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"Ma tu, pensi di uscire con successo?"

 

Tre redattori di Ristretti Orizzonti hanno partecipato ad un incontro con i ragazzi della scuola media di Limena nell’ambito del progetto: "Prevenzione alla criminalità e alla tossicodipendenza"

 

di Nicola Sansonna

 

"Pensi di uscire con successo?". Questa è la domanda che si è sentito fare Francesco da uno degli studenti di terza media della scuola di Limena. Uscire con successo dal carcere vuol dire recepire quanto di positivo ti viene offerto, vuol dire riuscire ad elaborare in maniera critica il proprio vissuto, vuol dire riprogettare la propria vita. È una delle cose che abbiamo cercato di spiegare e speriamo di esserci riusciti. Quando mi fu proposto di partecipare, in occasione del mio terzo permesso, a due incontri con tre classi di studenti sul tema: "Prevenzione alla criminalità e alla tossicodipendenza", restai un attimo perplesso. Cosa gli dico, pensai, da dove inizio, avranno voglia di ascoltarmi? Gli incontri si sono svolti direttamente nelle aule scolastiche. Il nostro gruppo era composto di quattro persone: oltre me c’era Francesco, Faisel, e Paola Soligon, che da anni collabora con la nostra rivista (e aveva già partecipato a precedenti incontri tra gli studenti e gli operatori del carcere).

In aula erano presenti due degli insegnanti che normalmente seguono i ragazzi, che mi hanno colpito molto con la loro capacità di mantenere la disciplina in classe ed ottenere l’attenzione di tutti i ragazzi e ragazze: era sufficiente che battessero due volte la matita sulla cattedra perché il silenzio diventasse totale… mi sono venute in mente alcune mie insegnanti, con le quali pure si scherzava poco.

Eravamo preparati al fatto che avevamo di fronte degli adolescenti e che, quindi, sia i termini usati che gli argomenti andavano adeguati alle circostanze.

Paola ha introdotto con molto garbo l’incontro. Quando poi è stato il mio turno ho parlato di un argomento che conosco bene: la mia esperienza di vita, che è piuttosto particolare, infatti dei miei attuali 44 anni, 24 li ho passati in carcere. Tra i punti toccati con i ragazzi, quelli che seguono penso siano stati i più importanti.

 

I miti negativi

 

Ho raccontato come, alla loro età, vedevo certi personaggi che poi si sono dimostrati rovinosi per il mio sviluppo. Se il leader del gruppo ha la moto più bella, ha sempre soldi in tasca, e ti racconta che "per averli devi farti furbo", devi dimostrare di avere i coglioni, è molto facile per te cadere in questo errore di valutazione e vedere nel piccolo ladruncolo e bullo di quartiere che hai di fronte un modello da imitare. Perché si becca sempre le ragazze più carine, perché è sempre lui che decide le cose più divertenti, perché dà sicurezza stare con lui nel gruppo.

Ho imparato che ci vuole più coraggio a portare avanti una famiglia numerosa, come ha fatto mio padre, lavorando onestamente, riuscendo a far quadrare il magro bilancio familiare, piuttosto che a fare una vita nella quale puoi disporre di molti soldi ma che alla fine diventa una parentesi breve… tra una carcerazione e la successiva. Il bilancio della vita di un balordo, dal punto di vista degli affetti e dell’autostima, del sentirsi realizzati, è sempre in deficit. A conti fatti, volendo anche soltanto analizzare i pro ed i contro, si tratta di un’esperienza fallimentare, che non conviene assolutamente.

 

L’imitazione dei comportamenti del gruppo di appartenenza

 

In tutti i quartieri c’è un muretto, un piazzale con tre gradini, un angolo di strada, un giardinetto che viene scelto come punto di ritrovo dai ragazzi del posto. Avviene spesso che, se nel gruppo qualcuno scopre una nuova forma di divertimento, in breve tempo diventerà patrimonio di tutto il gruppo. Questo accade anche quando qualcuno del gruppo viene in contatto con il mondo della droga. Il meccanismo che scatta è quello del timore di sentirsi esclusi, così che quando ti viene passata la tua prima canna ti senti quasi obbligato, per un malinteso senso di solidarietà, ad usarla anche tu. È proprio l’imitazione del comportamento del leader e della maggioranza del gruppo ciò che porta sovente a comportamenti a rischio.

 

Il mito del denaro

 

Parlare del mio rapporto con i soldi non è affatto facile, perché in pratica il mio è stato un non - rapporto, nel senso che i soldi per me erano fatti per essere spesi, e non gli ho mai dato molta importanza, anche se poi ho commesso reati per poterne disporre sempre in misura maggiore. Mio padre, con il solo stipendio, riusciva a mantenere dignitosamente otto persone, perché ai soldi dava il giusto valore: erano necessari per vivere, per permettermi di andare a scuola, mantenerci in ordine, pagare l’affitto di casa. Lo stipendio di mio padre e la sua gestione erano una scienza esatta… che non ammetteva errori. I soldi che, in seguito, ho guadagnato troppo facilmente, evaporavano nelle mie mani e non bastavano mai. Quando si dà al denaro delle qualità che in realtà non possiede si cade nell’inganno che con i soldi si può avere tutto, la felicità, l’amore, gli amici, la serenità. Niente di più falso! Queste cose non si comprano in nessun supermercato, il denaro ti dà semplicemente una maggiore possibilità di acquisto, il resto nasce dalle relazioni sociali che una persona riesce a costruire intorno a sé.

 

L’importanza della scuola, sia fuori, sia in carcere

 

Ripercorrendo le tappe della mia vita non ho potuto fare a meno di sottolineare come la scuola da ragazzo mi piaceva, ma non è mai riuscita ad appassionarmi, a farsi vedere da me con quell’importanza che avrebbe poi avuto negli anni a venire. Probabilmente non sono stato in grado di recepire, allora, quanto di buono mi veniva prospettato.

Fui bocciato in prima elementare perché non conoscevo bene la lingua italiana, mi esprimevo molto spesso in pugliese, tanto che la preside chiamò mia madre e la pregò di usare l’italiano, quando si parlava in casa, cosa che facemmo.

Fui bocciato nuovamente in quarta, ma lì si trattò più della mancanza di applicazione, per una sorta di rigetto nei confronti di una maestra che ritenevo troppo severa ed autoritaria; probabilmente aveva anche ragione ad esserlo, ma sta di fatto che mi bocciò.

Frequentavo ancora la prima media, ero forse più giovane dei ragazzi che avevo di fronte a Limena, e già andavo a lavorare: lavavo i piatti in un ristorante, poi passai per qualche tempo al servizio ai tavoli ma, a 14 anni, tornai in cucina, perché mi piaceva molto di più.

Quando fui arrestato avevo 19 anni, dopo poco iniziai ad appassionarmi alla lettura, leggevo di tutto e, quando mi si presentò l’occasione, mi iscrissi al corso delle 150 ore, per conseguire il diploma di terza media. Lo conseguii senza troppe difficoltà: le mie letture, un po’ confusionarie, in qualche modo mi avevano lasciato delle nozioni di carattere generale che mi furono molto utili.

Dopo qualche anno finii in cella con un geometra, che mi guidò alla scoperta dell’algebra e del disegno tecnico, tanto che chiesi il trasferimento ad Alessandria, dove tuttora c’è una scuola per geometri e dove iniziai gli studi, che poi conclusi da autodidatta a Bologna, conseguendo il diploma di geometra. Volevo continuare gli studi alla facoltà di Architettura, solo che per farlo dovevo essere trasferito a Ferrara, così ripiegai su una facoltà bolognese, che per i temi che trattava mi aveva da tempo affascinato: Scienze Politiche e Sociali. Uscito dal carcere non continuai gli studi, perché non avevo né il tempo né le energie fisiche necessarie a seguire tutti gli impegni che avevo assunto, quindi dovetti desistere. Ho scoperto la bellezza dell’apprendimento in carcere ed ancora continuo nella direzione di accrescere il mio livello di cultura, indirizzandomi verso campi d’utilità pratica: ora faccio informatica, sto imparando la creazione e la gestione di pagine web, passando attraverso il marketing e l’organizzazione aziendale.

Chissà se sono riuscito, con quanto ho detto, a far sorgere delle riflessioni nei ragazzi. Lo sapremo leggendo quanto scriveranno: uno degli scopi dell’iniziativa è che questi studenti preparino degli articoli che verranno poi pubblicati in un inserto della nostra rivista.

 

 

Un ragazzo alza la mano e mi chiede: 
"Ma tu, perché sei dentro?"

 

È difficile anche spiegare a se stessi cosa c’è a monte di certi comportamenti, figurarsi il doverlo fare davanti a cinquanta ragazzi e in pochi minuti…

 

di Francesco Morelli

 

La preparazione dell’incontro con gli studenti della scuola media mi ha dato parecchio da pensare. Cos’avrei detto loro: "Guardate ciò che ho fatto e… fate esattamente il contrario"? Presentarmi con il senno del poi, di cui trabocca la letteratura per ragazzi, mi sembrava inutile e anche un po’ ridicolo.

Alla loro età avevo voglia di sognare, d’avventura, e anche di trasgressione. Poi rinunciavo a tutto, ma la voglia c’era, prepotente, come penso l’abbiano loro. È giusto così, a un adolescente non puoi pronosticare una vita qualunque, incolore, come quella di tanti altri.

Anche quando sui banchi della scuola c’ero io i professori organizzavano incontri di questo tipo, magari non con dei detenuti, ma sempre con persone che dovevano esserci d’esempio, giusto (il missionario in Africa, l’educatore dei disabili, etc.) o sbagliato (l’adulto che aveva abbandonato prematuramente la scuola e a quarant’anni, pentito, tornava a studiare, l’infortunato in un incidente stradale, etc.).

Il secondo gruppo riscuoteva maggiore interesse e ammirazione, nonostante avessimo sotto gli occhi le conseguenze sgradevoli delle scelte "sbagliate". Non ce ne fregava niente, la cosa importante è che queste persone avevano rischiato, si erano in qualche modo ribellate a un mondo che pretendeva di decidere sulle nostre teste, di modellarci senza tener conto dei nostri desideri.

Da allora sono passati più di vent’anni; le mode e i desideri dei ragazzi sono profondamente cambiati, però penso che certi meccanismi siano rimasti inalterati e che i "buoni esempi" facciano sorridere, anche oggi.

Forte di queste riflessioni mi sono presentato alla scuola di Limena con l’intenzione di parlare ai ragazzi dei miei sogni di adolescente, non per dire loro ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. I sogni rappresentano lo spazio di libertà per eccellenza e sono convinto che, in fondo in fondo, siano sempre volti al bene.

I problemi nascono quando provi a realizzarli e scopri di non farcela perché inesperto, o timido, o per altre mancanze. A questo punto cerchi delle scorciatoie, che possono funzionare oppure causarti dei guai. L’esempio più immediato è quello delle droghe: si usano per "stare meglio" con se stessi e con gli altri, sono una scorciatoia che permette (almeno in apparenza) di superare le ansie e le difficoltà di relazione. Magari ci sarebbero altri metodi, ma questo sembra rapido e sicuro.

Sul carcere non volevo dire nulla, oltre tutto sapevo che i ragazzi avevano già avuto un incontro con gli operatori che, "naturalmente", avevano spiegato per filo e per segno cos’è il trattamento e come si realizza la rieducazione dei detenuti.

Però mi ero accordato con le classi che ero disposto a rispondere a qualsiasi domanda, così, dopo dieci minuti trascorsi a spiegare come dal desiderio di trasgressione si possa passare alla devianza e poi alla criminalità, un ragazzo alza la mano e mi chiede: "Ma tu, perché sei dentro?".

Gli ho detto: "Perché ho ucciso". Al che lui ha concluso: "Ma allora sei pazzo!". Cosa dovevo ribattere? Che sono sano di mente ed ho sparato perché mi sembrava la cosa migliore da fare!? È difficile anche spiegare a se stessi cosa c’è a monte di certi comportamenti, figurarsi il doverlo fare davanti a cinquanta ragazzi e in pochi minuti…

Ho cercato di chiarire che raramente si diventa criminali tutto d’un colpo, dall’oggi al domani; è piuttosto una progressione di barriere infrante, cominciando da cose minime per arrivare agli atti più violenti ed estremi. Se sei abituato a guidare la macchina a ottanta chilometri l’ora ed un giorno la spingi a duecento all’ora è facile che ti spaventi, però se prima t’abitui a guidare a cento all’ora, poi a centotrenta, e così via, arrivi a duecento e ti sembrerà una cosa normalissima.

Questo primo scambio di battute ha ottenuto l’effetto di sciogliere le lingue anche ai più timorosi: hanno cominciato a chiedermi che condanna avevo, come vivevo in carcere, cosa volevo fare quando sarei uscito.

Quello che ho notato è che i ragazzi avevano un’idea molto vaga del carcere (nonostante l’incontro con gli operatori). L’immagine se l’erano fatta, più che altro, attraverso i film americani, quindi avevano in mente scene di violenza, sopraffazione, e via dicendo.

Per far capire loro che in Italia le cose sono un po’ diverse ho fatto un accenno all’articolo 27 della Costituzione, al quale devono ispirarsi tutte le leggi e i regolamenti sull’esecuzione della pena. Gli insegnanti, ed a maggior ragione gli studenti, non sapevano cosa fosse: il fatto è che nella scuola italiana si studia più facilmente la Magna Charta che la Costituzione della Repubblica, ed è raro trovare qualcuno che abbia letto i tre semplici paragrafi che definiscono il rapporto dei cittadini con la giustizia.

 

Articolo 27 della Costituzione

 

  1. La responsabilità penale è personale.

  2. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

  3. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

 

 

Faisel si racconta davanti a un pubblico particolare: 
50 giovanissimi attenti e curiosi

 

di Faisel Soltani

 

Per il mio primo permesso premio sono stato ospite in una scuola media a Limena, per partecipare anch’io a questo incontro con due classi di ragazzi di terza media. Al momento di entrare ero molto emozionato e preoccupato, mi chiedevo soprattutto quale sarebbe stata la reazione dei ragazzi. Come avrei iniziato? Avrei dovuto presentarmi, raccontare la mia vicenda… il mio cuore aveva già iniziato a battere come un forsennato. Ero sicuro che non ce l’avrei fatta. Ma quando è arrivato il mio turno, non so come sia successo, ma le parole mi sono uscite fluide, senza problemi. Ecco come ho raccontato la mia storia.

"Mi chiamo Faisel e sono tunisino. Provengo da una famiglia che appartiene a quello che voi in Italia definite il ceto medio. Non siamo ricchi, ma nemmeno poveri. Mio padre fa il macellaio, mia madre la casalinga. Tutti i miei fratelli si sono sposati e stanno bene: hanno figli, belle famiglie, lavorano tranquilli accanto a nostra madre, senza farle soffrire la lontananza, come ho fatto io. Sono contentissimo per loro. Io sono il più piccolo della famiglia. Ho studiato tanti anni, però non sono riuscito a passare l’ultimo esame per potermi iscrivere all’Università. Poi ho cercato lavoro nel mio paese, ma non sono riuscito a trovarlo. Nello stesso tempo aiutavo mio padre, e ho potuto così imparare un mestiere che mi piace, il macellaio.

Mi sono iscritto a una scuola alberghiera e l’ho frequentata per i primi tre mesi, nei quali ti insegnano la preparazione dei piatti e la loro decorazione. Questo primo periodo è stato molto divertente, però quando abbiamo iniziato lo studio vero e proprio mi sono reso conto che la disciplina utilizzata in quella scuola era troppo rigida. Tanti ordini, sembrava una caserma: credo che quella tunisina sia la scuola alberghiera più severa del mondo.

Nei fine settimana potevo uscire per andare a vedere la famiglia e gli amici. Un giorno ho incontrato un amico che lavorava e viveva in Italia. Aveva una macchina bellissima, tutti i vestiti griffati, tanti soldi. Ho riflettuto molto ed infine mi sono detto: cosa sto facendo ancora qui? Da lì è nata l’idea di emigrare in un altro paese. Ho scelto l’Italia per le storie che mi raccontava questo mio amico.

Per prima cosa ho preso tutte le informazioni possibili all’ambasciata italiana: per avere il visto d’ingresso ho preparato tutti i documenti che servivano, li ho presentati assieme alla fotocopia del passaporto e al biglietto di viaggio. Però non sono riuscito ad avere quel maledetto visto, ho provato tante volte a chiederlo, ma la risposta era sempre negativa.

Un giorno ero al mare con due amici che, vedendomi sempre triste e arrabbiato, mi hanno detto: "Se non sei riuscito ad entrare in Italia con il visto, esiste un altro modo, però è rischioso, è illegale. Se ti fermano ti possono portare in galera, a parte il rischio di attraversare il mare su mezzi di fortuna".

Ma la voglia di scoprire un mondo nuovo mi ha fatto accettare la sfida. Dopo una settimana avevo già preso accordi per il viaggio: siamo partiti con la barca di un pescatore, trenta persone a bordo, con una voglia incredibile di attraversare il mare senza pensare al rischio che stavamo affrontando. Per nutrirci avevamo pane, formaggio ed acqua.

Nella prima notte di navigazione ci ritroviamo in mezzo a un mare scuro, che avrebbe fatto spaventare l’uomo più coraggioso del mondo. La barca che hanno scelto per il viaggio è troppo piccola e il mare troppo grande. A un certo punto il motore si ferma e l’acqua comincia ad entrare nello scafo, noi passeggeri gridiamo dalla paura e il capitano nella confusione smarrisce la rotta, ormai tutti vorremmo tornare indietro ma non è più possibile.

All’alba avvistiamo una barca di pescatori italiani e chiediamo di indicarci la rotta per arrivare a Lampedusa: quella barca ci ha salvati, perché dopo dodici ore siamo arrivati a vedere la montagna di Lampedusa. Eravamo salvi.

Una motovedetta della Guardia di Finanzia ci prese a rimorchio e dopo due ore eravamo nel porto, dove ci diedero cibo e bottiglie d’acqua. Chi si sentiva male lo portavano all’ospedale. Quando ebbero verificato che tutti stavano bene, cominciarono a prendere le nostre impronte digitali e a chiedere le generalità, da dove provenivamo, etc.

Dopo due giorni arrivò la nave dalla Sicilia, e ci portarono ad Agrigento. Anche lì ci aspettava la stessa trafila: impronte digitali, chi sei, da dove vieni e mille altre domande che mi avevano già fatto. Ad ognuno di noi fu consegnato un foglio di via, dove c’era scritto che dovevamo lasciare l’Italia entro quindici giorni. Ma la maggior parte di noi non si rendeva nemmeno conto di cos’era, quel foglio. Così siamo andati, tutti assieme, alla stazione e siamo partiti per Palermo, dove poi ognuno ha preso la sua strada.

Io ho incontrato un vecchio amico e lui mi ha aiutato, consigliandomi di non rimanere al sud, poi mi ha dato un po’ di soldi e così ho potuto ricominciare il viaggio.

Dopo due giorni di treno sono arrivato a Padova. Qui ho trovato tanti amici, che mi hanno ospitato e mi hanno fatto dimenticare tutta la sofferenza del viaggio. Dopo due anni sono stato arrestato per spaccio, perché in realtà le persone che mi avevano aiutato erano più sfigate e più sfortunate di me. Eccomi qui, sono in carcere da tre anni e quattro mesi, ed oggi grazie al primo permesso sono con voi, in classe, per un incontro che reputo bellissimo, per spiegare a voi che non c’è nessun valore e non c’è nessuna somma di soldi che valga la libertà di una persona".

 

 

Banditi di domani

 

Le carceri minorili del passato erano palestre di futuri delinquenti. Speriamo che non tornino ad esserlo

 

di Claudio Darra, Mario Salvati, Giovanni Flachi, Claudio Maritan e Karim Ayari

 

Negli anni settanta il mondo era scosso da grandi desideri di cambiamento, i giovani si riversavano nelle piazze, gridando slogan che inneggiavano alla libertà. Tanti aderivano a gruppi politici, di destra o di sinistra, perché così facendo pensavano di avere una maggiore indipendenza; altri protestavano usando la musica.

Ma c’era anche chi, insofferente alle condizioni di povertà (che allora erano molto diffuse), si allontanava da casa per ritrovarsi con altri giovani che volevano provare emozioni in assoluta libertà, vivendo di espedienti e commettendo anche dei reati.

Questa inaspettata ribellione giovanile creò un forte allarme sociale, che si tradusse presto in una indiscriminata repressione. Chi era sorpreso in situazioni o atteggiamenti "sospetti" era fermato e identificato (come i clandestini di oggi, anche noi eravamo senza documenti); una volta accertate le generalità "in base ai dati forniti dal minore", venivano chiamati i genitori, per una verifica delle dichiarazioni rese e perché venissero a riprendersi il figlio, se non aveva fatto niente di grave, altrimenti per lui si aprivano le porte del carcere.

 

L’esperienza di Claudio

 

La prima volta che mi arrestarono avevo 14 anni. Eravamo nel giugno del 1970 (erano in corso i campionati mondiali di calcio), abitavo a Verona e vivevo in modo spensierato, del tutto irresponsabile, assolutamente senza rendermi conto che commettendo dei reati sarei finito in carcere. Finché mi portarono in Questura e poi al minorile di Treviso, S. Bona Nova… qui la realtà mi si presentò in tutta la sua crudezza. Mentre percorrevo i lunghi corridoi che portavano all’accettazione, cercavo con lo sguardo e speravo di scorgere un viso amico, che mi rassicurasse e mi facesse rallentare il battito cardiaco.

Ma l’unico viso che mi trovai davanti fu quello di un omone baffuto, dalla voce forte e autoritaria, e in quel momento compresi che i miei 14 anni non erano sufficienti a permettermi di mantenere un atteggiamento spavaldo… quasi mi tremavano le gambe.

L’agente mi disse di seguirlo in una stanza vicina. sopra la porta c’era una scritta: "Ufficio matricola". Lì mi presero le impronte e mi fecero le fotografie. Poi passai al magazzino, dove ricevetti la "fornitura" (lenzuola, prodotti per la pulizia, etc.).

A quel punto arrivò un "signore" senza divisa che mi spiegò: "Io sono il tuo educatore, così mi devi chiamare… né agente, né guardia e tanto meno secondino, capito!?". Poi mi disse di seguirlo, attraversammo alcuni cancelli fino ad arrivare alla sezione minorile, che si trovava di parecchio spostata rispetto al reparto maggiorenni.

Arrivato davanti alla cella dov’ero assegnato guardai all’interno e, con immensa gioia, finalmente vidi un viso conosciuto, quello di un mio amico di Verona. Entrai in cella, subito lo abbracciai e, con quell’abbraccio, ritrovai tutta la sicurezza che avevo perduto: "Massimo, anche tu qui?!". Bastò che ci scambiassimo qualche battuta perché si creasse un clima di complicità, e scoprii così di poter contare sul sostegno dei miei coetanei detenuti.

Il mattino seguente mi portarono dal Giudice dei Minori; il mio cuore ricominciò a battere forte non appena fui davanti al magistrato, che mi invitò a sedere e mi chiese come mi chiamavo. Il suo sguardo era severo, mi fece una infinità di domande e ben presto compresi che aveva un atteggiamento molto "rimproverante", ma soprattutto capii che non sarei tornato a casa tanto presto.

Il Giudice mi chiese anche se da bambino ero stato in collegio, e quando gli risposi che c’ero stato volle sapere il motivo per cui mi avevano messo in collegio, quanto tempo ci ero rimasto e cosa mi ricordavo di quell’esperienza. Non pensai al "perché" di quelle domande, che mi sembravano avere poca attinenza con il mio arresto, e solo oggi, 32 anni dopo, sono riuscito a capirlo.

Mario, un compagno di detenzione che ha la mia stessa età ed è stato pure lui nel carcere minorile, un giorno mi ha detto: "Ma lo sai, Claudio, che l’esperienza del collegio è stata la nostra prima carcerazione!? Il 20% dei ragazzi che sono stati in collegio, poi sono finiti nelle carceri minorili. Ti ricordi del numerino che la nostra mamma ci cuciva su ogni indumento?". "Come no, il mio numero era il 133", gli risposi, e Mario concluse: "Ecco, quello fu il nostro primo numero di matricola". Lui, come me, era stato portato in collegio a seguito di una segnalazione della S. Vincenzo (l’Ente che aiutava le famiglie in difficoltà economica).

 

L’esperienza di Angelo

 

Nel 1994 venni arrestato per la vendita di sostanze stupefacenti. Mentre ero in caserma e attendevo l’esito del fermo in una cella buia e sporca, pensavo a cosa ne sarebbe stato di me, dei miei affetti e di tutto il resto, se mi avessero convalidato il fermo.

Dopo qualche ora di attesa vennero ad aprirmi e mi dissero che il Pubblico Ministero aveva convalidato l’arresto. Mi dissi: "Ci siamo! Ora ti aspettano tempi duri".

Venni accompagnato, da Verona fino a Treviso, da quattro carabinieri in borghese. Durante il viaggio mi dicevano di non preoccuparmi, perché nel giro di poco tempo sarei tornato a casa, ma io non li ascoltavo nemmeno, continuavo a fissare le montagne, i paesaggi che si susseguivano, e pensavo a quando averi potuto ancora vederli.

Arrivati davanti all’ingresso del carcere minorile, già vedere i cancelli alti e il perimetro esterno mi fece una certa impressione, passammo il cancello ed io rimasi a fissarlo mentre si chiudeva... I carabinieri mi lasciarono in portineria e gli agenti mi fecero entrare in una stanza, con una finestra alta e poca luce, dove rimasi due giorni, finché il Giudice dei Minori decise di spostarmi nelle sezioni dove alloggiavano gli altri ragazzi. La stanza dove ero rimasto due giorni da solo, lo seppi in seguito, la chiamano C.P.A (Centro di Prima Accoglienza).

Nella sezione arrivai verso le otto di sera, quando ormai era buio, mi diedero un paio di lenzuola e niente più. Vicino al letto c’era un televisore, il soffitto era alto e la stanza molto piccola. Mi stesi sulla branda e rimasi fermo, immobile, a guardare il soffitto e la finestra, che aveva sbarre arrugginite e spesse. Al mattino gli agenti penitenziari, che al minorile non portano la divisa, mi dissero di andare a far colazione con gli altri ragazzi, nel refettorio. Mi preparai e, uscito dalla cella, vidi molti altri ragazzi che attendevano il consenso dall’agente per entrare in mensa.

L’incontro con questi ragazzi non fu dei migliori, visto che lì non si usava dare il "benvenuto" ai nuovi arrivati. In mensa eravamo circa 30 persone, prendemmo i vassoi e un addetto alla cucina ci diede da mangiare. Al minorile il cibo arriva dall’esterno, perché ai ragazzi è vietato svolgere qualsiasi tipo di lavoro. Dopo aver mangiato andammo all’aria, fino alle undici. Poco dopo mi chiamarono gli educatori per fare il colloquio di primo ingresso. Gli raccontai la mia storia e mi feci spiegare le regole da seguire, riguardo agli orari per la doccia, ai colloqui con i famigliari, etc.

Il sabato, giorno di colloquio, venne a trovarmi mia madre. Prima che riuscisse a parlarmi passarono una decina di minuti, perché non riusciva a smettere di piangere per il dolore di vedermi in quel posto. Nel vederla così, mi sentivo un fallito. Cercai di tranquillizzarla dicendole che non mi trattavano male, così si calmò un poco e riuscimmo a dialogare per il tempo rimanente, ma l’ora del colloquio finì in fretta e lasciarsi fu molto difficile.

Dopo una settimana mi chiamò ancora l’educatore, che mi propose di partecipare a un corso di falegnameria. Io, senza farmelo ripetere due volte, accettai subito: potevo scegliere tra questo corso, uno di pelletteria, e la scuola media. Nel giro di un mese riuscii così a fare un po’ di amicizie e ad ambientarmi.

Le carceri minorili del passato erano le palestre dei banditi di domani, il percorso di tanti ragazzi era: collegio, carcere minorile, carcere per adulti. Oggi si parla di accelerare il passaggio al carcere per adulti, al compimento del diciottesimo anno: ma non si rischia di accelerare così una futura vita da delinquente?

 

 

Ma tu, se tuo figlio combinasse qualche stupidaggine, 
vorresti che fosse giudicato come un adulto?

 

di Graziano Scialpi

 

Dopo la presentazione del Disegno di legge che inasprisce le pene per i minorenni e le relative dichiarazioni del Ministro della Giustizia Castelli, abbiamo pensato che fino ad oggi ci fosse sfuggito qualcosa di essenziale. Così abbiamo ripreso in mano il Codice Penale e lo abbiamo riesaminato minuziosamente. Abbiamo prima controllato l’indice, ma non è risultato nulla. Però non ci siamo arresi e lo abbiamo sfogliato pagina per pagina, controllando articolo per articolo. Niente da fare: non siamo riusciti a individuare alcuna distinzione tra "reati da ragazzi" e "reati da adulti". Il Codice Penale si limita ad elencare i reati senza specificare quali siano quelli lievi, consoni a un minorenne, o quelli gravi, più adatti a un uomo maturo. Ed è giusto che sia così. Il codice ci deve dire che il furto è un reato in ogni caso. Non è meno reato se si ruba una vaschetta di gelato piuttosto che un’automobile. E questo esempio non è campato in aria, perché qualche anno fa ho conosciuto un povero disgraziato della ex Jugoslavia che si è fatto nove mesi di detenzione per aver rubato appunto una vaschetta di gelato, mentre altri, accusati del furto di un’automobile, uscivano in un paio di settimane, dopo aver patteggiato una condanna con la condizionale.

Alla luce di questa constatazione che senso hanno le parole del Ministro quando dichiara che: "Ci sono ormai ragazzi di 16-17 anni che commettono gravi reati, come gli adulti"? Nessun senso. Perché, come abbiamo visto, la legge non fa distinzioni tra reati da minorenne e da maggiorenne. La distinzione viene invece fatta sull’autore del reato. Perché diverso è il significato, l’elemento psicologico, se a rubare una vaschetta di gelato è un ragazzino o un uomo di quarant’anni. E anche l’assunto secondo il quale "l’impianto penalistico è stato pensato per un tipo di delinquenza che non c’è più" appare incompresibili. Perché l’impianto penalistico del Codice Rocco è stato pensato in tempi non sospetti, in pieno regime fascista, e prevede tutt’ora pene pesantissime che non trovano riscontro nel resto d’Europa. Perlomeno in quei paesi nei quali, come in Italia, si pone l’accento sulla funzione rieducativa e di recupero sociale della pena. Eppure quello stesso regime fascista del quale tutto si può dire tranne che fosse progressista e troppo garantista, aveva ritenuto necessario introdurre nella nostra legislazione un percorso differenziato per i minorenni.

Oggi, dopo oltre mezzo secolo di democrazia, le esigenze di recupero e di risocializzazione dei minori devianti e, quindi, di accentuazione della funzione rieducativa della pena e di differenziazione del loro trattamento rispetto a quello degli adulti sono sancite non solo dalla Costituzione (artt. 3, 27 terzo comma, 30 e 31), ma anche da una serie di convenzioni e trattati internazionali sottoscritti dal nostro paese e, in particolare dal Patto internazionale relativo ai diritti politici e civili, ratificato con legge 25 ottobre 1977 n. 881, dalle cosiddette Regole Minime di Pechino-ONU per l’amministrazione della giustizia minorile, dalla Convenzione Onu sui diritti del fanciullo del 1989 e dalla Raccomandazione 20/87 del Consiglio d’Europa sulle risposte alla delinquenza minorile. Tutte "fonti di legge" con le quali ogni provvedimento legislativo riguardante i minori deve essere in accordo logico, a meno di non cambiare la Costituzione e di non presentarsi all’Onu per dire: "Scusate, ma tutti i patti e gli accordi che abbiamo sottoscritto per noi sono carta straccia". Intanto il preannunciato giro di vite governativo ha già provocato una generale levata di scudi da parte dei giudici minorili. E queste misure appaiono tanto più intempestive e propagandistiche in quanto le statistiche non danno segnali di una crescita della delinquenza minorile. I singoli episodi eccezionali, ancorché al centro di un indecente accanimento dei mass-media, non giustificano lo smantellamento di un sistema giuridico che ha al suo centro l’attenzione e l’interesse del minore. Tanto più che il battage dei mass-media non è l’opinione pubblica. Per conoscere il vero pensiero degli italiani su questa delicata materia bisognerebbe chiedergli: "Ma tu, se tuo figlio combinasse qualche stupidaggine, vorresti che fosse giudicato come un adulto? O preferiresti che venisse tenuta in considerazione la sua immaturità, dandogli la possibilità di riparare al danno fatto e di rifarsi una vita normale?". Ogni altro modo di porre la questione rappresenta solo una manipolazione demagogica.

Ma in fondo, chi può dirlo? Potrebbe anche darsi che l’inasprimento delle pene, che in nessun luogo ha mai portato a una riduzione della delinquenza, riesca a far riflettere e a spaventare gli ormai maturi minorenni italiani. E magari lasceranno perdere i crimini gravi per tornare a dedicarsi alle ragazzate, a quei reatucci da scavezzacollo tipo il falso in bilancio.

 

 

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