva mai: quando riscuoti l’ultima rata sei già alla ricerca di altri traguardi, di altre soddisfazioni.

Questo vale per tutti, perfino per noi che siamo in carcere. Finché c’era la pena di morte il tuo "debito" lo saldavi a una scadenza precisa, poi (fortunatamente) la cultura giuridica si è affinata e anche le pene hanno una forma più "elastica", sono state diluite nel tempo.

Il problema è che il "tempo della pena" continua a essere "tempo di vita", puoi sentirti in colpa finché vuoi ma alla fine devi porti un obiettivo al di fuori della pena, altrimenti ti suicidi.

Quando le misure alternative non c’erano l’obiettivo era uno solo: l’evasione. Ma, ancora oggi, ci sono detenuti che non possono avere nessun beneficio, né i permessi, né la semilibertà: sono i condannati per reati di mafia, per sequestro di persona, per traffico di droga in associazione (e le nuove norme sull’articolo "41 bis" aggiungono i condannati per terrorismo). Per queste persone (circa 4.000, in tutta Italia) l’alternativa è solo quella di collaborare con la giustizia oppure di scontare tutta la pena in carcere, che per un ergastolano significa non uscire più.

Spesso mi chiedo quale "obiettivo di vita" riesce a darsi una persona che sa di non potere più uscire. Mi viene in mente cosa successe quando in Russia abolirono la pena di morte (nel 1999, se non sbaglio) e nelle prigioni c’erano alcune centinaia di condannati già in attesa dell’esecuzione. Metà di loro, davanti alla prospettiva di un ergastolo, chiesero di essere uccisi. Poi in realtà succede che un motivo per vivere viene trovato dalla maggior parte dei condannati: nelle carceri italiane sono molto rari i casi di suicidio tra gli ergastolani. Le ragioni per vivere qualcuno le trova nel sostegno dei propri familiari, qualcun altro nella difesa acerrima dei principi in cui crede, altri ancora nella cura scrupolosa della propria dignità umana e sociale.

Ricordo sempre l’orgogliosa testardaggine con la quale V. G., condannato all’ergastolo per reati di terrorismo, rifiutava i "colloqui interni" con la sua compagna, pure lei ergastolana. Non accettava che lo Stato decidesse il modo e il tempo nel quale poteva vivere la sua relazione. Sono trascorsi dieci anni, V. e la sua donna sono ancora detenuti, perché considerati "irriducibili".

L’avevo perso di vista, ma recentemente ho letto che sta trascrivendo dei libri per i ciechi. Anche questo può essere un buon motivo per continuare a vivere: il rendersi utile a qualcuno, il riscatto sociale, è una gratificazione notevole per chi viene da esperienze di conflitto con il mondo intero…

Ma ci siamo anche noi, un po’ privilegiati a dire il vero, che possiamo avere i permessi, il lavoro esterno, la semilibertà. Per noi la via del reinserimento è effettiva, il fatto di tornare a vivere nel mondo dei liberi un diritto – dovere. Lo dice la Costituzione, non ci si scappa …

Quello che invece mi chiedo è se il nostro "recupero" debba essere funzionale soltanto alla sicurezza della società, quindi al fatto che non commettiamo più reati e contribuiamo, con il nostro impegno, al benessere comune. Se è così, mi pare di essere un po’ come un rottame riciclato… da indesiderabile, fastidioso, superfluo, in fondo.

Però questa è anche una condizione che nega la possibilità di tornare ad avere dei tuoi obiettivi, sentiti, desiderati. Alla base c’è un problema etico di notevole portata: una persona condannata, anche per reati molto gravi, ha ancora il diritto di ricercare la felicità? Può perseguire questo obiettivo anche durante l’espiazione della pena, che naturalmente significa sofferenza, non felicità?

Il dilemma è di carattere morale ed ha anche una ricaduta concreta nel momento in cui la misura alternativa viene disposta (da parte della magistratura) e viene vissuta (dalla persona condannata).

La regola da seguire, i divieti, gli orari, sono fatti nell’ottica di ridurre al minimo l’afflittività della pena o di mantenerla più elevata possibile?

C’è molta discrezionalità nella predisposizione dei "programmi di trattamento" per le misure alternative, questo per poterli adeguare ad ogni persona, alla probabilità che usi male gli spazi concessi, alle sue esigenze di lavoro e di relazione. Tutto ciò risponde alla logica della individualizzazione della pena, nulla da eccepire al riguardo. Piuttosto noto alcune lacune e rigidità nella concreta applicazione dei "programmi", situazioni che generano sfiducia nei confronti degli operatori e quindi finiscono per mettere a rischio il percorso avviato all’esterno. Mi spiego meglio con un paio di esempi.

S. va in permesso da circa due anni, ogni due mesi trascorre una settimana con la propria famiglia. In un colloquio con l’educatore dice che non ha molto dialogo con i familiari, che li sente piuttosto indifferenti nei riguardi dei suoi problemi. Risultato: non le vengono concessi 7 giorni di permesso ogni due mesi, ma soltanto 2 giorni. Nessuno va a trovare la famiglia per farsi un’idea della situazione, nessuno le propone di fare i permessi in un altro luogo.

L. è al lavoro esterno ed ha qualche problema di salute. Si guarda bene dal dichiararlo agli operatori, perché il risultato che otterrebbe è di rimanere chiusa in cella, almeno finché i medici non abbiano accertato che cosa ha e la magistratura abbia deciso se può essere curata in carcere o vada ricoverata in qualche ospedale (passerebbero settimane? o mesi?).

Per chi dà lavoro ai detenuti questo rappresenta un vantaggio: ha dipendenti che non si ammalano mai, che non fanno mai sciopero, che non possono avanzare rivendicazioni sullo stipendio, che se vengono licenziati tornano in carcere "a tempo pieno".

Dal punto di vista della produttività può darsi che funzioni, da quello del reale recupero sociale delle persone mi pare che questo sistema faccia parecchia acqua. I risultati si misurano in termini di revoche delle misure alternative ma, soprattutto, dovrebbero essere misurati sui tassi di recidiva tra coloro che hanno "positivamente" concluso il periodo in semilibertà, o in affidamento.

Sul tema delle ricerche si fa tanta confusione, perché nella statistica rientri anche se hai una piccola condanna vecchia di vent’anni, e sarebbe molto utile, invece, un’indagine seria sul periodo successivo all’espiazione di una pena, distinguendo tra chi ha usufruito di misure alternative e chi ha scontato l’intera condanna in carcere.

Aiuterebbe a capire meglio se davvero le alternative funzionano come ponte tra la detenzione e la libertà.

Non voglio che il mio passato di persona che ha commesso dei reati resti un buco nero. Devo riuscire a far capire a mia figlia che dai miei errori ho imparato molto

 

di Patrizia

 

Ho letto con interesse la discussione che avete aperto in redazione alla Giudecca sui "sensi di colpa" di quelli che voi chiamate "genitori in sospeso", cioè persone come noi, con storie di carcere alle spalle o ancora in corso.

Vorrei intervenire perché ho riflettuto molto sul provare sensi di colpa e sulla mia capacità di essere madre.

Mi sono sentita "tirata in ballo" perché sono stata io a raccontare che, ora che sto a casa in detenzione domiciliare, vedo che in famiglia ho comprensione, ma che sono io stessa a non sentire di avere autorevolezza. È vero, ho comprensione, in un modo o in un altro tutti mi aiutano, posso dire di essere fortunata date le circostanze, e se in casa si parla dei fattori che mi hanno portata in carcere è perché ne voglio parlare io, alle volte perché i problemi che incontro e che devo affrontare sono la conseguenza di quei fattori, alle volte perché ne ho bisogno per soffrire un po’, per capire che non era quello che volevo per me.

Non so se ho provato sensi di colpa, se li ho avuti, ora comunque non più, quello che sto costruendo sta ripagando pian piano la mia famiglia della sofferenza, della delusione che le ho recato. Credo che mai avrebbero pensato che sarei diventata una tossicodipendente e poi una detenuta. Il ricordo forte che ho è la vergogna, vergogna per certi comportamenti aggressivi che mi atteggiavo ad avere quando loro vedevano che non ero io quella persona e io mi rendevo conto di quanto avevano ragione e poi mentivo, mentivo spudoratamente.

Adesso con loro, soprattutto con le mie sorelle, parlo, parlo e mi confronto, mi accorgo della diversità di vedute, ma il bello è proprio questo: altri stati d’animo, altre idee, la diversità ora mi fa stare bene.

Quando stavo in carcere ho sempre chiesto loro di raccontarmi tutto, anche le cose spiacevoli, le difficoltà, perché solo così avrei potuto riflettere, aiutarli a stare meglio, trovare una via d’uscita per tutti alla sofferenza. Non voglio che il mio passato di persona che ha commesso dei reati resti un buco nero, una situazione di cui non si deve parlare, secondo me bisogna parlarne per crescere dentro.

In questi anni di detenzione ho costruito, dentro di me, più coscienza di quello che voglio essere, ma non rinnego il mio passato perché sento che mi è servito e penso che bisogna conoscere tutto di noi stessi, il bene e il male, per capire cosa vogliamo dalla vita e come vogliamo viverla.

Sul fatto di non potere avere autorevolezza con i nostri figli, devo dire che non mi piace questa parola, preferisco le parole rispetto, stima e considerazione.

Io adesso sono limitata perché mi trovo in detenzione domiciliare e mi pesa questo fatto, perché la vita della mia bambina non è solo a casa, è anche accompagnarla a scuola, al corso di danza, andare per negozi a comprare da vestire, fare la spesa, portarla al cinema, a pattinare, cose a cui io non posso partecipare. La famiglia lascia a me tutte le decisioni che riguardano mia figlia, poi magari sono io che chiedo consiglio. Si può dire che tra noi c’è un comune denominatore, la bambina, e lavoriamo tutti assieme, finché non sarò in grado di potere gestire la nostra vita liberamente da sola con il mio compagno, che si trova ancora in carcere.

Sento anch’io la paura del domani (e purtroppo non abbiamo la sfera di cristallo), ho dei dubbi, dei pensieri che mi faccio: chissà se mi rinfaccerà il passato? Se succederà, non posso farci nulla, metto in conto tutto, ma costruendo giorno per giorno il nostro rapporto e parlando serenamente e sinceramente con lei già da ora, sono sicura che non sarà poi un tasto difficile il domani, e comunque vada so che non le avrò nascosto niente.

Voglio riuscire a farle capire che dai miei errori ho imparato molto, che la vita non è tutta a colori ma che può diventarlo facendo del nostro meglio, che non c’è un colore più bello dell’altro, basta sapere riconoscere quello che è meglio per noi e apprezzarlo. È una bambina che mi fa poche domande su questa situazione, ma so che quando parliamo e le racconto di me e del suo papà ascolta e riflette, questo è bene e spero che queste sue riflessioni un giorno vengano fuori in qualche forma e che ne potremo parlare.

 

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