Sprigionare gli affetti

 

I famigliari dei detenuti non hanno diritti

Un Garante anche per i famigliari dei detenuti

Come potevo e posso coltivare i legami affettivi con

dei colloqui che di intimo non offrono nulla?

 

di Maurizio Bertani

 

Sono detenuto dal lontano gennaio del 1976, con l’unica “pausa” di un paio di anni di libertà. Ovviamente, questo è esclusivamente colpa mia, per cui non ho nulla da recriminare, se non per la superficialità con cui la società tratta me, e l’indifferenza che ha verso le persone che ho amato ed amo, e verso la loro vita.

Ci domandiamo spesso se vi è in carcere la necessità di avere un Garante, che ci tuteli dagli abusi subiti nell’arco di tanti anni. Non c’è alcun dubbio che, nella mia detenzione, in fondo quello che mi pesa di più, anni fa come adesso, è la totale mancanza di affettività con i miei famigliari, che nessun’altra colpa hanno se non quella di essere legati sentimentalmente ad una persona come me, detenuta.

Viviamo in una nazione che non permette ad un detenuto di coltivare i propri affetti, ma non solo, non viene permesso neanche ai famigliari dei detenuti questo, legando con ciò inesorabilmente i famigliari alle colpe del loro caro in carcere.

Si fa presto allora a dire che le responsabilità penali sono individuali, ma se poi di fatto avviene il contrario, e altri pagano per le nostre colpe, c’è forse qualcosa che non quadra nella legge.

A dire il vero ogni tanto si sviluppano ragionamenti sul fatto che bisogna mettere in condizione i detenuti di avere rapporti più intimi con i propri congiunti, e per rapporti intimi intendo detenuti e detenute che possano incontrarsi, senza controlli visivi, con i propri compagni, siano essi coniugi o conviventi, ma questi rapporti non sono consentiti. Eppure noi viviamo in uno Stato in cui il Parlamento non fa una legge sui Dico, ossia le convivenze che non siano “consacrate” dal matrimonio, perché ritiene inderogabile la sacralità della famiglia, ma viene da domandarsi sempre di quali famiglie si parli, perché quelle dei detenuti, per esempio, non vengono tutelate da nessuno.

È per questo che ho visto e continuo a vedere tanti matrimoni disgregarsi.

Non dico che la possibilità di avere un po’ di intimità sia la soluzione di tutti i mali, però sicuramente sarebbero meno delle attuali, le famiglie che si sfasciano. Ma purtroppo non credo sia di facile attuazione una legge che dia la possibilità di avere colloqui intimi, proprio perché nel nostro Paese non c’è mai stato un cambiamento culturale in questo senso, e neppure si profila all’orizzonte, ma ritengo importante che si continui per lo meno a parlare di questi problemi, e di una possibile soluzione.

E poi qual è il motivo per cui un genitore in carcere non può dedicarsi alla crescita del proprio figlio, magari attraverso colloqui che non siano gli striminziti colloqui di oggi, un’ora in una sala in mezzo a trenta persone vocianti, ed in un continuo alzare di voci per riuscire a farsi sentire e per riuscire a sentire.

Naturalmente non si può pretendere di avere una sala colloqui personale né di avere tre o quattro ore di colloquio continuato, ma come potevo e come posso coltivare i legami affettivi con dei colloqui che di intimo non offrono nulla, quali concetti posso sviluppare con mio figlio in simili condizioni. Forse che per un padre o una madre questo diritto decade con la condanna, o meglio con il semplice arresto?

Ho sempre cercato con mio figlio di pormi di fronte a lui in modo tale, che non facesse i miei stessi errori, ma sicuramente non sono mai riuscito ad instaurare un rapporto padre-figlio come avrei voluto, o come lui avrebbe desiderato, proprio perché lui è stato posto sul mio stesso piano, giudicato come lo sono stato io, per il semplice fatto di essere mio figlio, e per non aver rinnegato il padre, questa è stata la sua unica colpa.

 

I parenti dei detenuti non hanno tutele

 

Vi sono stati anni in cui, quando mia madre era ancora in grado di viaggiare, non riuscivo però a fare i colloqui con lei perché a Pianosa, dove allora mi trovavo detenuto, pretendevano di effettuare perquisizioni corporali integrali, per motivi di sicurezza, ad una donna di 70 anni che penso non si sia mai fatta vedere nuda da suo marito. E tutto questo è stato fonte di sofferenza per una donna che aveva il figlio in carcere, una sofferenza causata sicuramente da me che avevo commesso il reato, ma uno Stato che non permette ad una madre colloqui decenti con il proprio figlio è veramente immune da colpe?

Mi rendo conto che bisogna prima cambiare le leggi, che bisogna prima cambiare la mentalità, che bisogna prima che il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria recepisca questa esigenza e si organizzi, per far sì che per lo meno i colloqui avvengano in condizioni non dico di intimità, ma almeno di discrezione, ma siamo nel 2008, non vi sembra che ci sia un ritardo incredibile?

Ecco, in questo credo che il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale abbia una rilevantissima importanza, per portare avanti questa ed altre istanze, e credo che la figura del Garante non sia solo una esigenza di oggi, ma sia una esigenza non dico della prima riforma penitenziaria del 1975, ma sicuramente della riforma del 1986, perché già allora si era notato che la figura designata a tutelare i diritti dei detenuti, ossia il Magistrato di Sorveglianza, difficilmente poteva svolgere questo compito con una totale imparzialità. Questo compito lo può svolgere il Garante dei diritti delle persone private della libertà, in quanto figura terza, fra il detenuto e il Magistrato di Sorveglianza, fra il detenuto e tutte le altre istituzioni, una figura capace di raccogliere le istanze del detenuto e portarle avanti nelle sedi istituzionali competenti.

Serve qualcuno che pensi anche ai diritti dei famigliari dei detenuti

La pena è mia: di chi i diritti?

Quando la pena di uno nega i diritti dell’altro

 

di Giovanni Prinari

Casa di reclusione di Carinola

 

L’articolo 27 della Costituzione recita: “La responsabilità penale è personale”. Eppure, per ogni soggetto che viene condannato in nome del popolo italiano, c’è parte di quello stesso popolo che, pur non avendo commesso nessun crimine, nessun reato, viene anch’esso condannato. È il popolo dei familiari dei detenuti, del quale mai nessun giornalista parla nei suoi articoli o in televisione, quasi a voler significare che non esiste, che i detenuti sono persone a se stanti, senza una storia familiare o affettiva alle spalle che, invece, è fatta di genitori, di mogli, di figli, di fratelli e sorelle, che senza colpa e senza macchia, si trovano (come tutte le vittime incolpevoli) a dover pagare una pena e una sofferenza mai voluta, mai cercata, mai neppure immaginata.

Però la pagano! La pagano nel momento in cui il loro congiunto viene tratto in arresto perché ha sbagliato, perché ha infranto la legge, perché è giusto che paghi… ma è giusto che paghi lui, perché lui l’ha infranta e non loro, ma loro pagano comunque! Pagano perché le condizioni di una famiglia che si vede privata del proprio capofamiglia sono problematiche e atipiche rispetto alle altre. Ma la loro pena (impersonale) non finisce con l’arresto. C’è, poi, quella aggiuntiva e maggiormente afflittiva che si verifica nel momento in cui il loro congiunto viene trasferito a un istituto lontano dal loro luogo di residenza, creando ulteriori disagi e problemi. Quella dei trasferimenti è una consuetudine che contrasta con la legge penitenziaria che, invece, favorisce il rapporto tra detenuto e famiglia. È una prassi palesemente contrastante con quel principio (dell’articolo 115 del D.P.R. 230/2000 sulla territorialità dell’esecuzione della pena) che vede nella rieducazione una delle finalità della pena, e vede la famiglia quale nucleo fondamentale per il futuro reinserimento del detenuto. Ciò non potrà verificarsi se al detenuto, nel corso della carcerazione, viene fatto rompere ogni contatto con i familiari, il coniuge e i figli a causa dell’allontanamento.

La pena è mia: di chi diritti? Ma se questo dovrebbe riguardare colui che sconta la condanna (che già da sola è pena in quanto tale), la famiglia di origine, di contro, non ha alcuna pena, né morale né materiale, da espiare e non sempre gode delle condizioni economiche favorevoli ad affrontare viaggi, per cui si trova a rinunciare ai colloqui perché, non bisogna dimenticarlo, nella maggior parte dei casi si tratta di persone oneste e rispettose della legge, persone che lavorano e pagano le tasse e adempiono a quei doveri come ogni buon cittadino è tenuto a fare nei confronti dello Stato. La Costituzione, nella parte prima, parla di “diritti e doveri dei cittadini”, e all’articolo 13 IV° comma recita: “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Non è forse una violenza fisica e morale quella che subisce un cittadino, familiare di un detenuto, nel momento in cui gli viene tolta la libertà di poter vedere il proprio congiunto detenuto quando questi viene trasferito dal carcere della propria città a quello di un’altra città e regione? E poi, non è anche una violenza fisica e morale nei confronti del detenuto stesso non poter vedere i propri cari?

 

Da un anno i miei cari non mi vedono: può la mia pena negare dei diritti alla mia famiglia?

 

La pena è mia: di chi i diritti? Sempre nella parte prima della Costituzione, l’articolo 28 recita: “I funzionari e i dipendenti dello Stato… sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione dei diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato…”. E cosa fa lo Stato per questi cittadini che subiscono la violazione dei loro diritti a non poter vedere il loro congiunto detenuto? Da loro non può pretendere solo i doveri con il pagamento delle tasse. È un diritto oppure no per questi familiari poter vedere il loro congiunto detenuto? C’è scritto all’articolo 29 della Costituzione: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. I diritti di quale famiglia? È compresa anche quella del detenuto? Vi è, poi, la legge 26 luglio 1975, nr. 354, meglio conosciuta come Ordinamento penitenziario, che all’articolo 10 3° comma, afferma: “Particolare favore viene accordato ai colloqui coi familiari…”, mentre all’articolo 42 dice che “i trasferimenti sono disposti per gravi e comprovati motivi di sicurezza, per esigenza dell’istituto, per motivi di giustizia, di salute, di studio e familiare. Nel disporre i trasferimenti deve essere favorito il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza delle famiglie…”.

Tutto ciò, va considerato nell’ottica dell’articolo 28: “Particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie” e, nell’articolo 15, “il trattamento del condannato e dell’internato è svolto… agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e di rapporti con la famiglia”. C’è, poi, nelle Regole penitenziarie europee, l’articolo 65 primo comma che dice: “Ogni sforzo deve essere fatto per assicurarsi che i regimi degli istituti siano regolati e gestiti in maniera da: lett. C) mantenere e rafforzare i legami dei detenuti con i membri della loro famiglia e con la comunità esterna, al fine di proteggere gli interessi dei detenuti e delle loro famiglie”.

La pena è mia: di chi i diritti? I nostri parlamentari dicono: “Le leggi vanno applicate”. Ma davvero si può dire che quella penitenziaria, con i trasferimenti, venga applicata? La pena è mia in qualsiasi carcere io la sconti, ma dei miei familiari è il diritto di vedermi perché non hanno pena da espiare, ma solo affetto da dare e ricevere, e i sentimenti non si possono elemosinare.

Sono di Lecce, sono detenuto ininterrottamente dal 1993 e mi trovo nel carcere di Carinola (CE). Da un anno i miei cari non mi vedono: può la mia pena negare dei diritti alla mia famiglia?

 

 

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