Donne dentro

    

Quante ansie e quante paure aspettando il "dopo carcere"!

 

Quando i "buoni propositi da galera" si scontrano con una realtà aspra e deludente

 

Quella che segue è una discussione tra donne, detenute e volontarie, nella quale si è "intromesso" un detenuto, Francesco Morelli, della redazione di "Ristretti Orizzonti" di Padova, in "permesso premio" per due ore nel carcere femminile della Giudecca per un incontro con la redazione femminile.

Abbiamo parlato del "dopo", dopo carcere naturalmente, e delle incognite che porta con sé: per chi finisce la detenzione, perché quello che ti aspetta spesso è più deludente di come te lo immaginavi; per chi sta fuori, perché l’ex detenuto è considerato comunque una minaccia, e come tale trattato.

 

Francesco: Prima di parlare del "dopo carcere", bisognerebbe capire se e per chi ha un qualche senso il carcere. Andrebbe capito quali sono i comportamenti che hanno danneggiato effettivamente la società. Io da parte mia sono convinto che una buona metà della gente che è in carcere potrebbe stare fuori con pene alternative senza alcun pericolo per la società.

Quando si parla di sicurezza nelle città, ci si riferisce naturalmente soprattutto a chi esce dal carcere e torna a commettere reati: è questo che crea insicurezza, e allora quanta di questa insicurezza può essere "assorbita", limitata dall’intervento sociale?

Chiara: Il problema è il senso della pena. Stare in carcere senza logica non serve. Ho sempre pensato che la miglior condanna, se proprio mi devi condannare, sarebbe un lavoro socialmente utile. Si manterrebbe così il rapporto con la società. L’idea che ha invece il cittadino onesto, "regolare", è di chiudere il reo e comunque allontanarlo. La pena poi non è mai abbastanza: sparano a raffica anni di condanna senza avere la minima idea di cosa sia solo un anno di galera.

Antonietta (insegnante): Ma il carcere è o no un deterrente? Se non ci fosse quanti reati in più verrebbero commessi? Deterrente naturalmente per le persone che non lo conoscono e lo temono, perché forse le persone che lo conoscono tendono a "normalizzarlo".

Chiara: Non si tratta di "normalizzare", rientra semplicemente nelle cose che possono accadere se hai determinati stili di vita.

Sandra: Chi lo ha provato secondo me invece ha più paura di tornarci. Solo il pensare a quello che ho passato qui dentro mi fa dire che preferirei ridurmi alla fame pur di non rientrare.

Giulia: Ma non è in ogni caso un deterrente. Qualunque forma di punizione, se non è finalizzata a qualche cosa, non funziona e siccome il carcere per lo più non è finalizzato a nulla, non funziona.

È semplicemente un’esclusione sociale; si è parcheggiati lì e poi chi si è visto si è visto. Ci sono poche risposte a livello sociale, e così finisce che uscendo ritorni nel contesto dal quale provieni.

Ornella (volontaria): Anch’io credo che non funzioni come deterrente. Ho infatti la sensazione che le cose brutte si dimentichino facilmente, che scatti un meccanismo di rimozione. Molte persone, che hanno tutta l’intenzione di evitare di tornare in carcere, poi ci tornano nonostante le buone intenzioni, e non solo perché non hanno trovato alternative valide, ma anche perché la memoria è corta, si vuole cancellare in fretta il ricordo degli anni di galera e però "recuperare" gli anni persi, e l’ansia di fare e di rincorrere il tempo e le occasioni perse ti può portare a cercare delle scorciatoie.

Emilia: Secondo me però molte persone che sono state in carcere hanno davvero l’idea di non tornarci mai più, di fare di tutto per non ricaderci, ma dopo bisogna vedere che aiuti hanno dalla società, che opportunità gli vengono offerte. Mi chiedo se oltre alla volontà del singolo ci sia un aiuto sociale, e mi pare che non ci sia, che in qualche modo si sia sempre colpevolizzati.

Francesco: Secondo me l’aiuto in certe situazioni c’è, però spesso non basta a rendere più umane le condizioni del dopo carcere, che sono per lo più durissime e anche deludenti. Deludenti perché forse ci si è fatti troppe illusioni, le illusioni nascono dal fatto che quando sei dentro in carcere, in quel contesto particolare, finisci per idealizzare la vita esterna e immaginartela ben diversa da quella che poi sarà davvero.

Emilia: Che cosa intendi con illusione? Io non la chiamerei così, perché personalmente non mi illudo e cerco di concretizzare delle prospettive.

Francesco: Sarebbe importante quanto meno trovare una vita serena, ma questo purtroppo non dipende solo da te, quanto piuttosto dalle circostanze, dall’ambiente in cui ti trovi a lavorare, dai rapporti che riesci a instaurare con le persone, dalla loro disponibilità o meno a darti un po’ di attenzione.

Marta: La vita serena non vuol dire solo trovare lavoro e casa. Se il lavoro ti porta via tutta la giornata, e per "fare l’onesto" non hai più neppure il più piccolo spazio come persona, è chiaro che rischi di andare a cercare una cosa che ti occupi meno tempo, anche se è più pericolosa.

Gena: È la realtà di tante persone quella di accontentarsi, per come la penso io sono per l’accontentarmi piuttosto che fare il carcere.

Marta: Tutti così pensano! È giusto, dovrebbe essere così, ma fin dalla prima volta se ci accontentavamo dei due milioni al mese neanche ci venivamo qua…

Chiara: Io per esempio certe affermazioni che si fanno in carcere rispetto a quando si uscirà, alla vita "da liberi", le chiamo "buoni propositi da galera". Fuori poi ti confronti con una realtà che non è così semplice, soprattutto se sei abituato ad un certo tenore di vita.

Marta: È vero, quando sei dentro rinunci per forza a tante cose, e ti sembra di esserne sempre capace, ma quando sei fuori privarti di tutto diventa un’altra galera.

Sandra: Io però, se devo ripensare ai traumi subiti qui dentro, sono disposta a rinunciare a tutto pur di non rientrare in carcere, sono pronta a fare anche le pulizie più massacranti piuttosto che tornare in galera.

Emilia: Ma tu invece, Chiara, preferisci mettere come alternativa il carcere piuttosto che rinunciare a tante cose?

Chiara: Ti rispondo con un esempio: quando fai carriera nel lavoro, progredisci per livelli e man mano che avanzi ti è riconosciuto un ruolo più gratificante e anche un vantaggio dal lato economico. Quando tocchi i gradini più alti tornare a come eri prima, ricadere giù è pesante.

Ornella: Mi ricordo un giorno in carcere un ragazzo straniero, che ha chiesto ad un’insegnante quanto guadagnasse al mese, e alla sua risposta, poco più di mille euro, le ha domandato con autentico stupore come potesse andare avanti così, quando lui la stessa cifra la tirava su in un giorno o poco più (superfluo spiegare come). Il problema vero è tornare indietro, affrontare la fatica per guadagnare il minimo, quando sei abituato ad avere il massimo senza fatica. C’è poi da dire che il modello di vita dominante è quello dei tanti soldi e del successo, tu vedi le persone che possono permettersi tutto ed è particolarmente duro non permettersi niente, e allora devi trovare il modo per dare un senso al tuo tempo con altre cose, altri interessi.

Francesco: La maggior parte delle persone che finisce in carcere è gente che ha probabilmente incanalato male la propria energia. È una cosa che può essere difficile da accettare per chi fa una vita "normale". Quelli che conducono una vita "deviante" hanno spesso una maggiore creatività, una forte difficoltà ad adattarsi alla "normalità" di una vita da regolari, e quando viene il momento del re-inserimento non si può non considerare questa peculiarità. Bisognerebbe dare loro spazi interessanti, non tanto ricchi a livello economico ma interessanti.

Ornella: La gran parte delle persone in carcere mi ha in realtà parlato di uno stile di vita dove la cosa fondamentale era permettersi ogni tipo di lusso.

Francesco: Sì, ma io parlavo della creatività, e sicuramente mettere su un traffico internazionale di droga forse comporta da parte di chi lo fa un po’ di "sapere" in più rispetto a chi fa il muratore tutta la vita.

Marta: Per me il paragone fila, perché c’è chi potrebbe tranquillamente fare il muratore tutta la vita e magari cavarsela bene, il problema è che non gli interessa. È proprio il fatto di condurre una vita tranquilla, e forse tutto sommato che ci sembra insulsa, che non piace.

Sandra: Non sono d’accordo. Se hai dei valori dentro di te certe cose le eviti. Se poi hai già sperimentato il carcere, allora secondo me è ancora più facile stare a pane e cipolla.

Giulia: Per me invece non è un discorso prettamente economico, è proprio l’ansia di avere una situazione di vita "diversa". Che vita può essere alzarsi la mattina alle sette, timbrare il cartellino, tornare a casa e trovare sempre le stesse cose? Ad un certo punto, per sentirti vivo hai bisogno di uscire dal binario, e se questo vuol dire rompere le regole che ti sono imposte, tu le rompi. Il problema è che quello che la società stabilisce a livello di regole tante volte non appaga, non convince. Comunque la gente che si "travia" è spesso, paradossalmente, un po’ più idealista degli altri.

Francesco: Lo ripeto, la soluzione potrebbe essere creare delle alternative ad uno stile di vita ritenuto troppo "quieto". Sono tanti gli ex detenuti che, a parte il lavoro, non hanno alternative, se non giocare a carte al bar. Ovvio che alla fine vanno a cercare qualcosa di più stimolante, anche se illegale. È più divertente realizzare qualcosa rischiando, che star lì a fare le solite cose.

Ornella: Io capisco questo discorso, però secondo me c’è una visione in qualche modo romantica della devianza. Dovrebbe comunque valere il principio elementare del non fare agli altri quello che non vorresti che fosse fatto a te. Proprio per questo ci vorrebbe per lo meno un po’ di umiltà per capire che ci sono tanti tipi di vita che possono essere ricchi in altro modo. Non è necessariamente vero che uno che lavora "normalmente" conduce una vita piatta.

Giulia: Sì, però io quel tipo di vita non lo farei.

Ornella: Va bene, ma a spese di chi non lo faresti? È un prezzo che fai pagare a te stesso ma anche ad altri. Chi commette dei reati, molto spesso lo fa a spese degli altri, fa le sue scelte sulla pelle degli altri. Questo è il problema, vivere una vita più brillante, più interessante, più creativa producendo però un danno a qualcuno.

Giulia: Comunque è vero il fatto che, se tu trovi una gratificazione in quello che fai, puoi anche compensare la necessità di fare un sacco di rinunce, perché in fondo hai altro che ti riempie. Il fatto invece che dal punto di vista economico non puoi permetterti niente e in più non fai nulla che ti gratifichi, ti taglia le gambe.

Ornella: È questo il punto-chiave della situazione. In fondo la maggior parte delle persone "vuole cose" e le cose costano. Anche tanti ragazzi immigrati, che partono da una situazione di totale indigenza, quando arrivano qui finiscono per cercare "i guadagni facili". Forse è proprio questa l’origine della recidiva, non riuscire a costruire niente che dia l’idea che ci sono altri interessi che non passano necessariamente per i soldi.

Giulia: Già ci sono poche opportunità per chi è fuori, per un detenuto che esce dal carcere diventa tutto ancora più difficile. Dove vai a vivere? Ritorni nella condizione dalla quale arrivi, più penalizzato di prima per l’esperienza del carcere, e quindi le risorse sono ancora meno di quelle iniziali. Per quanto tu rifiuti con forza l’idea di tornare in carcere, non basta "volere", se le condizioni mancano. E poi non credo che il percorso di "risanamento" del detenuto, se e quando c’è, basti anche a sanare certe famiglie, il contesto in cui uno tornerà a fine pena.

Francesco: Credo che bisognerebbe dare delle opportunità per avere degli spazi di vita diversi e più interessanti, e poi lavorare molto anche sulle persone.

Antonietta: Io credo che la ricerca del piacere sia un fatto umano. È un fatto però di cultura il riuscire a trovare delle fonti di piacere che esulano dalla società dei consumi, "dall’appropriazione" a tutti i costi. È un piacere, ad esempio, anche quello delle relazioni, stare con delle persone con cui conversi. Le persone di cultura hanno in genere un gran piacere a conversare, a scambiarsi opinioni e cosi via.

Ornella: Credo sia realistico pensare che le persone di cultura sono più facilitate nel trovare spazi di evasione interessanti e stimolanti. È vero però che ho visto persone, abituate a una vita piuttosto dispendiosa, che hanno scoperto di divertirsi e di appassionarsi facendo attività sociali o di volontariato. Ricordo un detenuto che per tutta la vita ha fatto il rapinatore e in carcere ha sperimentato la soddisfazione di usare le conoscenze che aveva (un diploma di maestro) per insegnare agli altri, correggere testi, aiutare i suoi compagni a usare più correttamente la grammatica. Era diventato un fanatico delle regole!

Marta: Ma uno che fa l’operaio per otto ore al giorno, non ha poi tutto questo tempo per socializzare con la gente.

Ornella: Io credo che a volte si tratti più di una mancanza di stimoli che di una mancanza di tempo.

Giulia: Non penso che sia facile, per le persone che escono dal carcere, convogliare le energie che hanno in più, oltre a quelle che danno dove lavorano (perché le devono dare), in ambienti di volontariato sociale.

Veronica: Per me il problema è che ci sono troppe persone che vogliono quello che non possono permettersi. Nella vita bisogna adattarsi e se si cade sapersi rialzare partendo da zero. Credo che se qui dentro posso lavorare come scopina per 60 euro al mese, poi potrò anche vivere con 700 euro fuori.

Svetlana: La cosa che penso io adesso è che comunque non vorrò più tornare in carcere, però quello che mi riserverà il domani non lo so. Una cosa è certa, che il mio carattere non mi permette di andare a vivere sulle spalle di qualcun altro, quindi non ho idea di come sarà la vita fuori… vi farò sapere. Io esco dopo tanti anni, non ho più una casa, non trovo niente fuori, devo ricominciare tutto da zero. Se dovessi pensare a me soltanto, potrei anche vivere con pochi soldi al mese, il problema è che non sono sola, ho una famiglia, dei figli che hanno già pagato per questa mia esperienza e non voglio pensare di continuare a farli pagare perché non ho niente da dargli.

Ornella: È un discorso onesto, ma dove va a parare? Mi viene in mente una persona che conosco, nel ‘95 quando è uscito in semilibertà non stava male, aveva un lavoro dignitoso. È geometra e svolgeva la sua attività in una cooperativa, poi ha conosciuto una donna con un bambino, si è innamorato e per avere di più ha pensato la cosa più semplice: faccio l’ultima rapina e mi sistemo. Il problema è questo, se mi aspetta una vita modesta come riesco ad accettarla e come faccio a sopportare tutti quei limiti che mi ritrovo davanti?

Chiara. Secondo me i limiti sopportabili e sotto i quali non si scende, si tende per lo meno a non scendere, sono quelli lasciati. Quindi se ho raggiunto quel grado di benessere, tendo a mirare a quello, non esco da qui privandomi di tutto.

Slavica: La realtà è che tu esci e non trovi niente, devi cominciare da sotto per salire.

Ornella: Il problema che pone Chiara è che un detenuto quando esce a lavorare, all’inizio per un anno, due, tre, potrebbe anche accontentarsi. Il fatto è che spesso non si vedono vie per progredire. Se uno potesse dire "Gradualmente vedo che posso guadagnare di più", sarebbe tutto diverso, invece molto spesso rimane inchiodato lì senza nessuna prospettiva.

Emilia: Io sono però più positiva. Secondo me ci può essere la possibilità di fare un gradino alla volta con il tempo, lentamente, ma comunque di progredire. Se uno già prima, a mio modo di vedere, è una persona che non ha fiducia in se stessa, nelle sue capacità, la sua alla fine potrebbe essere anche una autodiscriminazione.

Ornella: È vero che spesso ci sono detenuti che ritengono di non avere delle prospettive ancora prima di provare, cioè sono talmente provati, hanno vissuto il carcere solo come esclusione dal resto del mondo, che non hanno la forza per tentare di uscire dalla loro condizione. A volte c’è bisogno di ricostruirsi dalle fondamenta, ma non tutti ce la fanno da soli.

Chiara: C’è anche il problema che spesso ti viene richiesto di più rispetto a quello che si richiederebbe a una persona "normale".

Giulia: E questo proprio perché devi dimostrare che ti sei "ricostruito".

Francesco: Sentirsi valorizzati dipende dal riconoscimento da parte di terzi, però il riconoscimento dipende anche da te. Una specie di circolo vizioso. Il fatto di sentirsi a disagio fuori è la conseguenza dell’essere stati trattati, all’interno della struttura carcere, a livello di numeri. Vieni trattato come un numero e dunque ne risente la tua dignità di persona, la tua autostima.

Per reazione poi, secondo me, corri il rischio di sentirti più forte di quello che sei, mentre in realtà non è così. Se non impari ad accettare i tuoi limiti, e anche a chiedere aiuto, quando ne hai bisogno, non riuscirai a cavartela.

 

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